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Home » Attualità » Caricati dalla polizia per aver suonato un campanello. Allarme razzismo a Milano: in un video la frase choc di un agente “Torna al tuo Paese”

Caricati dalla polizia per aver suonato un campanello. Allarme razzismo a Milano: in un video la frase choc di un agente “Torna al tuo Paese”

Domenica all'alba, i navigli di Milano sono stati il palcoscenico di un grave episodio che ha visto come vittime un gruppo di ragazzi di colore: questa volta, a rendere tutto ancora più grave, è il ruolo della polizia. Secondo la versione delle forze dell'ordine gli agenti sarebbero intervenuti per sedare una rissa. Ma nel video dell'influencer Huda, presente alla scena, la carica sembra avere tutt'altra matrice

Francesco Lommi
29 Giugno 2021
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Abbiamo tutti assistito con sdegno gli abusi razziali della polizia americana contro le persone di colore. Abbiamo sostenuto e appoggiato le battaglie e le manifestazioni del movimento Black Lives Matter. Abbiamo gioito, a centinaia di migliaia di chilomentri di distanza, quando giustizia è stata fatta, almeno nel caso della morte di George Floyd. La distanza però, ci ha ingannato: oltreoceano, ormai più di un anno fa, ci hanno indicato la luna, il fulcro del problema, noi ci siamo limitati ad osservare il dito, i fatti in sé. Un dito dietro al quale ci siamo nascosti, pensando di essere già a buon punto nella lotta al razzismo. Me evidentemente, non è così.

Nella mattina di domenica, a Milano, in zona Navigli, un gruppo di ragazzi neri è stato aggredito e picchiato in circostanze ancora tutte da verificare. Secondo la versione fornita dalle forze dell’ordine, i militari del nucleo Radiomobile si sono recati in piazza XXIV Maggio per sedare una rissa. Una volta in loco, gli agenti hanno potuto constatare la presenza di ragazzi, prevalentemente stranieri, nei pressi del Mc Donald’s, che bevevano alcolici e ascoltava musica a tutto volume. Sempre secondo le dichiarazioni della polizia, sono stati chiamati sul posto rinforzi per sgomberare i giovani.

Tutto farebbe pensare a una normalissima azione di un qualsiasi sabato sera (erano in realtà le prime ore di domenica, intorno alle 6) in uno dei centri della movida milanese. E invece dai social arrivano video e testimonianze a documentare l’accaduto. Il quadro che ne emerge sembra molto diverso dalla versione fornita dalla polizia. Diverso in modo allarmante. Secondo i ragazzi, la causa dell’intervento sarebbe stato il campanello di un monopattino elettrico.

 

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Un post condiviso da huda © (@riphuda)

“Un ragazzo nero, seduto insieme a noi, ha preso un ‘dot’ (monopattini in affitto) e ha iniziato a suonare per scherzo il campanello, che non fa più rumore di quello di una bicicletta. In quel momento si ferma una macchina della polizia e un agente gli urla contro, dicendogli che se non avesse smesso lo avrebbe arrestato“. Inizia così il video testimonianza postato sul profilo Instagram di Huda (@riphuda), influencer e tiktoker di successo nonché una delle ragazze presenti quella mattina: “Per fermarlo gli agenti hanno chiamato in aiuto sei pattuglie e due camion blindati. Una volta scesi, ci hanno spinto via con la forza e ci hanno caricati. Uno di noi, senza motivo, è stato gettato a terra da quatto poliziotti per essere preso a calci e manganellate. Sua sorella, preoccupata, si è avvicinata per soccorrerlo e in tutta risposta è stata colpita con una manganellata in testa che avrebbe anche potuto ucciderla“.

La scena è avvenuta sotto gli occhi di tutti ma gli agenti, sempre nel racconto dei fatti della giovane, “hanno avuto il coraggio di negare tutto: magari è caduta o si è fatta male da sola“. Durante la carica, i ragazzi hanno provato a difendersi come potevano: le bottiglie di vetro nel cassonetto della spazzatura erano l’unica ‘arma’ a disposizione con cui provare a contrastare tute, manganelli e scudi anti sommossa: “hanno iniziato ad inseguirci e a pestare tutti. Non volevano nemmeno chiamare l’ambulanza“.

