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Home » Attualità » “Una mamma speciale”: Chiara Allegri racconta il suo difficile percorso per diventare donna e madre

“Una mamma speciale”: Chiara Allegri racconta il suo difficile percorso per diventare donna e madre

L'infermiera toscana affetta da sindrome di Rokitansky denuncia la solitudine e lo sbandamento in cui, per anni, si trovano a vivere i genitori adottivi, e sensibilizza il pubblico sul tema della malattia

Caterina Ceccuti
10 Novembre 2022
Chiara Allegri, il marito e la figlia Alexandra

Chiara Allegri, il marito e la figlia Alexandra

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Chiara Allegri è una mamma speciale, che ha sentito il bisogno di raccontare il suo lungo percorso per poter finalmente abbracciare la figlia Alexandra e portarla a casa con sé. Un’autrice coraggiosa, che ha saputo condividere con il pubblico anche se stessa e il suo drammatico percorso per diventare donna, in un libro che, non a caso, s’intitola “Una mamma speciale” (Intrecci Edizioni). Nelle pagine firmate da Chiara si impara a conoscere una ragazzina appena quattordicenne, con tante idee in testa e molti sogni nel cuore, una ragazzina come tante che però un giorno riceve una diagnosi di patologia rara, la sindrome di Rokitansky, che non le permetterà mai di avere figli… proprio lei che, avendo una famiglia numerosa alle spalle, aveva sempre desiderato di mettere al mondo tre figli. La vita invece la ferisce, ma lei non si arrende. Si rialza e guarda avanti con determinazione. Molti anni più tardi, insieme al marito Roberto, inizierà un percorso di adozione lungo e pieno di ostacoli, che dopo sette anni le permetterà finalmente di chiamare “figlia mia” una bellissima bambina, Alexandra, adottata nelle Marche.

Il libro di Chiara Allegri “Una mamma speciale” dove la donna racconta il suo percorso difficile per diventare madre

Infermiera toscana, classe 1979, Chiara spiega il proprio disagio nel vivere all’interno di una società in cui siamo tutti chiamati ad essere genitori biologici: “Nasciamo e ci insegnano che ognuno di noi deve essere in grado di concepire per completare il cerchio della vita. Ma nessuno ci dice che non sempre questo si può avverare. E nessuno ci mette al corrente sulle possibili modalità che esistono per diventare genitori, perché diamo per scontato che ciò avvenga biologicamente. Non sempre è così, e con questo libro voglio parlare della mia malattia e dell’iter legale per adottare un figlio, che può durare anche molti anni e nel quale i futuri genitori vengono lasciati completamente soli“.

Signora Allegri, cos’è la sindrome di Rokitansky?
“È una malattia rara che colpisce una bambina su 4500, in cui si ha una parziale o totale assenza di vagina e utero. Non essendo possibile diagnosticarla durante la gestazione della madre, solitamente la diagnosi viene fatta durante la pubertà, quando non si assiste alla comparsa della prima mestruazione. Io per esempio avevo 14 anni quando iniziarono le visite, esami sicuramente poco piacevoli che mi portarono a sentirmi una cavia da laboratorio. Ogni tanto qualche medico accennava una diagnosi, ma solo dopo due anni di esami e attese, arrivò quella giusta: sindrome di Rokitansky.”

Vuole parlarci di quel periodo?
“Ero rimasta l’unica tra tutte le mie amiche a non aver ancora le mestruazioni. Insieme alla mia famiglia cominciammo a farci delle domande e a voler iniziare a capire il perché. Purtroppo una diagnosi precoce di questa patologia non esiste, in quanto i genitali esterni sono perfettamente formati e funzionanti, mentre quelli interni non si formano o si arrestano quasi subito. Quando mi dissero che non avrei mai potuto avere figli mi è caduto il mondo addosso, perché fin da piccola avevo desiderato diventare mamma di una famiglia numerosa come quella da cui provengo. Crescendo mi sono portata dentro un inferno personale: dovevo sapere tutto, volevo essere preparata. Mi sentivo una donna a metà. Credevo di essere l’unica ad avere questa maledetta sindrome e mi sentivo sola. Nel corso degli anni ho scoperto che altre donne soffrono esattamente come me e che anche loro hanno dovuto affrontare un intervento chirurgico doloroso per riacquistare la propria sessualità”.

