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Home » Attualità » Aggredita perché indossa il niqab: la 29enne bengalese insultata e picchiata denuncia l’accaduto

Aggredita perché indossa il niqab: la 29enne bengalese insultata e picchiata denuncia l’accaduto

È accaduto mercoledì sera a Marghera (Ve) alla moglie di un imam della zona che si stava recando in visita a parenti con il padre quando due donne le si sono avventate contro

Laura Nasali
9 Dicembre 2022
La moglie di un imam è stata aggredita a Marghera per aver indossato il niqab

La moglie di un imam è stata aggredita a Marghera per aver indossato il niqab

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“Mi fanno ancora male la testa e l’orecchio per il pugno. Ma quello è il meno, la dottoressa mi ha dato delle gocce che mi fanno stare meglio. Il problema è che adesso ho paura a uscire di casa e in famiglia non riesco a parlare di altro”. Quella che doveva essere una semplice visita a dei parenti, si è trasformata presto in un incubo ad occhi aperti per Sanuara, ventinovenne bengalese, che vive a Marghera, Venezia, da ormai 15 anni. La sua unica colpa? Quella di indossare il niqab, il velo islamico – da cui è possibile intravedere solo gli occhi -. La giovane ancora sotto choc dopo l’aggressione subita mercoledì scorso, mentre si stava recando a piedi, insieme all’anziano padre, a fare visita alla cognata.

Insulti e offese razziste

Aggredita perché indossa il niqab

La donna, moglie di un imam della zona, si trovava a pochi passi dal portone di casa dei parenti, in un quartiere popolare di periferia, quando è stata insultata e aggredita fisicamente da due donne, sotto gli occhi dei passanti, i quali sono rimasti indifferenti davanti all’accaduto, arrivando addirittura a sminuire un gesto di tale violenza. Prima un pugno, poi le è stato stato tolto e fatto a brandelli il niqab, umiliandola. “Ma come ti sei vestita, sembri un fantasma” e poi “non sanno nemmeno che in Italia non si può andare in giro conciati in questo modo”. Le donne, anch’esse residenti dello stesso palazzo, probabilmente non sono a conoscenza del fatto che Sanuara vive da anni in Italia, ha studiato nelle scuole della città e i suoi figli sono nati all’ospedale all’Angelo, la struttura sanitaria fiore all’occhiello della sanità veneziana.

L’aggressione a Sanuara e al padre

La ragazza, invece, ha compreso perfettamente cosa c’era dietro gli insulti e le offese che le sono stati rivolti. Spaventata, preferisce non reagire. Lo fa il padre, che cammina a fatica per un problema alla gamba, chiedendo alle due il motivo di frasi così razziste. L’anziano, è scritto nella denuncia, “riceve in risposta parole di disprezzo, sentendosi dire che se la figlia voleva andare in giro vestita in quel modo, era meglio che rimanesse a casa”. Le due inquiline, a quel punto, gli si avventano contro ed è allora che Sanuara scatta e si frappone fra il padre e le donne inferocite. È un gesto istintivo ma scatena la reazione: viene presa prima a calci, poi a pugni. Infine le viene tolto il velo, fatto in mille pezzi. Accompagnata al pronto soccorso, alla giovane vengono diagnosticati cinque giorni di prognosi. Con il referto in mano la 29enne si è recata immediatamente alla polizia per denunciare ciò che era avvenuto: a fale più male, però, è il fatto che nessuno, pur vedendo, sia intervenuto.

L’indifferenza che ferisce

“Quello che fa male – confessa la ragazza – è che le persone che passavano di là non abbiano fatto niente per aiutare me e mio padre. Anzi, la portinaia si è allontanata con la donna che mi aveva aggredito, dandole ragione sul fatto che era colpa del velo che indossavo se era accaduto tutto questo”, La storia fa in poche ore il giro di tutta la comunità bengalese, composta di circa 10mila persone che vivono di commercio e lavoro nel vicino cantiere navale. La rabbia monta,  si chiede che Sanuara possa avere giustizia. La comunità si schiera con lei promettendo proteste e mobilitazioni, tanto che la famiglia si sta muovendo e vorrebbe pubblicare dei manifesti. “Portare il velo non è reato – reca la scritta sul volantino -. Anzi, è un diritto costituzionalmente garantito. È ora di smetterla di terrorizzare le donne musulmane che portano il velo”. Si tratta, in effetti, dell’ennesimo caso di violenza e denigrazione sulle donne, appartenenti a una minoranza sociale, per di più. Questa volta, a ferire, è anche la mancata solidarietà femminile, quella rete sociale che dovrebbe sostenere, comprendere e aiutare a sentirsi meno sole. Un fallimento davanti al quale è impossibile rimanere impassibili.