L’azione violenta, forse mossa da sentimenti razzisti, almeno secondo quanto raccontato da Huda e dalle persone coinvolte, non si è tradotta solamente nell’atto fisico, ma è stata accompagnata da un’aggressione verbale: “Ci hanno chiesto i documenti. Una ragazza non li aveva, gli agenti continuavano a trattarla come se non capisse e a dirle: torna nel tuo Paese, anche se lei è italiana”. In più, uno di loro è stato anche portato in caserma senza apparenti motivi: “L’hanno buttato in macchina a calci e pugni. Non aveva fatto nulla. Quando abbiamo provato a chiedere quale fosse il motivo dell’arresto, non abbiamo ricevuto risposta. Ma si sente una frase: annientate questo negro“.

Il caso è sotto esame, ma la vicenda ha scatenato il dibattito dell’opinione pubblica, che si trova ancora una volta ad affrontare il discorso del razzismo. Un discorso che, nonostante i proclami, le tante belle parole, sembra appartenere anche a noi italiani. Ogni volta che arriva la polizia, i ragazzi di colore, anche nel nostro Paese, si sentono più minacciati che tutelati. Allora i social, il cellulare e la possibilità di filmare quello che accade diventano l’unico strumento di ‘difesa’. Perché in casi come questi, quando poi le vittime si presentano in commissariato per una denuncia, la risposta è quasi sempre (e solo): “Hai finito?“. Dopo il danno anche la beffa: screditati, non creduti, accusati di aver fatto magari qualcosa di illegale proprio filmando quello che accadeva o che subivano, passando così da vittime a colpevoli.

La luna (del razzismo) è piena. Anche in Italia non possiamo più limitarci a guardare solo il dito.

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Instagram

  • Numerosi attori e musicisti di alto profilo si sono recati in Ucraina da quando è scoppiata la guerra con la Russia nel febbraio 2022. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’attore britannico Orlando Bloom, che ieri ha visitato un centro per bambini e ha incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Kiev.

“Non mi sarei mai aspettato che la guerra si sarebbe intensificata in tutto il Paese da quando sono stato lì”, ha detto Bloom su Instagram, “Ma oggi ho avuto la fortuna di ascoltare le risate dei bambini in un centro del programma Spilno sostenuto dall’Unicef, uno spazio sicuro, caldo e accogliente dove i bambini possono giocare, imparare e ricevere supporto psicosociale”.

Bloom è un ambasciatore di buona volontà per l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef). Il centro di Splino, che è uno dei tanti in Ucraina, offre sostegno ai bambini sfollati e alle loro famiglie, con più di mezzo milione di bambini che ne hanno visitato uno nell’ultimo anno.

La star hollywoodiana ha poi incontrato il presidente Zelensky, con cui ha trattato temi tra cui il ritorno dei bambini ucraini deportati in Russia, la creazione di rifugi antiatomici negli istituti scolastici e il supporto tecnico per l’apprendimento a distanza nelle aree in cui è impossibile studiare offline a causa della guerra. L’attore britannico aveva scritto ieri su Instagram, al suo arrivo a Kiev, che i «bambini in Ucraina hanno bisogno di riavere la loro infanzia».

#lucelanazione #lucenews #zelensky #orlandobloom
  • “La vita che stavo conducendo mi rendeva particolarmente infelice e se all’inizio ero entrata in terapia perché volevo accettare il fatto che mi dovessi nascondere, ho avuto poi un’evoluzione e questo percorso è diventato di accettazione di me stessa."

✨Un sorriso contagioso, la spensieratezza dei vent’anni e la bellezza di chi si piace e non può che riflettere quella luce anche al di fuori. La si potrebbe definire una Mulan nostrana Carlotta Bertotti, 23 anni, una ragazza torinese come tante, salvo che ha qualcosa di speciale. E non stiamo parlano del Nevo di Ota che occupa metà del suo volto. Ecco però spiegato un primo punto di contatto con Mulan: l’Oriente, dove è più diffusa (insieme all’Africa) quell’alterazione di natura benigna della pigmentazione della cute intorno alla zona degli occhi (spesso anche la sclera si presenta scura). Quella che appare come una chiazza grigio-bluastra su un lato del volto (rarissimi i casi bilaterali), colpisce prevalentemente persone di sesso femminile e le etnie asiatiche (1 su 200 persone in Giappone), può essere presente alla nascita o apparire durante la pubertà. E come la principessa Disney “fin da piccola ho sempre sentito la pressione di dover salvare tutto, ma forse in realtà dovevo solo salvare me stessa. Però non mi piace stare troppo alle regole, sono ribelle come lei”.