Poi però ha incontrato la sua anima gemella, suo marito Roberto…
“Sì, ma non subito. Ho avuto un precedente matrimonio, durato sette anni. Mi sono sposata giovanissima, appena 21enne. Dopo il divorzio ho conosciuto il mio attuale marito, Roberto, che mi ha accettata con tutto l’amore e che ha condiviso con me la triste sorte di una coppia che non poteva generare dei figli propri, almeno a livello biologico. O meglio, con l’ausilio della maternità surrogata lo avremmo potuto fare ma, come tutti sanno, in Italia non è permesso”.

Se la sente di commentare questo fatto?
“Eccome se me la sento, sto addirittura scrivendo un nuovo libro sull’argomento della maternità surrogata, per smuovere le coscienze anche su questa tematica che, così come viene presentata attualmente, sembra essere qualcosa di spregevole: ‘Vergogna, l’utero di una donna non si affitta!’. Ai commenti di certe persone, che spesso e volentieri sono rappresentanti della nostra politica nazionale, rispondo che sarebbe meglio si informassero di più su cosa sia realmente la GPA, ossia la Gestazione Per Altri, una prassi che in Inghilterra viene fatta da anni e per la quale nessuna delle persone coinvolte riceve un euro di compenso. Si tratta di un puro atto di amore, magari da parte di un’amica, di una sorella, una zia, talvolta persino una madre. Insomma, una persona cara che sceglie di farti un dono. Mi piacerebbe che anche nel nostro Paese, alle soglie del 2023, si imparasse a vedere la GPA non come una pratica disgustosa in cui la donna si trasforma in un’incubatrice presa in affitto, ma come un gesto di solidarietà e di amore bello e gratuito. Di questo aspetto non se ne parla mai”.

È recente la notizia di una giovane donna affetta da sindrome di Rokitansky che è riuscita ad avere una figlia biologica. Come è stato possibile?
“È accaduto a Catania ed è stato il primo caso in Italia. È stato possibile solo grazie ad un trapianto di utero, un percorso lungo e rischioso, che però è andato a buon fine ed ha permesso ad una “ragazza Roki” di diventare mamma di una bellissima bambina, Alessandra”.

Lei e suo marito non avevate mai ponderato questa ipotesi?
“Venti tre anni fa, quando mi sono sottoposta all’intervento chirurgico di ricostruzione vaginale, i medici me ne parlarono, ma al tempo in Italia non era ancora praticato questo tipo di trapianto. Avrei dovuto andare in Spagna o negli Stati Uniti. Il fatto che non fosse eseguito nel mio Paese e, parallelamente, che si trattasse di un intervento importante che mette a rischio la vita della paziente, mi ha portato ad abbandonare l’idea. Come tutti i trapianti, anche quello di utero necessita di una serie di esami per l’idoneità, poi una terapia con immunosoppressori, l’attesa di una donatrice, infine la possibilità di un rigetto nel post operatorio. Senza dimenticare che, per poter avere un figlio, dopo ci si deve sottoporre alla fecondazione assistita. In questo caso, per eseguire la Fivet, si possono utilizzare il seme del compagno e i propri ovociti, perché noi ‘ragazze Roki’ siamo in grado di produrne in autonomia, anche se purtroppo non possiamo portare avanti una gravidanza”.

Chiara Allegri

Dunque lei e Roberto avete optato per l’adozione…
“Esatto, e questo è un altro tasto dolente della mia storia. In Italia si parla tanto di adozione, di come sia un gesto di amore grandissimo, ma la burocrazia non aiuta per niente. Il nostro iter per arrivare ad abbracciare Alexandra è iniziato sette anni fa. Avviammo tutte le procedure, sia nazionali che internazionali. Nel nostro Paese l’idoneità all’adozione ha una scadenza di tre anni, che deve essere via via rinnovata se, come nel nostro caso, di anni ne passano molti di più senza che il percorso si compia. Per l’adozione internazionale le cose sono differenti, il mandato di idoneità alla CAI è unico, e si mantiene fino a che non riesci ad adottare un bambino oppure fino a quando scegli di desistere. In Italia, comunque, la burocrazia è scandalosa: dopo sette anni di attesa siamo riusciti ad arrivare a nostra figlia dovendo fare un rinnovo di idoneità e dovendo estendere a spese nostre la nostra stessa idoneità familiare agli altri tribunali del Paese”.

