L’autismo non è più una questione di nicchia: casi in crescita negli Stati Uniti. In Italia aumentano quelli severi

Intervista a Carlo Hanau, esperto in politiche socio-sanitarie, fondatore dell’Associazione APRI OdV ETS e voce autorevole nel dibattito sull’autismo in Italia: “Serve una svolta culturale e politica. Diagnosi, cura e scuola sono diritti minimi che devono essere garantiti”

di CATERINA CECCUTI
12 maggio 2025
Aumentano i casi di autismo segnalati negli Stati Uniti (immagine generata con l'AI)

Aumentano i casi di autismo segnalati negli Stati Uniti (immagine generata con l'AI)

L’autismo è in aumento. Non è uno slogan, è una certezza numerica: secondo i dati aggiornati al 2022 del CDC americano (Centers for Disease Control and Prevention), negli Stati Uniti un bambino su 31 riceve oggi una diagnosi di disturbo dello spettro autistico. Parliamo di un’impennata costante che, anno dopo anno, registra dati sempre più allarmanti. Ma come leggere questi numeri? E, soprattutto, come si sta comportando il nostro Paese per rispondere a una sfida che non è più emergenziale, ma strutturale? Lo abbiamo chiesto a Carlo Hanau, esperto in politiche socio-sanitarie, fondatore dell’Associazione APRI OdV ETS e voce autorevole nel dibattito sull’autismo in Italia.

Il Professor Carlo Hanau
Il Professor Carlo Hanau

Professor Hanau, i numeri dell’autismo continuano a crescere. Qual è la sua lettura del fenomeno?

“I numeri parlano chiaro: negli Stati Uniti si è passati da un bambino su 44 nel 2018, a uno su 36 nel 2020, fino a uno su 31 nel 2022. Non possiamo più nasconderci dietro l’alibi di “diagnosi più attente”: l’incremento è reale. In Italia siamo molto indietro, sia nel monitoraggio che nella risposta terapeutica. L’ultima stima ufficiale del nostro Istituto Superiore di Sanità, datata 2019, parlava di un bambino ogni 77. Ma se seguiamo la curva americana, è evidente che siamo già oltre”.

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Quali sono, secondo lei, le conseguenze più gravi di questo ritardo?

“La prima, e più drammatica, è il tempo perso. L’unico strumento che oggi abbiamo per ridurre l’impatto dell’autismo è l’intervento precoce e intensivo. Ma senza diagnosi tempestive, senza strumenti educativi efficaci, senza una sanità e una scuola preparate, perdiamo mesi, anni fondamentali. E condanniamo questi bambini a una vita più difficile, quando invece potrebbero essere aiutati a sviluppare al meglio il loro potenziale”.

In altri Paesi, però, il sistema sanitario sembra rispondere meglio…

“Assolutamente sì. Negli Stati Uniti le famiglie sanno che l’intervento tempestivo, soprattutto se basato sull’ABA (Applied Behaviour Analysis), può fare davvero la differenza. E le istituzioni offrono queste terapie, pur con sistemi diversi tra Stato e Stato. C’è una consapevolezza diffusa. In Italia invece, nonostante la Linea guida ministeriale del 2011 avesse indicato chiaramente l’ABA come intervento di elezione, abbiamo fatto passi indietro. Alcuni nuovi esperti dell’ISS hanno persino cancellato quella linea guida, mettendo tutte le terapie sullo stesso piano, anche quelle senza prove di efficacia”.

Una scelta che voi avete contestato apertamente…

“Certo. Insieme ad APRI e ad altre associazioni, abbiamo denunciato questo grave errore. È come se in oncologia si mettesse sullo stesso piano la chemioterapia e l’omeopatia. Questo “effetto pavimento”, come lo definiscono gli statistici, non fa altro che indebolire le possibilità di inserire nei LEA – i Livelli Essenziali di Assistenza – gli interventi realmente efficaci ma più costosi. E intanto le famiglie rimangono orfane di interventi, oppure devono sobbarcarsi spese ingenti per garantire un futuro ai propri figli”.

Cosa dovrebbe fare subito l’Italia?

“Investire nella diagnosi precoce, innanzitutto. Serve un monitoraggio costante, come avviene negli USA, su campioni rappresentativi. Poi bisogna garantire a tutti interventi psicoeducativi intensivi, almeno nei primi anni di vita. La scuola deve diventare parte integrante di questo processo, formando insegnanti e personale educativo. L’autismo non è una condizione “marginale”, è una realtà sempre più centrale nel nostro tempo, e non possiamo permetterci il lusso di restare indietro.”

Un messaggio forte arriva anche dalla Giornata Mondiale dell’Autismo di quest’anno.

“Sì, ed è incoraggiante vedere che associazioni come ANGSA, ANFFAS e perfino i Lions italiani stiano spingendo per sensibilizzare l’opinione pubblica. Il tema di quest’anno era “Autismo e inclusione, nessuno escluso”, ma rischia di restare uno slogan se non vengono garantiti i diritti minimi: diagnosi, cura, scuola. Serve una mobilitazione dal basso, come sta accadendo, ma serve anche una svolta politica. Il nostro Paese non può continuare a trattare l’autismo come una questione di nicchia. È una questione sociale e sanitaria prioritaria”.

Personalmente, Professore lei ha ancora fiducia nel cambiamento?

“Sì, sempre. Perché vedo il coraggio delle famiglie, la determinazione delle associazioni, la generosità di tanti operatori. Ma serve una risposta collettiva. La consapevolezza è solo il primo passo. Ora servono fatti”.