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Home » Attualità » Bruzzone: “Divieto di avvicinamento blando e braccialetto elettronico solo per i domiciliari: ecco perché è morta Vanessa”

Bruzzone: “Divieto di avvicinamento blando e braccialetto elettronico solo per i domiciliari: ecco perché è morta Vanessa”

La criminologa e il delitto di Aci Trezza: "Assurdo dare peso alle riappacificazioni. era chiarissimo che Sciuto non si sarebbe mai fermato nel proposito omicida". E i centri di recupero? "Manca l'obbligo di ricovero. I carnefici sono convinti di non essere malati e non accetteranno mai di curarsi volontariamente"

Sofia Francioni
27 Agosto 2021
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Domenica 22 agosto sul lungomare di Aci Trezza “l’ha presa per i capelli e ha iniziato a spararle”. Uno, cinque, sette colpi. Da mesi Vanessa Zappalà sapeva come sarebbe stata ammazzata: “Ti prendo a colpi di pistola, se so che hai qualcun altro”, le aveva detto l’ex fidanzato reiterate volte e in forme diverse. Urlandoglielo, scrivendolo in dei post su Facebook, pedinandola, minacciandola.
Pienamente consapevole di quello che rischiava, il 30 maggio la vittima di appena 26 anni era infatti
andata in caserma per denunciare il suo assassino,  Antonino Sciuto, 38enne separato con due figli, col quale aveva avuto una relazione di neanche un anno. La ragazza aveva lasciato a verbale parole inequivocabili: “Chiedo un provvedimento urgente in quanto temo per la mia incolumità e
per quella dei miei familiari. Ritengo Sciuto persona violenta e molto pericolosa”.

 

Arresto e remissione in libertà

 

Otto giorni dopo la denuncia, il 7 giugno, Sciuto era stato arrestato in flagranza di reato di stalking e la procura aveva
chiesto per lui i domiciliari “considerato il concreto e attuale pericolo che possa insistere nel proprio
comportamento illecito”. Ma, dopo soli tre giorni di domiciliari e dopo aver condiviso la valutazione
della procura, il giudice per le indagini preliminari, Andrea Filippo Castronuovo, lo aveva rimesso in
libertà, ritenendo sufficiente un più blando “divieto di avvicinamento alla persona offesa e ai luoghi
che frequenta”. Dopo un’apparente calma, la sera di domenica 22 agosto Sciuto spara a Vanessa.

Un omicidio premeditato, come dimostrano i 28 proiettili trovati dai carabinieri nella Fiat che
l’assassino domenica guidava e che qualche ora dopo si suicida, impiccandosi a Trecastagni, nella
tenuta di suo zio a poca distanza dal luogo dove aveva ucciso la sua fidanzata. Sulle mura lascia
frasi di scuse per i genitori, ma nessuna parola di pentimento per la donna che ha ucciso o per i suoi
familiari.

 

“Mi porto l’ombrellone”

 

Per l’ennesima volta, a posteriori sembrano esserci tutti gli elementi che avrebbero potuto evitare
questo femminicidio. Ma nel caso di Aci Trezza, forse, ancora di più: Vanessa aveva denunciato.
Un’azione non da poco se si pensa che di tutti i femminicidi commessi nel biennio 2017-2018 soltanto
nel 12% dei casi le donne uccise lo avevano fatto. Vanessa aveva informato la famiglia dei
pedinamenti e delle minacce di Sciuto, tanto che, come racconta in un verbale il padre: “Prima di
denunciarlo a maggio, io e mia figlia siamo andati a San Giovanni La Punta a casa sua, sperando di
mettere fine a questa storia. C’erano anche i suoi genitori, che io avevo contattato al telefono.
Abbiamo cercato un approccio conciliatore. Alla fine di tutti i discorsi, andandocene, ho detto al
padre di Antonio che se lo vedevo ancora gironzolare intorno a mia figlia, sia da noi sia al panificio
(dove Vanessa lavorava ndr), lo avrei denunciato. Il padre non mi ha risposto, Antonino invece mi ha
guardato e mi ha detto in faccia: Domani mi porto l’ombrellone e mi piazzo davanti al panificio, ti ci
accompagno io dalle guardie”.