Che intende dire, il percorso di adozione in Italia non è gratuito?
“Ufficialmente è così, nel senso che le pratiche di idoneità non le paghi. Ma quello che forse nessuno sa  è che i tribunali delle varie regioni non sono interconnessi tra loro, perciò, vivendo in Toscana e avendo depositato la nostra idoneità al tribunale di Firenze, a spese nostre abbiamo dovuto stampare tutto il fascicolo, selezionare diverse Regioni con i rispettivi tribunali, infine inviare copie del fascicolo stesso per far sì che la nostra domanda di adozione fosse nota anche nel resto del territorio nazionale. È stato un iter lungo, per il quale abbiamo speso 500 euro, facendo una ricerca di mesi e mesi tra i tribunali d’Italia. E se invece che ad alcuni, avessimo voluto inviare i la nostra idoneità ai tribunali di tutte le Regioni, la cifra sarebbe cresciuta fino ad arrivare a 1500 euro. Il percorso di adozione internazionale, invece, è ufficialmente a pagamento. Le tariffe cambiano in base al paese che scegli e alle modalità di abbinamento in vigore. Se si cerca un’adozione in America Latina o in Asia, per esempio, i genitori dovranno presentarsi in loco una sola volta, rimandovi però per 30 -40 giorni di seguito, durante i quali verrà fatto l’inserimento con il bambino o con la bambina e, eventualmente, la famiglia potrà ritornare a casa tutta insieme. Alle spese di una lunga trasferta, vanno poi sommate quelle che il Governo locale esige ma non giustifica, o giustifica male”.

Nel vostro caso che tipo di percorso avete intrapreso?
“Alexandra è stata adottata in Italia, nelle Marche, ma al tempo avevamo fatto domanda anche in Etiopia. Pagammo una cospicua somma di denaro, per poi sentirci dire, dopo anni e con rammarico, che siccome il Governo etiope nel frattempo era decaduto, la possibilità di adottare in quel Paese non era più garantita e che i nostri soldi erano andati perduti. Insomma, quello che ci tengo a sottolineare è che non è facile gestire il desiderio di genitorialità con un’attesa snervante e prolungata, nel mezzo della quale vengono coinvolti sentimenti importanti e difficili”.

Vi siete sentiti soli?
“Eccome. Non si ha un aiuto da parte dello Stato, non ci sono punti di assistenza gratuiti cui rivolgersi per parlare dei tuoi stati d’animo, delle preoccupazioni, delle ansie. Devi mettere mano al portafogli e pensarci da solo a cercarti uno specialista. Noi facemmo un percorso da una psicoterapeuta che ci ha aiutato a stemperare la paura. Ma mi piace pensare a due futuri genitori adottivi come a due genitori biologici in semplice attesa. Con le stesse ansie e speranze. La differenza sta nel fatto che i genitori biologici, che vivono una gravidanza normale, vengono assistiti dai medici, fanno esami ed ecografie, mentre i genitori adottivi vengono lasciati a se stessi. La coppia passa il suo tempo a sperare solo di essere chiamata”.

Ci racconta qualcosa del suo libro?
“L’ho scritto per due motivi. Primo, vorrei che si prendesse consapevolezza dell’esistenza della Sindrome di Rokitansky anche in Italia. Si tratta di una patologia rara, è vero, ma se si considera che ne viene colpita una bambina su 4500 alla fine siamo tante, sia in Italia che nel resto del mondo. Mi dispiace moltissimo che alcuni specialisti ginecologi non sappiano neppure di cosa si tratti. Non siamo solo dei numeri, siamo delle donne, delle persone, abbiamo diritto ad avere una voce. Nel libro faccio emergere quello che dobbiamo affrontare per essere donne e diventare madri, perché siamo costrette a percorsi dolorosi e difficili. Il secondo intento è, appunto, quello di far conoscere nell’intimo il percorso di adozione da parte di una famiglia, meraviglioso ma complesso e arduo. Sarebbe giusto che i futuri adottanti fossero preparati a cosa li aspetta. Magari noi abbiamo avuto in sorte un percorso molto lungo rispetto ad altri, ma come è capitato a me e Roberto può capitare a chiunque. Guardando Alexandra, comunque, se tornassi indietro lo rifarei mille volte”.

Commenti a caldo da parte dei lettori?
“Di feedback ne ho avuti molti. In diversi mi hanno scritto su Facebook per raccontarmi le proprie sensazioni: “Sei stata molto coraggiosa a scrivere un’autobiografia come questa”; “Il tuo libro mi ha dato speranza, tenacia e volontà nel farcela”; “Tante lacrime e tanti fazzoletti!”. Allora mi sono sentita anche io un po’ magica, come lo è sempre stata mia madre per me. A lei per prima ho dedicato questo libro, perché per me è stata una mamma speciale che piano piano ha racchiuso tutte le mamme del mondo, biologiche e non. Sicuramente questo mio libro è stato scritto di pancia. Potrei dire che sia stato l’unica cosa fatta di pancia nella mia vita”.

