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Home » Attualità » “Chi non si nomina non esiste”: via le discriminazioni dai documenti

“Chi non si nomina non esiste”: via le discriminazioni dai documenti

L’associazione Femminile Maschile Neutro presenta un'istanza contro il linguaggio discriminatorio nella carta d'identità, nel passaporto e nel certificato elettorale, nel rispetto della parità di genere

Marianna Grazi
16 Marzo 2023
L'associazione Femminile Maschile Neutro presenta una diffida contro il linguaggio discriminatorio nella documentazione amministrativa

L'associazione Femminile Maschile Neutro presenta una diffida contro il linguaggio discriminatorio nella documentazione amministrativa

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Avete presente il famoso Mario Rossi che è “Il” titolare della carta d’identità, “nato il”, che magari è anche “donatore” di organi? Ecco per lui mettere una firma sul documento non sarà certo un problema. Ma quando al suo posto c’è Maria e lei è un po’ più attenta alla forma, oltre che alla sostanza, magari siglare sotto al dicitura “firma ‘del’ titolare” diventerà un motivo di protesta, perché lei è “nata” e non “nato”, perché lei è anche “donatrice” e non “donatore”. Perché, dicevamo, la forma è sostanza. E se le donne o le persone che non si riconoscono nel genere maschile esistono ma non vengono mai nominate – sempre un sottinteso, nascoste dal maschile neutro che non è più tollerabile – allora è come se perdessero la loro identità. Come se diventassero invisibili.

L’associazione Femminile Maschile Neutro è stata co-fondata da Maria Tiziana Lemme e Amalia Signorelli

Partendo da questo presupposto, ormai assodato, l’associazione Femminile Maschile Neutro ha presentato una diffida al Ministero dell’Interno, al Ministero della Pubblica Amministrazione e al Ministero dell’Economia e delle Finanze per ottenere la modifica delle specifiche tecniche per la predisposizione, la formazione e il rilascio della carta d’identità elettronica, nonché di quella cartacea, del passaporto e del certificato elettorale, nel rispetto del diritto al nome, alla parità di genere e dall’identità personale. In sostanza per ribadire il sacrosanto diritto all’utilizzo di un linguaggio che non sia discriminatorio, all’autodeterminazione circa la definizione dei dettagli dell’identità personale e di genere, secondo un un principio sancito dall’art. 8 della Carta Europea dei Diritti umani e dei diritti fondamentali. Un diritto inviolabile fissato anche dall’art. 2 della Costituzione e riconosciuto a livelli sovranazionali.

L’istanza ai Ministeri è stata promossa dalla giornalista Maria Tiziana Lemme, co-fondatrice insieme all’antropologa Amalia Signorelli dell’associazione – che dal 2017 porta avanti un importante lavoro per eliminare le discriminazioni verbali e linguistiche -, in occasione della Giornata Internazionale della Donna. “Chi non si nomina non esiste – dichiara – ed è gravissimo che nella società contemporanea una donna non esista, di fatto, e sia ancora discriminata e priva di definizione nel linguaggio amministrativo. La nostra diffida nasce con lo scopo di attuare una modifica sostanziale della terminologia all’interno della documentazione amministrativa, inclusi i documenti d’identità”. Il linguaggio è il mezzo formativo del pensiero. La sottomissione verbale, la negazione del femminile in ogni contesto, a partire dalla carta d’identità fino alla coniugazione dei verbi, in Italia hanno uno scopo ben preciso: la perseverante e sfiancante denigrazione delle donne sia nel contesto sociale che economico. “Il diritto al nome, alla parità di genere e all’identità personale – chiosa Maria Tiziana Lemme – passa anche e soprattutto dall’utilizzo e dalla formazione della documentazione amministrativa. Questo obiettivo è un diritto fondamentale, perché le parole sono il tramite per la nostra visione del mondo, il nostro modo di pensare e di considerare le persone”.

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  • Per una detenuta come Joy – nigeriana di 34 anni, arrestata nel 2014 per possesso di droga – uscire dal carcere significherà dover imparare a badare a se stessa. Lei che è lontana da casa e dalla famiglia, lei che non ha nessuno ad aspettarla. In carcere ha fatto il suo percorso, ha imparato tanto, ha sofferto di più. Ma ha anche conosciuto persone importanti, detenute come lei che sono diventate delle amiche. 