 

Il taccuino con le incursioni

 

Vanessa non era stata lasciata sola neanche dalle forze dell’ordine:  era infatti in contatto costante con il carabiniere Andrea Macrì, “un sant’uomo” come lo definisce oggi il padre, che considerava Vanessa una sorella e che oggi dichiara: “avendola persa, sento
dentro un vuoto enorme”. Così come la procura, che subito dopo l’arresto di Sciuto aveva dato
immediata priorità al suo caso. Vanessa aveva anche una salda rete di amici che la sosteneva e
l’avvisava della presenza del suo ex fidanzato davanti al luogo del lavoro o a casa e che era a
conoscenza dell’incubo che viveva. Vanessa teneva traccia scritta, in un taccuino, di tutte le
incursioni che Sciuto le faceva: “Due giugno, davanti al panificio dove lavoro: 10.35 e 13.15. Tre
giugno: 9.45. Quattro giugno: 20.13. Cinque giugno: 20.45”. Sequenze assillanti. “7 giugno, 15.58;
17.15; 17.26; 18.47. Ho angoscia, paura, timore. Ha messo un Gps sotto la mia auto, mi segue
ovunque”, scriveva nel suo diario, da tempo custodito dentro il Palazzo di Giustizia di Catania.

 

Roberta Bruzzone: “Era chiaro che non si sarebbe fermato”

 

Ma allora perché Vanessa è morta?

“Non solo poteva, ma questo femmicidio doveva essere evitato”, risponde la criminologa Roberta
Bruzzone, che da anni segue storie come questa. “Questa ragazza ha fatto una denuncia da cui sono
trapelati dei passaggi di condotte messe in campo da questo soggetto, che in tutta evidenza
dimostravano fino a dove si sarebbe potuto spingere. C’erano tutti gli indicatori più elevati di rischio
per l’escalation: dall’inizio alla fine. Non c’era dubbio che quest’uomo non si sarebbe fermato e che
non avrebbe minimamente rispettato il limite dell’avvicinamento. Per questi soggetti, questo limite
nella migliore delle ipotesi è carta straccia”.

 

“Segni chiari dell’escalation omicida”. Quali?

“Tutti quelli che ha dimostrato: le condotte persecutorie assillanti, il Gps nell’auto della vittima, il
fatto che si introduceva in casa, la spiava in continuazione, la minacciava di morte in maniera
esplicita, nel caso in cui lei si fosse interessata a qualcun altro o lui avesse avuto questa percezione.
Condotte persecutorie veramente molto invasive. Era chiaro che fosse deciso ad andare avanti e a
fargliela pagare”.

 

Il giudice per le indagini preliminari che ha revocato gli arresti domiciliari, Andrea Filippo
Castronuovo, dice di averlo fatto rispettando la legge.

“Il giudice si è espresso su una valutazione fatta da un pm, che chiedeva la misura dell’arresto
domiciliare con il controllo del braccialetto elettronico. Evidentemente il gip avrebbe dovuto
valutare in maniera diversa quelle richieste. Il grande problema è che questa parte di valutazioni è
discrezionale: il gip ha applicato la legge, ma anche il magistrato che chiedeva una misura molto più
contenitiva lo ha fatto. Evidentemente, il pm ha fatto una valutazione del rischio più realistica e il
gip purtroppo non lo ha seguito”.

 

Il gip dovrebbe fare  mea culpa?

“Non sono qui per lanciare accuse. In generale tutti i giudici, soprattutto quelli che vagliano le
misure cautelari richieste dai magistrati, si devono mettere in testa che un soggetto che si convince
intimamente di essere vittima di un ingiusto abbandono, che mette in campo condotte persecutorie
gravissime e che è chiaramente intenzionato a uccidere (tant’è che lo continua a dire
reiteratamente, come è successo a questa ragazza) non è qualcuno che si ferma perché un giudice
gli dice di non avvicinarsi”.

 

Che “soggetto” è Sciuto?

“Questo tipo di soggetti soffre. Soffre di un’angoscia profonda, alimentata anche dal disagio
psichico. È un’angoscia che non tollera nulla e l’unico modo per questi soggetti di sentirsi meglio è
farla pagare alla vittima. Non c’è misura di divieto di avvicinamento che possa essere rispettata.
Sciuto non era in grado di contenersi e già lo aveva dimostrato. Aveva condotte incoercibili, di tipo
malevolo e persecutorio: cos’altro serviva? Quello che vorrei comprendere è che tipo di
ragionamento ha fatto il gip per arrivare a pensare che un soggetto come Sciuto avrebbe rispettato
il divieto di avvicinamento”.

 

Come riferisce il presidente dell’Ufficio gip di Catania, Nunzio Sarpietro, il giudice dice di averlo
fatto perché tra i due c’era stata in passato una riappacificazione.