Che tipo è Alexandra? Da quanto tempo è con voi?
“Il 26 gennaio 2023 saranno quattro anni che è con noi. Adesso la bambina ha nove anni e mezzo. È un tipo esplosivo, molto solare, è estroversa e simpatica. Soprattutto, Alexandra è una bimba molto resiliente. Permalosa, cocciuta, ma tanto tenace. Io e Roberto siamo sicuri che qualsiasi obiettivo si porrà nella vita saprà raggiungerlo. Peraltro somiglia a noi, sia fisicamente che caratterialmente; una magia, questa, che spesso accade tra i genitori che adottano e i figli che vengono adottati. Le persone che ci vedono per la prima volta non direbbero mai che Alexandra non sia nostra figlia biologica, ne abbiamo avuto conferma anche dai familiari e dagli amici. E allora io e Roberto ci ripetiamo sempre una cosa bella, una cosa che abbiamo sempre sentito nel cuore: Alexandra l’abbiamo concepita nell’universo, era da qualche parte ad aspettarci e bisognava solo avere la pazienza di incontrarla. E questa è la conferma che sia valsa davvero la pena non aver mollato”.

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  • Nicoletta Sipos, giornalista e scrittrice, ha vissuto in Ungheria, in Germania e negli Stati Uniti, prima di raggiungere Milano e lì restare. Il suo romanzo “La guerra di H”, un romanzo fortemente ispirato a fatti realmente accaduti.

L’autrice indaga in maniera del tutto nuova e appassionante un momento drammatico, decisivo della storia del nostro continente: la Seconda guerra mondiale. A raccontare l’ascesa e la disfatta del Nazismo è stavolta la voce di un bambino tedesco, che riporta con semplicità e veracità le molte sofferenze patite dal suo popolo durante il conflitto scatenato da Hitler, focalizzando l’attenzione del lettore sul drammatico paradigma che accomuna chiunque si trovi a vivere sulla propria pelle una guerra: la sofferenza. Pagine toccanti, le sue, tanto più intense perché impregnate di fatti reali, emozioni provate e sentite dai protagonisti e condivise da quanti, tuttora, si trovano coinvolti in un conflitto armato. La memoria collettiva è uno strumento potente per non commettere gli stessi errori. 

"Imparai poco alla volta – scrive il piccolo Heinrich Stein, protagonista del romanzo – che nel nostro strano Paese la verità aveva più volti con infinite sfumature”.

👉Perché una storia così e perché ora?
“Ho incontrato il protagonista di questa mia storia molto tempo fa, addirittura negli anni ’50, ossia in un’epoca che portava ancora gli strascichi della guerra. Diventammo amici, parlammo di Hitler e della miseria della Germania. Poco per volta, via via che ci incontravamo, lui aggiungeva ricordi, dettagli, confessioni. Per anni ho portato dentro di me la testimonianza di questa storia che si arricchiva sempre più di dettagli. Molte volte avrei voluto scriverla, magari a quattro mani con il mio amico, ma lui non se la sentiva. Io stessa esitavo ad affrontare questa storia che racconta una famiglia tedesca in forte sofferenza in una Germania ferita e umiliata. La gente ha etichettato tutto il popolo tedesco durante il nazismo come crudele per antonomasia. Non si pensa mai a quanto la gente comune abbia sofferto, alla fame e al freddo che anche il popolo tedesco ha patito”.

✍ Caterina Ceccuti

#lucenews #giornodellamemoria #27gennaio
  • È dalla sua camera con vista affacciata sull’Arno che Ornella Vanoni accetta di raccontare un po’ di sé ai lettori di Luce!, in attesa di esibirsi, sabato 28 gennaio sul palco della Tuscany Hall di Firenze, dov’è in programma una nuova tappa della nuova tournée Le Donne e la Musica. Un ritorno atteso per Ornella Vanoni, che in questo tour è accompagnata da un quintetto di sole donne.

Innanzitutto come sta, signora Vanoni?
“Stanca, sono partita due mesi dopo l’intervento al femore che mi sono rotto cadendo per una buca proprio davanti a casa mia. Ma l’incidente non mi ha impedito di intraprendere un progetto inaspettato che, sin da subito, mi è stato molto a cuore. Non ho perso la volontà di andare avanti. Anche se il tempo per prepararlo e provare è stato pochissimo. E poi sono molto dispiaciuta“.

