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Home » Attualità » Elena, la seconda vita di una giudice di Milano che un tempo si chiamava Andrea

Elena, la seconda vita di una giudice di Milano che un tempo si chiamava Andrea

In un'intervista a Mow, la legale racconta la sua storia e il suo percorso di transizione: "Quando lo dissi a mia moglie, mi rispose: 'Tu per me sei morto'"

Remy Morandi
11 Febbraio 2022
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Quando Andrea ha detto a sua moglie che voleva diventare una donna, lei le ha risposto: “Tu per me sei morto, non esisti più”. E invece oggi Andrea è più vivo che mai. Anzi, lo è Elena, 59 anni, giudice trans* e avvocatessa della provincia di Milano. A raccontare questa storia di transizione, in un’intervista alla stessa Elena, è Mow.

L’avvocatessa e giudice Elena (Foto concessa da Mow)

Elena e la paura di perdere i clienti a lavoro

È nata come Andrea, ma oggi si chiama Elena. L’avvocatessa e giudice onorario racconta che la sua esperienza di transizione non è stata sempre difficile e dolorsa, ma comunque non sono mancati gli episodi spiacevoli, soprattutto a lavoro. “Le cancellerie – racconta Elena al magazine lifestyle di AM Network – alle volte sentendo una voce femminile dicono: ‘Ok, mandi l’avvocato’, e io rispondo: ‘L’avvocato sono io‘. Prima, da Andrea, non mi era mai successo di doverlo precisare”. E in effetti, è proprio sul luogo di lavoro che Elena è costretta a subire i pregiudizi e ad affrontare le difficoltà del suo percorso di transizione. Tra le più grandi preoccupazioni di Elena infatti, come lei racconta, c’erano proprio i suoi clienti. “Per un sacco di anni si erano visti davanti un avvocato con la giacca, la barbetta e il capello corto. Certo, si sa che esistono le persone T, ma un conto è vederle in televisione o sentirne parlare sui social, un altro è quando ne incontri una in carne e ossa e scegli di fartici rappresentare a livello legale”, dichiara Elena a Mow. Comunque, nonostante la paura, Elena non perde nessuno dei suoi clienti, a dimostrazione del fatto che a loro poco importava della sua transizione. Così Elena riesce senza troppi problemi a continuare a lavorare e a svolgere le sue mansioni da avvocatessa. E in tribunale pure, Elena non si sente discriminata. “Io non so se sono tonta – ironizza con Mow – e se non me ne accorgo. Però onestamente non ti posso dire di aver subito delle discriminazioni esplicite da parte di qualcuno”.

Il dialogo “per nulla semplice” con la moglie e la famiglia

La questione si complica con la famiglia. Prima di diventare Elena, Andrea era infatti sposato da 19 anni. “Amavo profondamente mia moglie”, racconta Elena a Mow.  Ma quando le disse che avrebbe voluto affrontare questo percorso di transizione la moglie rispose: “Tu per me sei morto, non esisti più”. Inevitabile il dispiacere dell’allora Andrea nell’essersi sentito rivolgere queste parole dalla moglie, la persona che più di tutte avrebbe dovuto o potuto comprendere la necessità del marito. Però non è successo. Il dialogo e le discussioni con la moglie – racconta ancora Elena a Mow – sono andati avanti per un anno. “Non è stato per nulla semplice!”, ma alla fine, dopo aver capito che il percorso di transizione non dipendeva da problemi di coppia o quant’altro, la moglie ha compreso l’esigenza dell’ex Andrea. “Ancora oggi ci vogliamo bene e siamo molto legate”, rivela Elena a Mow.

Alessio Avellino (foto tratta dal suo profilo Instagram)

Alessio Avellino, il poliziotto che non voleva indossare i tacchi

Il percorso di transizione non è mai una scelta facile. Oggi abbiamo raccontato la storia di Alessio Avellino, un poliziotto napoletano di 26 anni, che è riuscito nella sua impresa: quello di prestare giuramento in pantaloni, e non in gonna e tacchi. Alessio non si sentiva donna, non era una donna. Lo era solo perché i suoi documenti e il suo corpo lo dicevano. Ma prima di affrontare il percorso di transizione, Alessio ha dovuto affrontare tante difficoltà. Poi, grazie all’aiuto di una donna, Michela Pascali, che lo supportò in questo suo percorso, Alessio riuscì piano piano a diventare quello che era, quello che voleva essere. “È nel comunicare la paura che ho iniziato a capire di potermi fidare, di pochi, ma di potermi fidare. Di potermi esporre, di poterci provare a farmi vedere. E così nel dolore che mi invadeva e pervadeva, ho scoperto occhi che vestiti coi miei stessi colori hanno abbracciato la mia sofferenza, stravolgendola”, ha raccontato Alessio a Polis Aperta, l’associazione Lgbti+ delle Forze dell’Ordine e delle Forze Armate. Quando arrivò il giorno del giuramente, Alessio riuscì nella sua impresa: “Ho giurato in pantaloni perché le molteplici divise che hanno incontrato la mia richiesta si sono spese uniformemente nella risposta al mio bisogno. E il giorno del giuramento – conclude Alessio nella dichiarazione a Polis Aperta – è stato per me gioia, nonostante tutto, perché quello che ero si era in parte allineato con ciò che ero chiamato a fare”.