🗣Cosa diresti a una ragazza che ha una macchia come la tua e ti chiede come riuscire a conviverci?�
“Che sono profondamente fiera della persona che vedo riflessa allo specchio tutto i giorni e sono arrivata a questa fierezza dopo che ho scoperto e ho accettato tutti i miei lati, sia positivi che negativi. È molto autoreferenziale, quindi invece se dovessi dare un consiglio è quello che alla fine della fiera il giudizio altrui è momentaneo e tutto passa. L’unica persona che resta e con cui devi convivere tutta la vita sei tu, quindi le vere battaglie sono quelle con te stessa, quelle che vale la pena combattere”.

L’intervista a cura di Marianna Grazi �✍ 𝘓𝘪𝘯𝘬 𝘪𝘯 𝘣𝘪𝘰

#lucenews #lucelanazione #carlottabertotti #nevodiota
  • La salute mentale al centro del podcast di Alessia Lanza. Come si supera l’ansia sociale? Quanto è difficile fare coming out? Vado dallo psicologo? Come trovo la mia strada? La popolare influencer, una delle creator più note e amate del web con 1,4 milioni di followers su Instagram e 3,9 milioni su TikTok, Alessia Lanza debutta con “Mille Pare”, il suo primo podcast in cui affronta, in dieci puntate, una “para” diversa e cerca di esorcizzare le sue fragilità e, di riflesso, quelle dei suoi coetanei.

“Ho deciso di fare questo podcast per svariati motivi: io sono arrivata fin qui anche grazie alla mia immagine, ma questa volta vorrei che le persone mi ascoltassero e basta. Quando ho cominciato a raccontare le mie fragilità un sacco di persone mi hanno detto ‘Anche io ho quella para lì!’. Perciò dico parliamone, perché in un mondo in cui sembra che dobbiamo farcela da soli, io credo nel potere della condivisione”.

#lucenews #lucelanazione #millepare #alessialanza #podcast
  • Si è laureata in Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali indossando un abito tradizionale Crow, tribù della sua famiglia adottiva in Montana. Eppure Raffaella Milandri è italianissima e ha conseguito il titolo nella storica università Alma Mater di Bologna, lo scorso 17 marzo. 

La scrittrice e giornalista nel 2010 è diventata membro adottivo della famiglia di nativi americani Black Eagle. Da quel momento quella che era una semplice passione per i popoli indigeni si è focalizzata sullo studio degli aborigeni Usa e sulla divulgazione della loro cultura.

Un titolo di studio specifico, quello conseguito dalla Milandri, “Che ho ritenuto oltremodo necessario per coronare la mia attività di studiosa e attivista per i diritti dei Nativi Americani e per i Popoli Indigeni. La prima forma pacifica di attivismo è divulgare la cultura nativa”. L’abito indossato durante cerimonia di laurea appartiene alla tribù della sua famiglia adottiva. Usanza che è stata istituzionalizzata solo dal 2017 in Montana, Stato d’origine del suo popolo, quando è stata approvata una legge (la SB 319) che permette ai nativi e loro familiari di laurearsi con il “tribal regalia“. 

In virtù di questa norma, il Segretario della Crow Nation, Levi Black Eagle, a maggio 2022 ha ricordato la possibilità di indossare l’abito tradizionale Crow in queste occasioni e così Milandri ha chiesto alla famiglia d’adozione se anche lei, in quanto membro acquisito della tribù, avrebbe potuto indossarlo in occasione della sua discussione.

La scrittrice, ricordando il momento della laurea a Bologna, racconta che è stata “Una grandissima emozione e un onore poter rappresentare la Crow Nation e la mia famiglia adottiva. Ho dedicato la mia laurea in primis alle vittime dei collegi indiani, istituti scolastici, perlopiù a gestione cattolica, di stampo assimilazionista. Le stesse vittime per le quali Papa Francesco, lo scorso luglio, si è recato in Canada in viaggio penitenziale a chiedere scusa  Ho molto approfondito questo tema controverso e presto sarà pubblicato un mio studio sull’argomento dalla Mauna Kea Edizioni”.