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Instagram

  • Per la prima volta nella storia del calcio, un arbitro ha estratto il cartellino bianco. No, non si tratta di un errore: se il giallo e il rosso fanno ormai parte di tantissimi anni delle regole del gioco ed evidenziano un comportamento scorretto, quello bianco vuole invece "premiare", in maniera simbolica, un gesto di fair play. Il tutto è avvenuto in Portogallo, durante un match di coppa nazionale tra il Benfica e lo Sporting Lisbona femminile.

Benfica-Sporting Lisbona femminile, quarti di finale della Coppa del Portogallo. I padroni di casa si trovano in vantaggio per 3-0 e vinceranno la sfida con un netto 5-0, ma un episodio interrompe il gioco: un tifoso sugli spalti accusa un malore, tanto che gli staff medici delle due squadre corrono verso le tribune per soccorrerlo. Dopo qualche minuto di paura, non solo per le giocatrici in campo ma anche per gli oltre quindicimila spettatori presenti allo stadio, il supporter viene stabilizzato e il gioco può riprendere. Prima, però, la direttrice di gara Catarina Campos effettua un gesto che è destinato a rimanere nella storia del calcio: estrae il cartellino bianco nei confronti dei medici delle due squadre.

Il cartellino bianco non influenza in alcun modo il match, né il risultato o il referto arbitrale; chissà che, da oggi in poi, gli arbitri non cominceranno ad agire più spesso, per esaltare un certo tipo di condotta eticamente corretta portata avanti anche dai calciatori.

#lucenews #cartellinobianco #calcio #fairplay
  • Son tutte belle le mamme del mondo. Soprattutto… quando un bambino si stringono al cuor… I versi di un vecchio brano ricordano lo scatto che sta facendo il giro del web. Quella di una madre che allatta il proprio piccino sul posto di lavoro. In questo caso la protagonista è una supermodella –  Maggie Maurer – che ha postato uno degli scatti più teneri e glamour di sempre. La super top si è fatta immortalare mentre nutre al seno la figlia Nora-Jones nel backstage dello show couture di Schiaparelli, tenutosi a Parigi.

La top model americana 32enne, che della maison è già musa, tanto da aver ispirato una clutch – non proprio una pochette ma una borsa che si indossa a mano che riproduce il suo volto –  nell’iconico scatto ha ancora il viso coperto dal make-up dorato realizzato dalla truccatrice-star Path McGrath, ed è coperta solo sulle spalle da un asciugamano e un telo protettivo trasparente. 

L’immagine è forte, intensa, accentuata dalla vernice dorata che fa apparire mamma Maurer come una divinità dell’Olimpo, una creatura divina ma squisitamente terrena, colta nel gesto di nutrire il proprio piccolo.

Ed è un’immagine importante, perché contribuisce a scardinare lo stigma dell’allattamento al seno in pubblico, sul luogo di lavoro e in questo caso anche sui social, su cui esistono ancora molti tabù. L’intera gravidanza di Maggie Maurer è stata vissuta in chiave di empowerment, e decisamente glamour. Incinta di circa sei mesi, ha sfilato per Nensi Dojaka sfoggiando un capo completamente trasparente della collezione autunno inverno 2022, e con il pancione.

Nell’intimo post su Instagram, Maggie Maurer ha deciso quindi condividere con i propri follower la sua immagine che la ritrae sul luogo di lavoro con il volto dipinta d’oro, una parte del suo look, pocoprima di sfilare per la casa di moda italiana, Schiaparelli. In grembo, ha sua figlia, che sta allattando dietro le quinte della sfilata. Le parole scritte a finco della foto, la modella ha scritto “#BTS #mommy”, evidenziando il lavoro senza fine della maternità, nonostante i suoi successi.

di Letizia Cini ✍🏻

#lucenews #maggiemaurer #materintà #mommy
  • La tolleranza, l’inclusione e il rispetto svaniscono nel momento in cui ci si mette davanti alla tastiera di un computer. Gli haters non sono spariti né accennano a diminuire. Esistono, sono molti più di prima, attaccano e anzi rilanciano. Oltre lo schermo, sono le donne soprattutto, e poi le persone con disabilità e le persone omosessuali, a essere i destinatari di insulti e offese di ogni tipo.