Per cosa?
“La morte dell’orso Juan Carrito, travolto e ucciso da un’auto cercava bacche e miele: la mia carissima amica Dacia (Maraini, ndr) l’altro giorno ha scritto una cosa molto bella dedicata a lui. Dovrò scrollarmi di dosso la malinconia e ricaricarmi in vista del concerto“.

Con lei sul palco ci sarà una jazz band al femminile con Sade Mangiaracina al pianoforte, Eleonora Strino alla chitarra, Federica Michisanti al contrabbasso, Laura Klain alla batteria e Leila Shirvani. Perché questa scelta?
“Perché sono tutte bravissime, professioniste davvero eccezionali. Non è una decisione presa sulla spinta di tematiche legate al genere o alle quote rosa, ma nata grazie a Paolo Fresu, amico e trombettista fantastico del quale sono innamorata da sempre. Tempo fa, durante una chiacchierata, Paolo mi raccontò che al festival jazz di Berchidda erano andate in scena tante musiciste bravissime. E allora ho pensato: ’Se sono così brave perché non fare un gruppo di donne? Certo, non l’ha fatto mai nessuno. Bene, ora lo faccio io“.

Il fatto che siano tutte donne è un valore aggiunto?
“In realtà per me conta il talento, ma sono felice della scelta: è bellissimo sentire suonare queste artiste, vederle sul palco intorno a me mi emoziona“.

L
  • Devanshi Sanghvi è una bambina di otto anni che sarebbe potuta crescere e studiare per gestire l’attività di diamanti multimilionaria appartenente alla sua facoltosissima famiglia, con un patrimonio stimato di 60 milioni di dollari.

Ma la piccola ha scelto di farsi suora, vivendo così una vita spartana, vestita con sari bianchi, a piedi nudi e andando di porta in porta a chiedere l’elemosina. Si è unita ai “diksha” alla presenza di anziani monaci giainisti. La bimba è arrivata alla cerimonia ingioiellata e vestita di sete pregiate. Sulla sua testa poggiava una corona tempestata di diamanti. Dopo la cerimonia, a cui hanno partecipato migliaia di persone, è rimasta in piedi con altre suore, vestita con un sari bianco che le copriva anche la testa rasata. Nelle fotografie, la si vede con in mano una scopa che ora dovrà usare per spazzare via gli insetti dal suo cammino per evitare di calpestarli accidentalmente.

Di Barbara Berti ✍

#lucenews #lucelanazione #india #DevanshiSanghvi
  • Settanta giorni trascorsi in un mondo completamente bianco, la capitana dell’esercito britannico Harpreet Chandi, che già lo scorso anno si era distinta per un’impresa tra i ghiacci, è una fisioterapista che lavora in un’unità di riabilitazione regionale nel Buckinghamshire, fornendo supporto a soldati e ufficiali feriti. 

Ha dimostrato che i record sono fatti per essere battuti e, soprattutto, i limiti personali superabili grazie alla forza di volontà e alla preparazione. E ora è diventata una vera leggenda vivente, battendo il record del mondo femminile per la più lunga spedizione polare – sola e senza assistenza – della storia.

Il 9 gennaio scorso, 57esimo giorno del viaggio che era cominciato lo scorso 14 novembre, la 34enne inglese ha raggiunto il centro del Polo Sud dopo aver percorso circa 1100 chilometri. Quando è arrivata a destinazione nel bel mezzo della calotta polare era felice, pura e semplice gioia di aver raggiunto l’agognato traguardo: “Il Polo Sud è davvero un posto incredibile dove stare. Non mi sono fermata molto a lungo perché ho ancora un lungo viaggio da fare. È stato davvero difficile arrivare qui, sciando tra le 13 e le 15 ore al giorno con una media di 5 ore di sonno”.

Di Irene Carlotta Cicora ✍

#lucenews #lucelanazione #polosud #HarpreetChandi #polarpreet

Chiara Allegri è una mamma speciale, che ha sentito il bisogno di raccontare il suo lungo percorso per poter finalmente abbracciare la figlia Alexandra e portarla a casa con sé. Un'autrice coraggiosa, che ha saputo condividere con il pubblico anche se stessa e il suo drammatico percorso per diventare donna, in un libro che, non a caso, s'intitola "Una mamma speciale" (Intrecci Edizioni). Nelle pagine firmate da Chiara si impara a conoscere una ragazzina appena quattordicenne, con tante idee in testa e molti sogni nel cuore, una ragazzina come tante che però un giorno riceve una diagnosi di patologia rara, la sindrome di Rokitansky, che non le permetterà mai di avere figli... proprio lei che, avendo una famiglia numerosa alle spalle, aveva sempre desiderato di mettere al mondo tre figli. La vita invece la ferisce, ma lei non si arrende. Si rialza e guarda avanti con determinazione. Molti anni più tardi, insieme al marito Roberto, inizierà un percorso di adozione lungo e pieno di ostacoli, che dopo sette anni le permetterà finalmente di chiamare "figlia mia" una bellissima bambina, Alexandra, adottata nelle Marche.