“Ancora stiamo dietro a queste storie? Chi si occupa di questo tipo di casi sotto il profilo tecnico e
giudiziario non può ancora oggi credere ai riavvicinamenti, alle riappacificazioni. Sono episodi che,
anzi, tendono poi a creare un’ulteriore scarica di violenza, perché le riappacificazioni durano molto
poco e il soggetto torna a incrementare condotte anche peggiori di quelle precedenti. Quindi,
ripeto, ci può cascare una ragazza di 26 anni che evidentemente era bombardata dai sensi di colpa
e da quel retaggio culturale, che porta moltissime donne a tollerare comportamenti assurdi e a
cercare di giustificare l’ingiustificabile. Ma non i magistrati”.

 

Sempre il presidente Sarpietro ha riproposto una sua ipotesi di intervento in questi casi: il
braccialetto elettronico per l’indagato, che segnali la sua presenza e un dispositivo per la vittima
che emetta segnali acustici e luminosi quando lo stalker viola la distanza impostagli dal
provvedimento di non avvicinamento. Quanto viene usato?

“Viene utilizzato poco e male. E, a oggi, è associato esclusivamente alla misura domiciliare cautelare
e a nessun’altra”.

 

Per il braccialetto elettronico serve il consenso dell’interessato?

“No, nessun consenso, con la misura cautelare domiciliare la possibilità di applicare il braccialetto,
che poi è una cavigliera, c’è. Il problema grosso è che c’è solo in questi casi e non ad esempio nei
divieti di avvicinamento”.

 

Facendo da contraltare al presidente Sarpietro, il titolare dell’inchiesta sul femminicidio di Vanessa
Zappalà, il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, ha detto che “occorrerebbero dei centri di
riabilitazione con l’obbligo di frequentazione per monitorare gli stalker e tentare, nei limiti del
possibile, di recuperarli dai loro disturbi alcuni dei quali legati a problemi culturali e caratteriali”, lei
cosa ne pensa?

“Sono d’accordo, ma il problema è che occorre un cambio normativo che obblighi questo tipo di
soggetti, che hanno evidentemente importanti problematiche di natura psicologica, a un ricovero, a
una valutazione. Finché non ci sarà questo, queste persone non andranno mai a farsi curare, perché
sono convinte di aver ragione. Per loro il problema è la vittima che non accetta di tornare con loro,
quindi non vanno a farsi curare, perché non ritengono di avere un problema. Se aspettiamo che
facciano la riabilitazione volontaria, sarà sempre troppo tardi. Tutti quelli che hanno a che fare con
questo tipo di vicende per motivi professionali devono essere formati in maniera più approfondita
per comprendere come funziona la mente di un soggetto del genere perché, se non lo
comprendono, non ci saranno mai misure adeguate a tutela delle donne. Ovviamente non tutti i
soggetti sono così, ma quando ci sono condotte di questo tipo non possono essere sottovalutate.
Sciuto ha detto in tutte le lingue del mondo che non si sarebbe mai fermato”.

 

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I minori vittime di prepotenze nella vita reale, o che le abbiano subite qualche volta sono il 54%, contro il 44% del 2020. Un incremento significativo, di ben 10 punti, che deve spingerci a riflettere. 

Per quanto riguarda il cyber bullismo, il 31% dei minori ne è stato vittima almeno una volta, contro il 23% del 2020. Il fenomeno sembra interessare più i ragazzi delle ragazze sia nella vita reale (il 57% dei maschi è stato vittima di prepotenze, contro il 50% delle femmine) sia in quella virtuale (32% contro 29%). Nel 42% si tratta di offese verbali, ma sono frequenti anche violenze fisiche (26%) e psicologiche (26%).

Il 52% è pienamente consapevole dei reati che commette se intraprende un’azione di bullismo usando internet o lo smartphone, il 14% lo è abbastanza, ma questo non sembra un deterrente. Un 26%, invece, dichiara di non saperne nulla della gravità del reato. Intervistati, con risposte multiple, sui motivi che spingono ad avere comportamenti di prepotenza o di bullismo nei confronti degli altri, il 54% indica il body shaming. 

Mentre tra i motivi che spingono i bulli ad agire in questo modo, il 50% afferma che così dimostra di essere più forte degli altri, il 47% si diverte a mettere in ridicolo gli altri, per il 37% il bullo si comporta in questo modo perché gli piace che gli altri lo temano.

Ma come si comportano se assistono a episodi di bullismo? Alla domanda su come si comportano i compagni quando assistono a queste situazioni, solo il 34% risponde “aiutano la vittima”, un dato che nel 2020 era il 44%. 

