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Home » Attualità » Bimbo di otto anni affetto da disagio mentale rischia la pena di morte in Pakistan. É di religione indu, lo accusano di blasfemia

Bimbo di otto anni affetto da disagio mentale rischia la pena di morte in Pakistan. É di religione indu, lo accusano di blasfemia

Il piccolo era stato sorpreso ad urinare nella biblioteca di una madrasa islamica, gesto che ha suscitato la rivolta popolare: per rappresaglia distrutto un tempio indu, mentre il piccolo è indagato e rischia la pena capitale. Il premier si è offerto di riparare i danni, mentre 20 arresti ordinati per i vandalismi non sono stati eseguiti dalle forze di polizia

Federico Martini
9 Agosto 2021
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Un bambino di otto anni con problemi mentali ed accusato di blasfemia rischia la pena di morte in Pakistan. Si tratta della persona più giovane alla quale sia mai stato contestato il controverso reato. Il piccolo, contro il quale si era sollevata un’accesa rivolta popolare era stato liberato su cauzione, poi è stato posto in custodia protettiva dalle autorità, per difenderlo da reazioni estreme. Da giorni nei suoi confronti sono giunte minacce di morte da parte della comunità musulmana.

Il bambino, di famiglia induista, era stato arrestato il 4 agosto scorso dopo essere stato sorpreso a urinare nella biblioteca di una madrasa musulmana nella città di Rahim Yar Khan, nel Punjab.

 

La rappresaglia: distrutto un tempio indu

Una folla inferocita aveva poi distrutto, per rappresaglia, un tempio indù.

Il premier Imran Khan ha tentato di calmare gli animi condannando il gesto e impegnandosi a riparare il tempio. Dopo la liberazione su cauzione, nel corso delle indagini sono rimaste in piedi le accuse nei confronti del bambino che è stato trattenuto nuovamente in custodia protettiva anche per ripararlo da rappresaglie popolari nei suoi confronti

Sarà poi il tribunale a decidere sull’applicazione della pena capitale.

Dopo l’appello del premier ad arrestare i responsabili dell’assalto al sito religioso è stato ordinato l’arresto di 20 persone, ma, secondo dichiarazioni di un portavoce della polizia al quotidiano britannico The Guardian, gli arresti non risultano eseguiti.

 

Esponenti della minoranza indu in piazza per chiedere giustizia contro i responsabili della distruzione del tempio effettuata col pretesto di reagire all’atto “blasfemo” compiuto dal bimbo

Famiglia nascosta, comunità indu nel terrore

La famiglia del ragazzo, intanto, si è nascosta in un luogo protetto e molti membri della comunità indù nel distretto conservatore di Rahim Yar Khan, nel Punjab, hanno lasciato le loro case nel timore di ulteriori attacchi. Nella zona è stato schierato l’esercito per evitare ulteriori disordini.

Kapil Dev, un attivista per i diritti umani, ha detto all’Ansa che “molti indù hanno lasciato la città“, aggiungendo che ci vorrà molto tempo perché possano riprendere le loro consuete attività. Dev ha poi aggiunto che la massima autorità del Punjab o lo stesso primo ministro pachistano Imran Khan dovrebbero visitare la famiglia del bambino, ma finora non lo hanno fatto”.

“È discutibile il ruolo della polizia che per prima ha aperto un fascicolo per blasfemia contro un bambino e poi non è riuscito a proteggere il tempio dall’attacco”, ha concluso l’attivista.