Il libro di Chiara Allegri "Una mamma speciale" dove la donna racconta il suo percorso difficile per diventare madre
Infermiera toscana, classe 1979, Chiara spiega il proprio disagio nel vivere all'interno di una società in cui siamo tutti chiamati ad essere genitori biologici: "Nasciamo e ci insegnano che ognuno di noi deve essere in grado di concepire per completare il cerchio della vita. Ma nessuno ci dice che non sempre questo si può avverare. E nessuno ci mette al corrente sulle possibili modalità che esistono per diventare genitori, perché diamo per scontato che ciò avvenga biologicamente. Non sempre è così, e con questo libro voglio parlare della mia malattia e dell’iter legale per adottare un figlio, che può durare anche molti anni e nel quale i futuri genitori vengono lasciati completamente soli".

Signora Allegri, cos'è la sindrome di Rokitansky? "È una malattia rara che colpisce una bambina su 4500, in cui si ha una parziale o totale assenza di vagina e utero. Non essendo possibile diagnosticarla durante la gestazione della madre, solitamente la diagnosi viene fatta durante la pubertà, quando non si assiste alla comparsa della prima mestruazione. Io per esempio avevo 14 anni quando iniziarono le visite, esami sicuramente poco piacevoli che mi portarono a sentirmi una cavia da laboratorio. Ogni tanto qualche medico accennava una diagnosi, ma solo dopo due anni di esami e attese, arrivò quella giusta: sindrome di Rokitansky."

Vuole parlarci di quel periodo? "Ero rimasta l'unica tra tutte le mie amiche a non aver ancora le mestruazioni. Insieme alla mia famiglia cominciammo a farci delle domande e a voler iniziare a capire il perché. Purtroppo una diagnosi precoce di questa patologia non esiste, in quanto i genitali esterni sono perfettamente formati e funzionanti, mentre quelli interni non si formano o si arrestano quasi subito. Quando mi dissero che non avrei mai potuto avere figli mi è caduto il mondo addosso, perché fin da piccola avevo desiderato diventare mamma di una famiglia numerosa come quella da cui provengo. Crescendo mi sono portata dentro un inferno personale: dovevo sapere tutto, volevo essere preparata. Mi sentivo una donna a metà. Credevo di essere l’unica ad avere questa maledetta sindrome e mi sentivo sola. Nel corso degli anni ho scoperto che altre donne soffrono esattamente come me e che anche loro hanno dovuto affrontare un intervento chirurgico doloroso per riacquistare la propria sessualità".

Poi però ha incontrato la sua anima gemella, suo marito Roberto... "Sì, ma non subito. Ho avuto un precedente matrimonio, durato sette anni. Mi sono sposata giovanissima, appena 21enne. Dopo il divorzio ho conosciuto il mio attuale marito, Roberto, che mi ha accettata con tutto l'amore e che ha condiviso con me la triste sorte di una coppia che non poteva generare dei figli propri, almeno a livello biologico. O meglio, con l'ausilio della maternità surrogata lo avremmo potuto fare ma, come tutti sanno, in Italia non è permesso".

Se la sente di commentare questo fatto? "Eccome se me la sento, sto addirittura scrivendo un nuovo libro sull'argomento della maternità surrogata, per smuovere le coscienze anche su questa tematica che, così come viene presentata attualmente, sembra essere qualcosa di spregevole: 'Vergogna, l'utero di una donna non si affitta!'. Ai commenti di certe persone, che spesso e volentieri sono rappresentanti della nostra politica nazionale, rispondo che sarebbe meglio si informassero di più su cosa sia realmente la GPA, ossia la Gestazione Per Altri, una prassi che in Inghilterra viene fatta da anni e per la quale nessuna delle persone coinvolte riceve un euro di compenso. Si tratta di un puro atto di amore, magari da parte di un'amica, di una sorella, una zia, talvolta persino una madre. Insomma, una persona cara che sceglie di farti un dono. Mi piacerebbe che anche nel nostro Paese, alle soglie del 2023, si imparasse a vedere la GPA non come una pratica disgustosa in cui la donna si trasforma in un'incubatrice presa in affitto, ma come un gesto di solidarietà e di amore bello e gratuito. Di questo aspetto non se ne parla mai".