Un calo drastico, che forse potrebbe essere spiegato con una minore empatia sociale dovuta al distanziamento sociale e al lockdown, che ha impedito ai minori di intessere relazioni profonde. Migliora, invece, la percentuale degli insegnanti che, rendendosi conto di quanto accaduto, intervengono prontamente (46% contro il 40% del 2020). Un 7%, però, dichiara che i docenti, sebbene si rendano conto di quanto succede, non fanno nulla per fermare le prepotenze.

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#lucenews #giornatacontroilbullismo
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“Se fosse tutto ok, per questa tricodinia rimarrebbe solo lo stress come unica causa e allora dovrò modificare qualcosa nella mia vita. Forse il mio corpo mi sta parlando e devo dargli ascolto."

La tricodinia è una sensazione dolorosa al cuoio capelluto, accompagnata da un bruciore o prurito profondo che, in termini medici, si chiama disestesia. Può essere transitoria o diventare cronica, a volte perfino un gesto quotidiano come pettinarsi o toccarsi i capelli può diventare molto doloroso. Molte persone – due pazienti su tre sono donne – lamentano formicolii avvertiti alla radice, tra i follicoli e il cuoio capelluto. Tra le complicazioni, la tricodinia può portare al diradamento e perfino alla caduta dei capelli. 

#lucenews #lucelanazione #camihawke #tricodinia
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Il taccuino con le incursioni

  Vanessa non era stata lasciata sola neanche dalle forze dell’ordine:  era infatti in contatto costante con il carabiniere Andrea Macrì, “un sant’uomo” come lo definisce oggi il padre, che considerava Vanessa una sorella e che oggi dichiara: “avendola persa, sento dentro un vuoto enorme”. Così come la procura, che subito dopo l’arresto di Sciuto aveva dato immediata priorità al suo caso. Vanessa aveva anche una salda rete di amici che la sosteneva e l’avvisava della presenza del suo ex fidanzato davanti al luogo del lavoro o a casa e che era a conoscenza dell’incubo che viveva. Vanessa teneva traccia scritta, in un taccuino, di tutte le incursioni che Sciuto le faceva: “Due giugno, davanti al panificio dove lavoro: 10.35 e 13.15. Tre giugno: 9.45. Quattro giugno: 20.13. Cinque giugno: 20.45”. Sequenze assillanti. “7 giugno, 15.58; 17.15; 17.26; 18.47. Ho angoscia, paura, timore. Ha messo un Gps sotto la mia auto, mi segue ovunque”, scriveva nel suo diario, da tempo custodito dentro il Palazzo di Giustizia di Catania.  

Roberta Bruzzone: "Era chiaro che non si sarebbe fermato"