Mon solo. Nella Cooperativa sociale Gomito a Gomito, per esempio, ha trovato una seconda famiglia, un ambiente lavorativo che le ha offerto “opportunità che, se fossi stata fuori dal carcere, non avrei mai avuto”, come quella di imparare un mestiere e partecipare ad un percorso di riabilitazione sociale e personale verso l’indipendenza, anche economica.

Enrica Morandi, vice presidente e coordinatrice dei laboratori sartoriali del carcere di Rocco D’Amato (meglio noto ai bolognesi come “La Dozza”), si riferisce a lei chiamandola “la mia Joy”, perché dopo tanti anni di lavoro fianco a fianco ha imparato ad apprezzare questa giovane donna impegnata a ricostruire la propria vita: 

“Joy è extracomunitaria, nel nostro Paese non ha famiglia. Per lei sarà impossibile beneficiare degli sconti di pena su cui normalmente possono contare le detenute italiane, per buona condotta o per anni di reclusione maturati. Non è una questione di razzismo, è che esistono problemi logistici veri e propri, come il non sapere dove sistemare e a chi affidare queste ragazze, una volta lasciate le mura del penitenziario. Se una donna italiana ha ad attenderla qualcuno che si fa carico di ospitarla, Joy e altre come lei non hanno nessun cordone affettivo cui appigliarsi”.

L
  • Presidi psicologici, psicoterapeutici e di counselling per tutti gli studenti universitari e scolastici. Lo chiedono l’Udu, Unione degli universitari, e la Rete degli studenti medi nella proposta di legge ‘Chiedimi come sto’ consegnata a una delegazione di parlamentari nel corso di una conferenza stampa a Montecitorio.

La proposta è stata redatta secondo le conclusioni di una ricerca condotta da Spi-Cgil e Istituto Ires, che ha evidenziato come, su un campione di 50mila risposte, il 28 per cento abbia avuto esperienze di disturbi alimentari e oltre il 14 di autolesionismo.

“Nella nostra generazione è ancora forte lo stigma verso chi sta male ed è difficile chiedere aiuto - spiega Camilla Piredda, coordinatrice nazionale dell’Udu - l’interesse effettivo della politica si è palesato solo dopo il 15esimo suicidio di studenti universitari in un anno e mezzo. Ci sembra assurdo che la politica si interessi solamente dopo che si supera il limite, con persone che arrivano a scegliere di togliersi la vita.

Dall’altro lato, è positivo che negli ultimi mesi si sia deciso di chiedere a noi studenti come affrontare e come risolvere, il problema. Non è scontato e non è banale, perché siamo abituati a decenni in cui si parla di nuove generazioni senza parlare alle nuove generazioni”.

#luce #lucenews #università
  • La polemica politica riaccende i riflettori sulle madri detenute con i figli dopo la proposta di legge in merito alla detenzione in carcere delle donne in gravidanza: già presentata dal Pd nella scorsa legislatura, approvata in prima lettura al Senato, ma non alla Camera, prevedeva l’affido della madre e del minore a strutture protette, come le case famiglia, e vigilate. La dichiarata intenzione del centrodestra di rivedere il testo ha messo il Pd sul piede di guerra; alla fine di uno scontro molto acceso, i dem hanno ritirato il disegno di legge ma la Lega, quasi per ripicca, ne ha presentato uno nuovo, esattamente in linea con i desideri della maggioranza.

Lunedì non ci sarà quindi alcuna discussione alla Camera sul testo presentato da Debora Serracchiani nella scorsa legislatura, Tutto ripartirà da capo, con un nuovo testo, firmato da due esponenti del centrodestra: Jacopo Morrone e Ingrid Bisa.