È recente la notizia di una giovane donna affetta da sindrome di Rokitansky che è riuscita ad avere una figlia biologica. Come è stato possibile? "È accaduto a Catania ed è stato il primo caso in Italia. È stato possibile solo grazie ad un trapianto di utero, un percorso lungo e rischioso, che però è andato a buon fine ed ha permesso ad una “ragazza Roki” di diventare mamma di una bellissima bambina, Alessandra".

Lei e suo marito non avevate mai ponderato questa ipotesi? "Venti tre anni fa, quando mi sono sottoposta all'intervento chirurgico di ricostruzione vaginale, i medici me ne parlarono, ma al tempo in Italia non era ancora praticato questo tipo di trapianto. Avrei dovuto andare in Spagna o negli Stati Uniti. Il fatto che non fosse eseguito nel mio Paese e, parallelamente, che si trattasse di un intervento importante che mette a rischio la vita della paziente, mi ha portato ad abbandonare l'idea. Come tutti i trapianti, anche quello di utero necessita di una serie di esami per l'idoneità, poi una terapia con immunosoppressori, l'attesa di una donatrice, infine la possibilità di un rigetto nel post operatorio. Senza dimenticare che, per poter avere un figlio, dopo ci si deve sottoporre alla fecondazione assistita. In questo caso, per eseguire la Fivet, si possono utilizzare il seme del compagno e i propri ovociti, perché noi 'ragazze Roki' siamo in grado di produrne in autonomia, anche se purtroppo non possiamo portare avanti una gravidanza".

Chiara Allegri

Dunque lei e Roberto avete optato per l'adozione... "Esatto, e questo è un altro tasto dolente della mia storia. In Italia si parla tanto di adozione, di come sia un gesto di amore grandissimo, ma la burocrazia non aiuta per niente. Il nostro iter per arrivare ad abbracciare Alexandra è iniziato sette anni fa. Avviammo tutte le procedure, sia nazionali che internazionali. Nel nostro Paese l'idoneità all'adozione ha una scadenza di tre anni, che deve essere via via rinnovata se, come nel nostro caso, di anni ne passano molti di più senza che il percorso si compia. Per l'adozione internazionale le cose sono differenti, il mandato di idoneità alla CAI è unico, e si mantiene fino a che non riesci ad adottare un bambino oppure fino a quando scegli di desistere. In Italia, comunque, la burocrazia è scandalosa: dopo sette anni di attesa siamo riusciti ad arrivare a nostra figlia dovendo fare un rinnovo di idoneità e dovendo estendere a spese nostre la nostra stessa idoneità familiare agli altri tribunali del Paese".

Che intende dire, il percorso di adozione in Italia non è gratuito? "Ufficialmente è così, nel senso che le pratiche di idoneità non le paghi. Ma quello che forse nessuno sa  è che i tribunali delle varie regioni non sono interconnessi tra loro, perciò, vivendo in Toscana e avendo depositato la nostra idoneità al tribunale di Firenze, a spese nostre abbiamo dovuto stampare tutto il fascicolo, selezionare diverse Regioni con i rispettivi tribunali, infine inviare copie del fascicolo stesso per far sì che la nostra domanda di adozione fosse nota anche nel resto del territorio nazionale. È stato un iter lungo, per il quale abbiamo speso 500 euro, facendo una ricerca di mesi e mesi tra i tribunali d'Italia. E se invece che ad alcuni, avessimo voluto inviare i la nostra idoneità ai tribunali di tutte le Regioni, la cifra sarebbe cresciuta fino ad arrivare a 1500 euro. Il percorso di adozione internazionale, invece, è ufficialmente a pagamento. Le tariffe cambiano in base al paese che scegli e alle modalità di abbinamento in vigore. Se si cerca un'adozione in America Latina o in Asia, per esempio, i genitori dovranno presentarsi in loco una sola volta, rimandovi però per 30 -40 giorni di seguito, durante i quali verrà fatto l'inserimento con il bambino o con la bambina e, eventualmente, la famiglia potrà ritornare a casa tutta insieme. Alle spese di una lunga trasferta, vanno poi sommate quelle che il Governo locale esige ma non giustifica, o giustifica male".