#lucenews #raffaellamilandri #antropologia
Abbiamo tutti assistito con sdegno gli abusi razziali della polizia americana contro le persone di colore. Abbiamo sostenuto e appoggiato le battaglie e le manifestazioni del movimento Black Lives Matter. Abbiamo gioito, a centinaia di migliaia di chilomentri di distanza, quando giustizia è stata fatta, almeno nel caso della morte di George Floyd. La distanza però, ci ha ingannato: oltreoceano, ormai più di un anno fa, ci hanno indicato la luna, il fulcro del problema, noi ci siamo limitati ad osservare il dito, i fatti in sé. Un dito dietro al quale ci siamo nascosti, pensando di essere già a buon punto nella lotta al razzismo. Me evidentemente, non è così. Nella mattina di domenica, a Milano, in zona Navigli, un gruppo di ragazzi neri è stato aggredito e picchiato in circostanze ancora tutte da verificare. Secondo la versione fornita dalle forze dell'ordine, i militari del nucleo Radiomobile si sono recati in piazza XXIV Maggio per sedare una rissa. Una volta in loco, gli agenti hanno potuto constatare la presenza di ragazzi, prevalentemente stranieri, nei pressi del Mc Donald’s, che bevevano alcolici e ascoltava musica a tutto volume. Sempre secondo le dichiarazioni della polizia, sono stati chiamati sul posto rinforzi per sgomberare i giovani. Tutto farebbe pensare a una normalissima azione di un qualsiasi sabato sera (erano in realtà le prime ore di domenica, intorno alle 6) in uno dei centri della movida milanese. E invece dai social arrivano video e testimonianze a documentare l’accaduto. Il quadro che ne emerge sembra molto diverso dalla versione fornita dalla polizia. Diverso in modo allarmante. Secondo i ragazzi, la causa dell’intervento sarebbe stato il campanello di un monopattino elettrico.
 
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"Un ragazzo nero, seduto insieme a noi, ha preso un 'dot' (monopattini in affitto) e ha iniziato a suonare per scherzo il campanello, che non fa più rumore di quello di una bicicletta. In quel momento si ferma una macchina della polizia e un agente gli urla contro, dicendogli che se non avesse smesso lo avrebbe arrestato". Inizia così il video testimonianza postato sul profilo Instagram di Huda (@riphuda), influencer e tiktoker di successo nonché una delle ragazze presenti quella mattina: "Per fermarlo gli agenti hanno chiamato in aiuto sei pattuglie e due camion blindati. Una volta scesi, ci hanno spinto via con la forza e ci hanno caricati. Uno di noi, senza motivo, è stato gettato a terra da quatto poliziotti per essere preso a calci e manganellate. Sua sorella, preoccupata, si è avvicinata per soccorrerlo e in tutta risposta è stata colpita con una manganellata in testa che avrebbe anche potuto ucciderla". La scena è avvenuta sotto gli occhi di tutti ma gli agenti, sempre nel racconto dei fatti della giovane, "hanno avuto il coraggio di negare tutto: magari è caduta o si è fatta male da sola". Durante la carica, i ragazzi hanno provato a difendersi come potevano: le bottiglie di vetro nel cassonetto della spazzatura erano l’unica 'arma' a disposizione con cui provare a contrastare tute, manganelli e scudi anti sommossa: "hanno iniziato ad inseguirci e a pestare tutti. Non volevano nemmeno chiamare l’ambulanza". L'azione violenta, forse mossa da sentimenti razzisti, almeno secondo quanto raccontato da Huda e dalle persone coinvolte, non si è tradotta solamente nell’atto fisico, ma è stata accompagnata da un'aggressione verbale: "Ci hanno chiesto i documenti. Una ragazza non li aveva, gli agenti continuavano a trattarla come se non capisse e a dirle: torna nel tuo Paese, anche se lei è italiana". In più, uno di loro è stato anche portato in caserma senza apparenti motivi: "L’hanno buttato in macchina a calci e pugni. Non aveva fatto nulla. Quando abbiamo provato a chiedere quale fosse il motivo dell'arresto, non abbiamo ricevuto risposta. Ma si sente una frase: annientate questo negro". Il caso è sotto esame, ma la vicenda ha scatenato il dibattito dell'opinione pubblica, che si trova ancora una volta ad affrontare il discorso del razzismo. Un discorso che, nonostante i proclami, le tante belle parole, sembra appartenere anche a noi italiani. Ogni volta che arriva la polizia, i ragazzi di colore, anche nel nostro Paese, si sentono più minacciati che tutelati. Allora i social, il cellulare e la possibilità di filmare quello che accade diventano l’unico strumento di 'difesa'. Perché in casi come questi, quando poi le vittime si presentano in commissariato per una denuncia, la risposta è quasi sempre (e solo): "Hai finito?". Dopo il danno anche la beffa: screditati, non creduti, accusati di aver fatto magari qualcosa di illegale proprio filmando quello che accadeva o che subivano, passando così da vittime a colpevoli. La luna (del razzismo) è piena. Anche in Italia non possiamo più limitarci a guardare solo il dito.
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