 

“Terrorismo religioso” contro le minoranze

“Le leggi sulla blasfemia del Pakistan sono state a lungo abusate per prendere di mira i gruppi minoritari, ma questo caso segna una deriva scioccante ed estrema”, afferma da parte sua Rimmel Mohydin, attivista di Amnesty International per l’Asia meridionale commentando il caso del bambino di otto anni al quale è stato contestato il reato e che rischia la pena capitale. «Oltre a garantire che queste ridicole accuse vengano ritirate – aggiunge in una nota – le autorità pakistane devono fornire immediatamente un’adeguata protezione al ragazzo, alla sua famiglia e alla più ampia comunità indù. Anche i responsabili della conseguente violenza della folla devono essere ritenuti responsabili”. “Nella settimana che segna la Giornata nazionale delle minoranze in Pakistan – afferma l’attivista di Amnesty -, esortiamo le autorità ad abrogare urgentemente questa perniciosa legislazione. Le minoranze pachistane sono da tempo sotto attacco. E la vicenda di un bambino su cui pende il rischio di una condanna a morte lo dimostra più di ogni altra cosa”.

 

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  • "Ora dobbiamo fare di meno, per il futuro".

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  • Per una detenuta come Joy – nigeriana di 34 anni, arrestata nel 2014 per possesso di droga – uscire dal carcere significherà dover imparare a badare a se stessa. Lei che è lontana da casa e dalla famiglia, lei che non ha nessuno ad aspettarla. In carcere ha fatto il suo percorso, ha imparato tanto, ha sofferto di più. Ma ha anche conosciuto persone importanti, detenute come lei che sono diventate delle amiche. 

Mon solo. Nella Cooperativa sociale Gomito a Gomito, per esempio, ha trovato una seconda famiglia, un ambiente lavorativo che le ha offerto “opportunità che, se fossi stata fuori dal carcere, non avrei mai avuto”, come quella di imparare un mestiere e partecipare ad un percorso di riabilitazione sociale e personale verso l’indipendenza, anche economica.

Enrica Morandi, vice presidente e coordinatrice dei laboratori sartoriali del carcere di Rocco D’Amato (meglio noto ai bolognesi come “La Dozza”), si riferisce a lei chiamandola “la mia Joy”, perché dopo tanti anni di lavoro fianco a fianco ha imparato ad apprezzare questa giovane donna impegnata a ricostruire la propria vita: 

“Joy è extracomunitaria, nel nostro Paese non ha famiglia. Per lei sarà impossibile beneficiare degli sconti di pena su cui normalmente possono contare le detenute italiane, per buona condotta o per anni di reclusione maturati. Non è una questione di razzismo, è che esistono problemi logistici veri e propri, come il non sapere dove sistemare e a chi affidare queste ragazze, una volta lasciate le mura del penitenziario. Se una donna italiana ha ad attenderla qualcuno che si fa carico di ospitarla, Joy e altre come lei non hanno nessun cordone affettivo cui appigliarsi”.

L
  • Presidi psicologici, psicoterapeutici e di counselling per tutti gli studenti universitari e scolastici. Lo chiedono l’Udu, Unione degli universitari, e la Rete degli studenti medi nella proposta di legge ‘Chiedimi come sto’ consegnata a una delegazione di parlamentari nel corso di una conferenza stampa a Montecitorio.

La proposta è stata redatta secondo le conclusioni di una ricerca condotta da Spi-Cgil e Istituto Ires, che ha evidenziato come, su un campione di 50mila risposte, il 28 per cento abbia avuto esperienze di disturbi alimentari e oltre il 14 di autolesionismo.

“Nella nostra generazione è ancora forte lo stigma verso chi sta male ed è difficile chiedere aiuto - spiega Camilla Piredda, coordinatrice nazionale dell’Udu - l’interesse effettivo della politica si è palesato solo dopo il 15esimo suicidio di studenti universitari in un anno e mezzo. Ci sembra assurdo che la politica si interessi solamente dopo che si supera il limite, con persone che arrivano a scegliere di togliersi la vita.

Dall’altro lato, è positivo che negli ultimi mesi si sia deciso di chiedere a noi studenti come affrontare e come risolvere, il problema. Non è scontato e non è banale, perché siamo abituati a decenni in cui si parla di nuove generazioni senza parlare alle nuove generazioni”.