Nel vostro caso che tipo di percorso avete intrapreso? "Alexandra è stata adottata in Italia, nelle Marche, ma al tempo avevamo fatto domanda anche in Etiopia. Pagammo una cospicua somma di denaro, per poi sentirci dire, dopo anni e con rammarico, che siccome il Governo etiope nel frattempo era decaduto, la possibilità di adottare in quel Paese non era più garantita e che i nostri soldi erano andati perduti. Insomma, quello che ci tengo a sottolineare è che non è facile gestire il desiderio di genitorialità con un'attesa snervante e prolungata, nel mezzo della quale vengono coinvolti sentimenti importanti e difficili".

Vi siete sentiti soli? "Eccome. Non si ha un aiuto da parte dello Stato, non ci sono punti di assistenza gratuiti cui rivolgersi per parlare dei tuoi stati d'animo, delle preoccupazioni, delle ansie. Devi mettere mano al portafogli e pensarci da solo a cercarti uno specialista. Noi facemmo un percorso da una psicoterapeuta che ci ha aiutato a stemperare la paura. Ma mi piace pensare a due futuri genitori adottivi come a due genitori biologici in semplice attesa. Con le stesse ansie e speranze. La differenza sta nel fatto che i genitori biologici, che vivono una gravidanza normale, vengono assistiti dai medici, fanno esami ed ecografie, mentre i genitori adottivi vengono lasciati a se stessi. La coppia passa il suo tempo a sperare solo di essere chiamata".

Ci racconta qualcosa del suo libro? "L'ho scritto per due motivi. Primo, vorrei che si prendesse consapevolezza dell'esistenza della Sindrome di Rokitansky anche in Italia. Si tratta di una patologia rara, è vero, ma se si considera che ne viene colpita una bambina su 4500 alla fine siamo tante, sia in Italia che nel resto del mondo. Mi dispiace moltissimo che alcuni specialisti ginecologi non sappiano neppure di cosa si tratti. Non siamo solo dei numeri, siamo delle donne, delle persone, abbiamo diritto ad avere una voce. Nel libro faccio emergere quello che dobbiamo affrontare per essere donne e diventare madri, perché siamo costrette a percorsi dolorosi e difficili. Il secondo intento è, appunto, quello di far conoscere nell'intimo il percorso di adozione da parte di una famiglia, meraviglioso ma complesso e arduo. Sarebbe giusto che i futuri adottanti fossero preparati a cosa li aspetta. Magari noi abbiamo avuto in sorte un percorso molto lungo rispetto ad altri, ma come è capitato a me e Roberto può capitare a chiunque. Guardando Alexandra, comunque, se tornassi indietro lo rifarei mille volte".

Commenti a caldo da parte dei lettori? "Di feedback ne ho avuti molti. In diversi mi hanno scritto su Facebook per raccontarmi le proprie sensazioni: “Sei stata molto coraggiosa a scrivere un'autobiografia come questa”; “Il tuo libro mi ha dato speranza, tenacia e volontà nel farcela”; “Tante lacrime e tanti fazzoletti!”. Allora mi sono sentita anche io un po' magica, come lo è sempre stata mia madre per me. A lei per prima ho dedicato questo libro, perché per me è stata una mamma speciale che piano piano ha racchiuso tutte le mamme del mondo, biologiche e non. Sicuramente questo mio libro è stato scritto di pancia. Potrei dire che sia stato l'unica cosa fatta di pancia nella mia vita".

Che tipo è Alexandra? Da quanto tempo è con voi? "Il 26 gennaio 2023 saranno quattro anni che è con noi. Adesso la bambina ha nove anni e mezzo. È un tipo esplosivo, molto solare, è estroversa e simpatica. Soprattutto, Alexandra è una bimba molto resiliente. Permalosa, cocciuta, ma tanto tenace. Io e Roberto siamo sicuri che qualsiasi obiettivo si porrà nella vita saprà raggiungerlo. Peraltro somiglia a noi, sia fisicamente che caratterialmente; una magia, questa, che spesso accade tra i genitori che adottano e i figli che vengono adottati. Le persone che ci vedono per la prima volta non direbbero mai che Alexandra non sia nostra figlia biologica, ne abbiamo avuto conferma anche dai familiari e dagli amici. E allora io e Roberto ci ripetiamo sempre una cosa bella, una cosa che abbiamo sempre sentito nel cuore: Alexandra l'abbiamo concepita nell'universo, era da qualche parte ad aspettarci e bisognava solo avere la pazienza di incontrarla. E questa è la conferma che sia valsa davvero la pena non aver mollato".

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