
Il battaglione partigiano dei Leoni di Breda Solini, composto da rom e sinti
Tra le storie meno conosciute e più nascoste della lotta di liberazione dal nazifascismo, c'è indubbiamente quella della partecipazione di Rom e Sinti ai movimenti resistenziali, in Italia come nel resto dell'Europa. Non esistono stime attendibili, anche per la penuria di studi approfonditi, ma sappiamo per certo oramai che in Francia un battaglione partigiano formato da sinti combatté i nazisti supportando lo sbarco in Normandia degli Alleati. Mentre in Slovacchia sempre un battaglione partigiano formato da appartenenti alla minoranza Rom fermò il contrattacco tedesco a Banska Bystrica durante l’insurrezione dell’estate del 1944.
Anche in Italia, dopo l’8 Settembre del 1943, diversi Rom e Sinti, fuggiti dai campi di concentramento e scampati allo sterminio, parteciparono alla lotta partigiana anche a costo della propria vita. Altri aiutarono da patrioti le formazioni partigiane.

Il professor Luca Bravi, storico dell'università di Firenze, ha svolto un lavoro importante all’interno del progetto Memors con la raccolta delle fonti orali dei sopravvissuti al Porrajmos (l'equivalente della Shoa per i Rom e i Sinti). Lo abbiamo intervistato.
Quale fu il contributo di Rom e Sinti alla Resistenza ?
“Per prima cosa dobbiamo dire che si trattò di un contributo concreto: Sinti e Rom hanno fatto anch'essi parte della Resistenza. È un concetto che va ribadito perché viene spesso taciuto e misconosciuto. L'altro elemento da mettere in evidenza è che lo hanno fatto non tanto per una questione di nazionalità, perché italiani, ma per un senso di partecipazione a quegli ideali di giustizia e libertà che hanno animato il movimento resistenziale. E questo è uno degli elementi più importanti dei racconti che si incontrano quando si parla di questi argomenti all'interno delle comunità”.
Come ricordano le comunità Rom e Sinte quel periodo?
“Con un duplice sentimento. Da un lato l'esperienza viva, partecipata e sentita di poter affermare "c'eravamo anche noi, anche le persone che fanno parte della nostra comunità hanno partecipato alla liberazione dell'Italia, hanno combattuto, talvolta anche a costo della vita". D'altro lato c'è l'amarezza perché, nonostante quello che è successo, non sono stati sconfitti né i pregiudizi né il razzismo e le persone Rom e Sinte sono ancora percepite dalla comunità maggioritaria come qualcosa di differente, nella migliore delle ipotesi, da disprezzare, nella peggiore. E allora la percezione evidente è che questo fatto, l'aver cioè combattuto per un Paese libero e democratico, non abbia cambiato il loro destino, di persone da tenere ai margini, da scacciare. Quindi c'è questo aspetto doloroso di sentirsi parte di una storia, quella che ha portato alla Repubblica e alla democrazia, ma non essere riconosciuti come parte di questa storia”.
Se dovesse raccontare una storia emblematica, quale sceglierebbe?
"Direi quella di Amilcare Taro Debar, nome di battaglia 'corsaro'. Nato a Frossasco (Torino), il 16 giugno 1927, rimase orfano a tre anni e insieme alla sorella Elvira e venne accolto prima in un istituto di suore, successivamente nell’orfanotrofio di Racconigi nel Cuneese. A diciassette anni, nei primi mesi del 1944, diventa prima staffetta partigiana nelle Formazioni Garibaldi, portando ordini nelle valli cuneesi, poi partigiano combattente nella 48° Bgt. Garibaldi “Dante Di Nanni”, partecipando alla Liberazione di Torino. Dopo la guerra Amilcare, intervistato, alla domanda su quale fosse stato il momento più bello della sua esperienza di combattente per la libertà e la democrazia, risponde: "Era partigiano con me ed era una bellissima persona, il momento più bello è stato quando Sandro Pertini da presidente mi ha consegnato il mio diploma da partigiano, ci siamo abbracciati come si fa tra compagni di una vita: avevamo entrambi combattuto per la libertà". Questo piccolo estratto che rilascia all'inizio degli anni Duemila alla Shoah foundation segnala la scelta che lui aveva fatto a 17 anni, quando era salito sui monti si era unito alle formazioni partigiane. In quel momento lui ancora non sapeva di essere Sinto. Lo scoprì solo dopo la guerra, arruolatosi in polizia, quando a un posto di blocco ferma una macchina, e scopre che le persone all'interno, di origine sinta, avevano il suo stesso cognome. Allora incuriositosi va a riscoprire la sua storia familiare. A quel punto decide di tornare nella sua comunità e di vivere con loro tutta la vita, battendosi per i diritti dei Sinti e portando la loro voce nelle istituzioni europee e internazionali alla ricerca di un riconoscimento che fosse soprattutto l'eliminazione del pregiudizio. In perfetta corrispondenza con quegli stessi ideali per cui si era arruolato nella formazioni partigiane ed aveva combattuto il fascismo, alla ricerca di giustizia sociale e contro la discriminazione”.