“Questo (il testo Serracchini) era un testo che era già stato votato da un ramo del Parlamento, noi lo avevamo ripresentato per migliorare le condizioni delle detenute madri – ha spiegato ieri il dem Alessandro Zan – ma la maggioranza lo ha trasformato inserendovi norme che di fatto peggiorano le cose, consentendo addirittura alle donne incinte o con figli di meno di un anno di età di andare in carcere. Così non ha più senso, quindi ritiriamo le firme“.

Lo scontro tra le due fazioni è finito (anche) sui social media. "Sul tema delle borseggiatrici e ladre incinte occorre cambiare la visione affinché la gravidanza non sia una scusa“ sottolineano i due presentatori della proposta.

La proposta presentata prevede modifiche all’articolo 146 del codice penale in materia di rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena: “Se sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti – si legge nel testo presentato – il magistrato di sorveglianza può disporre che l’esecuzione della pena non sia differita, ovvero, se già differita, che il differimento sia revocato. Qualora la persona detenuta sia recidiva, l’esecuzione della pena avviene presso un istituto di custodia attenuata per detenute madri“.

#lucenews #madriincarcere
Avete presente il famoso Mario Rossi che è "Il" titolare della carta d'identità, "nato il", che magari è anche "donatore" di organi? Ecco per lui mettere una firma sul documento non sarà certo un problema. Ma quando al suo posto c'è Maria e lei è un po' più attenta alla forma, oltre che alla sostanza, magari siglare sotto al dicitura "firma 'del' titolare" diventerà un motivo di protesta, perché lei è "nata" e non "nato", perché lei è anche "donatrice" e non "donatore". Perché, dicevamo, la forma è sostanza. E se le donne o le persone che non si riconoscono nel genere maschile esistono ma non vengono mai nominate - sempre un sottinteso, nascoste dal maschile neutro che non è più tollerabile - allora è come se perdessero la loro identità. Come se diventassero invisibili.
L'associazione Femminile Maschile Neutro è stata co-fondata da Maria Tiziana Lemme e Amalia Signorelli
Partendo da questo presupposto, ormai assodato, l’associazione Femminile Maschile Neutro ha presentato una diffida al Ministero dell’Interno, al Ministero della Pubblica Amministrazione e al Ministero dell’Economia e delle Finanze per ottenere la modifica delle specifiche tecniche per la predisposizione, la formazione e il rilascio della carta d'identità elettronica, nonché di quella cartacea, del passaporto e del certificato elettorale, nel rispetto del diritto al nome, alla parità di genere e dall’identità personale. In sostanza per ribadire il sacrosanto diritto all’utilizzo di un linguaggio che non sia discriminatorio, all’autodeterminazione circa la definizione dei dettagli dell’identità personale e di genere, secondo un un principio sancito dall’art. 8 della Carta Europea dei Diritti umani e dei diritti fondamentali. Un diritto inviolabile fissato anche dall’art. 2 della Costituzione e riconosciuto a livelli sovranazionali. L'istanza ai Ministeri è stata promossa dalla giornalista Maria Tiziana Lemme, co-fondatrice insieme all’antropologa Amalia Signorelli dell'associazione - che dal 2017 porta avanti un importante lavoro per eliminare le discriminazioni verbali e linguistiche -, in occasione della Giornata Internazionale della Donna. "Chi non si nomina non esiste - dichiara - ed è gravissimo che nella società contemporanea una donna non esista, di fatto, e sia ancora discriminata e priva di definizione nel linguaggio amministrativo. La nostra diffida nasce con lo scopo di attuare una modifica sostanziale della terminologia all’interno della documentazione amministrativa, inclusi i documenti d’identità". Il linguaggio è il mezzo formativo del pensiero. La sottomissione verbale, la negazione del femminile in ogni contesto, a partire dalla carta d’identità fino alla coniugazione dei verbi, in Italia hanno uno scopo ben preciso: la perseverante e sfiancante denigrazione delle donne sia nel contesto sociale che economico. "Il diritto al nome, alla parità di genere e all’identità personale - chiosa Maria Tiziana Lemme - passa anche e soprattutto dall’utilizzo e dalla formazione della documentazione amministrativa. Questo obiettivo è un diritto fondamentale, perché le parole sono il tramite per la nostra visione del mondo, il nostro modo di pensare e di considerare le persone".
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