
Donne afghane in fuga dopo l'arrivo dei talebani
Milano – Una firma per salvare sessanta vite preziose. È ciò che chiedono le due piattaforme più attive nella promozione di petizioni per i diritti umani – Avaaz e Change.org – in un'inedita alleanza per sostenere una campagna davvero importante. Si tratta di fare pressione sul governo di Islamabad, che ha prima annunciato e da un mese avviato la deportazione di massa dei profughi afghani che si erano rifugiati in Pakistan negli ultimi anni, e in particolare subito dopo l'abbandono dell'Afghanistan da parte delle truppe degli Stati Uniti, nell'agosto 2021.
Attiviste per i diritti delle donne arrestate, torturate, violentate
Tra le migliaia di profughi ci sono sessanta attiviste per i diritti delle donne che se rimpatriate corrono un altissimo rischio di essere giustiziate o quantomeno detenute senza processo, torturate, violentate e sottoposte a ogni sorta di abusi per un tempo indefinito. Due terzi di queste donne hanno già pagato un prezzo molto alto per il coraggio di ribellarsi all'orribile oppressione del regime talebano nei confronti delle donne, che dopo aver promesso di attenuare le restrizioni ai loro diritti umani e civili, le ha reintrodotte una dopo l'altra.

Le donne in Afghanistan non possono fare niente altro che servire come schiave i familiari maschi e partorire figli a ripetizione dopo matrimoni precoci e combinati. Non possono studiare, lavorare, fare sport, praticare attività di qualsiasi tipo tranne quelle domestiche tra le mura di casa. Molte di coloro che durante l'occupazione americana avevano potuto cambiare la propria condizione hanno subìto, dopo la partenza delle truppe Usa, ritorsioni terribili. Tra queste appunto una quarantina delle 60 rifugiate in Pakistan, che prima della fuga sono state arrestate, torturate e violentate.
Zara, insegnante e attivista per i diritti delle donne, a Kabul organizzò proteste al grido di “Pane, lavoro e libertà”. Durante una di queste manifestazioni fu arrestata, torturata e brutalmente picchiata, riportando gravi lesioni alla spina dorsale e a un occhio. Anche dopo il suo rilascio, è stata minacciata, la sua casa sorvegliata e la sua famiglia ha subìto pressioni per costringerla al silenzio. I talebani hanno diffuso il suo nome e la sua foto ai checkpoint, per assicurarsi di arrestarla in caso di espulsione.
Non molto diversa la sorte di un'altra attivista, Fariba, sequestrata nel 2023 e ripetutamente torturata e violentata dai talebani. Malgrado tutto, la donna non ha rinunciato alla sua lotta per la libertà. Grazie alle pressioni internazionali, è stata rilasciata ed è riuscita a fuggire in Pakistan, ma anche qui rischia di essere uccisa da agenti talebani infiltrati. Malgrado i gravi traumi fisici e psichici, queste coraggiose attiviste dal Pakistan continuano a organizzare proteste e dichiarazioni pubbliche per aumentare nel mondo la consapevolezza sugli orrori che le loro connazionali devono subire in patria. Sognano di tornare in un Afghanistan libero, dove possano aiutare a ricostruire il loro Paese devastato. Senza l'aiuto della comunità internazionale, però, questo futuro non arriverà mai.
Perché il Pakistan deporta i rifugiati afghani?
Ma perché il Pakistan dopo quasi quattro anni ha deciso di deportare i rifugiati afghani? “La svolta ha probabilmente a che fare con l'arrivo alla Casa bianca di Donald Trump – spiega Rebecca Trotter, attivista dell'organizzazione “Food for thought Afghanistan”, che promuove iniziative e opportunità educative e lavorative per le bambine e le donne afghane sia in patria che altrove –. Il nuovo presidente americano non sembra affatto interessato a preservare i diritti umani e la tutela di quelli delle donne in particolare”.
Il governo di Islamabad peraltro deve fronteggiare all'interno del Paese l'attività terroristica di gruppi di estremisti islamici che bruciano le scuole per ragazze e uccidono le insegnanti, come accaduto due anni fa. Tutti ricorderanno la sparatoria sullo scuolabus in cui fu gravemente ferita alla testa Malala, che in seguito ebbe il Nobel per la Pace per le sue campagne a favore del diritto allo studio delle bambine in tutto il mondo. Inoltre, dopo il massacro di 24 turisti nel Kashmir indiano, i rapporti tra il Pakistan e il gigante asiatico si sono fatti molto tesi, e Islamabad potrebbe essere interessato a migliorare le relazioni con il confinante Afghanistan. Venute meno le pressioni della comunità internazionale e dell'ex presidente Usa Joe Biden, la deportazione di massa dei rifugiati afghani potrebbe avvenire senza particolari conseguenze politiche.
Cosa succede in Pakistan?
Cosa sta avvenendo dunque in Pakistan in queste settimane? “La deportazione dei rifugiati afghani è cominciata – replica Rececca Trotter –. Le attiviste tentano di nascondersi e sfuggire alla cattura, ma la situazione si fa ogni giorno più difficile. La pressione internazionale deve aumentare. Abbiamo già raccolto quasi un milione di firme in tutto il mondo (la petizione è disponibile qui per Avaaz e qui per Change.org), ma non basta. Insieme a HeartWork, Avaaz e Udhara abbiamo stretto un'alleanza per salvare le attiviste. Ci siamo coordinati con gli attivisti per i diritti delle donne in Pakistan”.

Cosa chiedete al governo pakistano? “Di fermare la deportazione delle attiviste e concedere il tempo necessario per trovare alternative sicure. Il governo brasiliano si è detto disponibile a concedere in breve tempo visti d'ingresso umanitari per queste persone. Il nostro partner Panahgah in Brasile sta lavorando in questo senso. Ma abbiamo bisogno di fondi per poter portare a termine il trasferimento sicuro delle donne in Brasile. Servono un milione e mezzo di dollari. Ogni contributo aiuta. Si può donare qui. Al momento 1.370 persone hanno donato poco meno di 380mila dollari”.
“Tutti noi ricordiamo lo sgomento e il senso di impotenza provati di fronte ai video che mostravano le madri afghane consegnare i figli neonati ai soldati americani in partenza da Kabul – conclude Trotter –. Con il vostro aiuto abbiamo la possibilità di fare qualcosa per salvare la vita di sessanta donne e offrire una speranza per il futuro dell'Afghanistan”.