  Ma allora perché Vanessa è morta? “Non solo poteva, ma questo femmicidio doveva essere evitato”, risponde la criminologa Roberta Bruzzone, che da anni segue storie come questa. “Questa ragazza ha fatto una denuncia da cui sono trapelati dei passaggi di condotte messe in campo da questo soggetto, che in tutta evidenza dimostravano fino a dove si sarebbe potuto spingere. C’erano tutti gli indicatori più elevati di rischio per l’escalation: dall’inizio alla fine. Non c’era dubbio che quest’uomo non si sarebbe fermato e che non avrebbe minimamente rispettato il limite dell’avvicinamento. Per questi soggetti, questo limite nella migliore delle ipotesi è carta straccia”.   "Segni chiari dell’escalation omicida". Quali? “Tutti quelli che ha dimostrato: le condotte persecutorie assillanti, il Gps nell’auto della vittima, il fatto che si introduceva in casa, la spiava in continuazione, la minacciava di morte in maniera esplicita, nel caso in cui lei si fosse interessata a qualcun altro o lui avesse avuto questa percezione. Condotte persecutorie veramente molto invasive. Era chiaro che fosse deciso ad andare avanti e a fargliela pagare”.   Il giudice per le indagini preliminari che ha revocato gli arresti domiciliari, Andrea Filippo Castronuovo, dice di averlo fatto rispettando la legge. “Il giudice si è espresso su una valutazione fatta da un pm, che chiedeva la misura dell’arresto domiciliare con il controllo del braccialetto elettronico. Evidentemente il gip avrebbe dovuto valutare in maniera diversa quelle richieste. Il grande problema è che questa parte di valutazioni è discrezionale: il gip ha applicato la legge, ma anche il magistrato che chiedeva una misura molto più contenitiva lo ha fatto. Evidentemente, il pm ha fatto una valutazione del rischio più realistica e il gip purtroppo non lo ha seguito”.   Il gip dovrebbe fare  mea culpa? “Non sono qui per lanciare accuse. In generale tutti i giudici, soprattutto quelli che vagliano le misure cautelari richieste dai magistrati, si devono mettere in testa che un soggetto che si convince intimamente di essere vittima di un ingiusto abbandono, che mette in campo condotte persecutorie gravissime e che è chiaramente intenzionato a uccidere (tant’è che lo continua a dire reiteratamente, come è successo a questa ragazza) non è qualcuno che si ferma perché un giudice gli dice di non avvicinarsi”.   Che “soggetto” è Sciuto? “Questo tipo di soggetti soffre. Soffre di un’angoscia profonda, alimentata anche dal disagio psichico. È un’angoscia che non tollera nulla e l’unico modo per questi soggetti di sentirsi meglio è farla pagare alla vittima. Non c’è misura di divieto di avvicinamento che possa essere rispettata. Sciuto non era in grado di contenersi e già lo aveva dimostrato. Aveva condotte incoercibili, di tipo malevolo e persecutorio: cos’altro serviva? Quello che vorrei comprendere è che tipo di ragionamento ha fatto il gip per arrivare a pensare che un soggetto come Sciuto avrebbe rispettato il divieto di avvicinamento”.   Come riferisce il presidente dell’Ufficio gip di Catania, Nunzio Sarpietro, il giudice dice di averlo fatto perché tra i due c’era stata in passato una riappacificazione. “Ancora stiamo dietro a queste storie? Chi si occupa di questo tipo di casi sotto il profilo tecnico e giudiziario non può ancora oggi credere ai riavvicinamenti, alle riappacificazioni. Sono episodi che, anzi, tendono poi a creare un’ulteriore scarica di violenza, perché le riappacificazioni durano molto poco e il soggetto torna a incrementare condotte anche peggiori di quelle precedenti. Quindi, ripeto, ci può cascare una ragazza di 26 anni che evidentemente era bombardata dai sensi di colpa e da quel retaggio culturale, che porta moltissime donne a tollerare comportamenti assurdi e a cercare di giustificare l’ingiustificabile. Ma non i magistrati”.   Sempre il presidente Sarpietro ha riproposto una sua ipotesi di intervento in questi casi: il braccialetto elettronico per l'indagato, che segnali la sua presenza e un dispositivo per la vittima che emetta segnali acustici e luminosi quando lo stalker viola la distanza impostagli dal provvedimento di non avvicinamento. Quanto viene usato? “Viene utilizzato poco e male. E, a oggi, è associato esclusivamente alla misura domiciliare cautelare e a nessun’altra”.   Per il braccialetto elettronico serve il consenso dell’interessato? “No, nessun consenso, con la misura cautelare domiciliare la possibilità di applicare il braccialetto, che poi è una cavigliera, c’è. Il problema grosso è che c’è solo in questi casi e non ad esempio nei divieti di avvicinamento”.   Facendo da contraltare al presidente Sarpietro, il titolare dell'inchiesta sul femminicidio di Vanessa Zappalà, il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, ha detto che “occorrerebbero dei centri di riabilitazione con l'obbligo di frequentazione per monitorare gli stalker e tentare, nei limiti del possibile, di recuperarli dai loro disturbi alcuni dei quali legati a problemi culturali e caratteriali”, lei cosa ne pensa? “Sono d’accordo, ma il problema è che occorre un cambio normativo che obblighi questo tipo di soggetti, che hanno evidentemente importanti problematiche di natura psicologica, a un ricovero, a una valutazione. Finché non ci sarà questo, queste persone non andranno mai a farsi curare, perché sono convinte di aver ragione. Per loro il problema è la vittima che non accetta di tornare con loro, quindi non vanno a farsi curare, perché non ritengono di avere un problema. Se aspettiamo che facciano la riabilitazione volontaria, sarà sempre troppo tardi. Tutti quelli che hanno a che fare con questo tipo di vicende per motivi professionali devono essere formati in maniera più approfondita per comprendere come funziona la mente di un soggetto del genere perché, se non lo comprendono, non ci saranno mai misure adeguate a tutela delle donne. Ovviamente non tutti i soggetti sono così, ma quando ci sono condotte di questo tipo non possono essere sottovalutate. Sciuto ha detto in tutte le lingue del mondo che non si sarebbe mai fermato”.  
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