È questo il triste podio che ci consegna la ricerca condotta da Vox, Osservatorio italiano sui diritti, che ha fotografato l’odio via social, in particolare attraverso l’esame dei tweet. E le cose non vanno meglio rispetto all’anno precedente, anzi. Dalla settima edizione di questa ricerca è emerso infatti che nel 2022, da gennaio a ottobre, sono stati estratti quasi 630mila tweet, 583mila dei quali negativi, pari al 93% del totale, mentre invece l’anno prima i tweet presi in esame erano stati poco più di 797mila, 550mila dei quali erano negativi, cioè il 69% del totale.

Le donne si confermano essere il bersaglio numero uno, seguite appunto dalle persone con disabilità e dalle persone omosessuali, tornate nuovamente al centro del mirino, e non solo di quello che fa riferimento all’hate speech.

Oltre agli onnipresenti atteggiamenti di body shaming, molti attacchi hanno avuto come contenuto la competenza e la professionalità delle donne stesse. E, dunque, è il lavoro delle donne a emergere anche quest’anno quale co-fattore scatenante lo hate speech misogino, a conferma di una tendenza già rilevata lo scorso anno. Quanto alle persone con disabilità, risultata la seconda categoria più colpita.

Per quanto concerne invece gli stranieri e i migranti, la categoria sociale con una percentuale più alta di incremento di tweet negativi all’interno del cluster rispetto al 2021. Anche qui, va sottolineata la forte attenzione mediatica che si accende sugli sbarchi dei migranti e sulla situazione dei profughi provenienti dall’Ucraina, nonché dal contesto politico italiano e dalla sua relazione con l’Unione europea circa la gestione della situazione migratoria.

📲Come difendersi? Qual è la cura contro l
  • “Sesso. Libertà. Uguaglianza. Amore in tutti i sensi. E tutti a tavola!”. È il messaggio che Rosa Chemical, all’anagrafe Manuel Franco Rocati, porta a Sanremo 2023 per quello che sarà il suo esordio al festival con il brano “Made in Italy”.

Il rapper classe 1998, arriva da debuttante, ma con una storia già ben definita alle spalle. Poliedrico, eclettico, difficilmente etichettabile, ha dato sfogo alla sua creatività non solo a livello musicale – con influenze che spaziano dall’hiphop alla trap all’elettronica -, ma lavorando anche come modello per Gucci, come art and creative director e dedicandosi anche alla scrittura di videoclip. 

Nel 2019 ha pubblicato “Forever”, il suo primo album, che è stato certificato disco d’oro, da lì una serie di collaborazioni che lo hanno portato anche ad affiancare Tananai l’anno scorso nella serata cover del Festival.

“Molto spesso sono giudicato perché diverso, ma dal diverso bisogna imparare, assorbire. In Italia invece ciò che è diverso è giudicato. E io da diverso in passato mi sono sentito sbagliato” racconta Rosa Chemical. 

Non a caso, a Sanremo, il 25enne paladino della libertà di essere se stessi senza farsi condizionare dalle norme della società, arriva con il brano “Made in Italy” e un obiettivo ben preciso: “portare un messaggio di libertà contro ogni tipo di discriminazione, per promuovere l’uguaglianza e il rispetto. Cerco di creare dibattito: sono sempre pronto a spiegare il mio punto di vista, ma se non c’è apertura mentale non mi sento di dover dire nulla”.

Il brano “È piedi, con cui calpestare ciò che è generalista e che chiude tutto dentro una gabbia fatta di tabù. ‘Made in Italy vuole’ liberarci dalle censure, dagli stereotipi e dal politicamente corretto”. 

Come il titolo e la copertina, anche il testo è provocatorio e racchiude al suo interno tutta l’essenza e l’irriverenza prorompente di Rosa Chemical perché parla in maniera sfrontata di temi ancora oggi considerati tabù come il sesso, la fluidità e il poliamore. 