#luce #lucenews #università
  • La polemica politica riaccende i riflettori sulle madri detenute con i figli dopo la proposta di legge in merito alla detenzione in carcere delle donne in gravidanza: già presentata dal Pd nella scorsa legislatura, approvata in prima lettura al Senato, ma non alla Camera, prevedeva l’affido della madre e del minore a strutture protette, come le case famiglia, e vigilate. La dichiarata intenzione del centrodestra di rivedere il testo ha messo il Pd sul piede di guerra; alla fine di uno scontro molto acceso, i dem hanno ritirato il disegno di legge ma la Lega, quasi per ripicca, ne ha presentato uno nuovo, esattamente in linea con i desideri della maggioranza.

Lunedì non ci sarà quindi alcuna discussione alla Camera sul testo presentato da Debora Serracchiani nella scorsa legislatura, Tutto ripartirà da capo, con un nuovo testo, firmato da due esponenti del centrodestra: Jacopo Morrone e Ingrid Bisa.

“Questo (il testo Serracchini) era un testo che era già stato votato da un ramo del Parlamento, noi lo avevamo ripresentato per migliorare le condizioni delle detenute madri – ha spiegato ieri il dem Alessandro Zan – ma la maggioranza lo ha trasformato inserendovi norme che di fatto peggiorano le cose, consentendo addirittura alle donne incinte o con figli di meno di un anno di età di andare in carcere. Così non ha più senso, quindi ritiriamo le firme“.

Lo scontro tra le due fazioni è finito (anche) sui social media. "Sul tema delle borseggiatrici e ladre incinte occorre cambiare la visione affinché la gravidanza non sia una scusa“ sottolineano i due presentatori della proposta.

La proposta presentata prevede modifiche all’articolo 146 del codice penale in materia di rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena: “Se sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti – si legge nel testo presentato – il magistrato di sorveglianza può disporre che l’esecuzione della pena non sia differita, ovvero, se già differita, che il differimento sia revocato. Qualora la persona detenuta sia recidiva, l’esecuzione della pena avviene presso un istituto di custodia attenuata per detenute madri“.

#lucenews #madriincarcere
Un bambino di otto anni con problemi mentali ed accusato di blasfemia rischia la pena di morte in Pakistan. Si tratta della persona più giovane alla quale sia mai stato contestato il controverso reato. Il piccolo, contro il quale si era sollevata un'accesa rivolta popolare era stato liberato su cauzione, poi è stato posto in custodia protettiva dalle autorità, per difenderlo da reazioni estreme. Da giorni nei suoi confronti sono giunte minacce di morte da parte della comunità musulmana. Il bambino, di famiglia induista, era stato arrestato il 4 agosto scorso dopo essere stato sorpreso a urinare nella biblioteca di una madrasa musulmana nella città di Rahim Yar Khan, nel Punjab.  

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"Le leggi sulla blasfemia del Pakistan sono state a lungo abusate per prendere di mira i gruppi minoritari, ma questo caso segna una deriva scioccante ed estrema", afferma da parte sua Rimmel Mohydin, attivista di Amnesty International per l’Asia meridionale commentando il caso del bambino di otto anni al quale è stato contestato il reato e che rischia la pena capitale. «Oltre a garantire che queste ridicole accuse vengano ritirate - aggiunge in una nota - le autorità pakistane devono fornire immediatamente un’adeguata protezione al ragazzo, alla sua famiglia e alla più ampia comunità indù. Anche i responsabili della conseguente violenza della folla devono essere ritenuti responsabili". "Nella settimana che segna la Giornata nazionale delle minoranze in Pakistan - afferma l’attivista di Amnesty -, esortiamo le autorità ad abrogare urgentemente questa perniciosa legislazione. Le minoranze pachistane sono da tempo sotto attacco. E la vicenda di un bambino su cui pende il rischio di una condanna a morte lo dimostra più di ogni altra cosa".  
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