“Non c’è cosa più ‘Made in Italy’ del Festival di Sanremo. Non vedo l’ora di salire su quel palco”.

#lucenews #sanremo2023 #rosachemical
"Mi fanno ancora male la testa e l'orecchio per il pugno. Ma quello è il meno, la dottoressa mi ha dato delle gocce che mi fanno stare meglio. Il problema è che adesso ho paura a uscire di casa e in famiglia non riesco a parlare di altro". Quella che doveva essere una semplice visita a dei parenti, si è trasformata presto in un incubo ad occhi aperti per Sanuara, ventinovenne bengalese, che vive a Marghera, Venezia, da ormai 15 anni. La sua unica colpa? Quella di indossare il niqab, il velo islamico - da cui è possibile intravedere solo gli occhi -. La giovane ancora sotto choc dopo l'aggressione subita mercoledì scorso, mentre si stava recando a piedi, insieme all'anziano padre, a fare visita alla cognata.

Insulti e offese razziste

Aggredita perché indossa il niqab
La donna, moglie di un imam della zona, si trovava a pochi passi dal portone di casa dei parenti, in un quartiere popolare di periferia, quando è stata insultata e aggredita fisicamente da due donne, sotto gli occhi dei passanti, i quali sono rimasti indifferenti davanti all'accaduto, arrivando addirittura a sminuire un gesto di tale violenza. Prima un pugno, poi le è stato stato tolto e fatto a brandelli il niqab, umiliandola. "Ma come ti sei vestita, sembri un fantasma" e poi "non sanno nemmeno che in Italia non si può andare in giro conciati in questo modo". Le donne, anch'esse residenti dello stesso palazzo, probabilmente non sono a conoscenza del fatto che Sanuara vive da anni in Italia, ha studiato nelle scuole della città e i suoi figli sono nati all'ospedale all'Angelo, la struttura sanitaria fiore all'occhiello della sanità veneziana.

L'aggressione a Sanuara e al padre

La ragazza, invece, ha compreso perfettamente cosa c'era dietro gli insulti e le offese che le sono stati rivolti. Spaventata, preferisce non reagire. Lo fa il padre, che cammina a fatica per un problema alla gamba, chiedendo alle due il motivo di frasi così razziste. L'anziano, è scritto nella denuncia, "riceve in risposta parole di disprezzo, sentendosi dire che se la figlia voleva andare in giro vestita in quel modo, era meglio che rimanesse a casa". Le due inquiline, a quel punto, gli si avventano contro ed è allora che Sanuara scatta e si frappone fra il padre e le donne inferocite. È un gesto istintivo ma scatena la reazione: viene presa prima a calci, poi a pugni. Infine le viene tolto il velo, fatto in mille pezzi. Accompagnata al pronto soccorso, alla giovane vengono diagnosticati cinque giorni di prognosi. Con il referto in mano la 29enne si è recata immediatamente alla polizia per denunciare ciò che era avvenuto: a fale più male, però, è il fatto che nessuno, pur vedendo, sia intervenuto.

L'indifferenza che ferisce

"Quello che fa male - confessa la ragazza - è che le persone che passavano di là non abbiano fatto niente per aiutare me e mio padre. Anzi, la portinaia si è allontanata con la donna che mi aveva aggredito, dandole ragione sul fatto che era colpa del velo che indossavo se era accaduto tutto questo", La storia fa in poche ore il giro di tutta la comunità bengalese, composta di circa 10mila persone che vivono di commercio e lavoro nel vicino cantiere navale. La rabbia monta,  si chiede che Sanuara possa avere giustizia. La comunità si schiera con lei promettendo proteste e mobilitazioni, tanto che la famiglia si sta muovendo e vorrebbe pubblicare dei manifesti. "Portare il velo non è reato - reca la scritta sul volantino -. Anzi, è un diritto costituzionalmente garantito. È ora di smetterla di terrorizzare le donne musulmane che portano il velo". Si tratta, in effetti, dell’ennesimo caso di violenza e denigrazione sulle donne, appartenenti a una minoranza sociale, per di più. Questa volta, a ferire, è anche la mancata solidarietà femminile, quella rete sociale che dovrebbe sostenere, comprendere e aiutare a sentirsi meno sole. Un fallimento davanti al quale è impossibile rimanere impassibili.
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