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Instagram

  • "Ora dobbiamo fare di meno, per il futuro".

Torna anche quest’anno l
  • Per una detenuta come Joy – nigeriana di 34 anni, arrestata nel 2014 per possesso di droga – uscire dal carcere significherà dover imparare a badare a se stessa. Lei che è lontana da casa e dalla famiglia, lei che non ha nessuno ad aspettarla. In carcere ha fatto il suo percorso, ha imparato tanto, ha sofferto di più. Ma ha anche conosciuto persone importanti, detenute come lei che sono diventate delle amiche. 

Mon solo. Nella Cooperativa sociale Gomito a Gomito, per esempio, ha trovato una seconda famiglia, un ambiente lavorativo che le ha offerto “opportunità che, se fossi stata fuori dal carcere, non avrei mai avuto”, come quella di imparare un mestiere e partecipare ad un percorso di riabilitazione sociale e personale verso l’indipendenza, anche economica.

Enrica Morandi, vice presidente e coordinatrice dei laboratori sartoriali del carcere di Rocco D’Amato (meglio noto ai bolognesi come “La Dozza”), si riferisce a lei chiamandola “la mia Joy”, perché dopo tanti anni di lavoro fianco a fianco ha imparato ad apprezzare questa giovane donna impegnata a ricostruire la propria vita: 

“Joy è extracomunitaria, nel nostro Paese non ha famiglia. Per lei sarà impossibile beneficiare degli sconti di pena su cui normalmente possono contare le detenute italiane, per buona condotta o per anni di reclusione maturati. Non è una questione di razzismo, è che esistono problemi logistici veri e propri, come il non sapere dove sistemare e a chi affidare queste ragazze, una volta lasciate le mura del penitenziario. Se una donna italiana ha ad attenderla qualcuno che si fa carico di ospitarla, Joy e altre come lei non hanno nessun cordone affettivo cui appigliarsi”.

L
  • Presidi psicologici, psicoterapeutici e di counselling per tutti gli studenti universitari e scolastici. Lo chiedono l’Udu, Unione degli universitari, e la Rete degli studenti medi nella proposta di legge ‘Chiedimi come sto’ consegnata a una delegazione di parlamentari nel corso di una conferenza stampa a Montecitorio.

La proposta è stata redatta secondo le conclusioni di una ricerca condotta da Spi-Cgil e Istituto Ires, che ha evidenziato come, su un campione di 50mila risposte, il 28 per cento abbia avuto esperienze di disturbi alimentari e oltre il 14 di autolesionismo.

“Nella nostra generazione è ancora forte lo stigma verso chi sta male ed è difficile chiedere aiuto - spiega Camilla Piredda, coordinatrice nazionale dell’Udu - l’interesse effettivo della politica si è palesato solo dopo il 15esimo suicidio di studenti universitari in un anno e mezzo. Ci sembra assurdo che la politica si interessi solamente dopo che si supera il limite, con persone che arrivano a scegliere di togliersi la vita.

Dall’altro lato, è positivo che negli ultimi mesi si sia deciso di chiedere a noi studenti come affrontare e come risolvere, il problema. Non è scontato e non è banale, perché siamo abituati a decenni in cui si parla di nuove generazioni senza parlare alle nuove generazioni”.

#luce #lucenews #università
  • La polemica politica riaccende i riflettori sulle madri detenute con i figli dopo la proposta di legge in merito alla detenzione in carcere delle donne in gravidanza: già presentata dal Pd nella scorsa legislatura, approvata in prima lettura al Senato, ma non alla Camera, prevedeva l’affido della madre e del minore a strutture protette, come le case famiglia, e vigilate. La dichiarata intenzione del centrodestra di rivedere il testo ha messo il Pd sul piede di guerra; alla fine di uno scontro molto acceso, i dem hanno ritirato il disegno di legge ma la Lega, quasi per ripicca, ne ha presentato uno nuovo, esattamente in linea con i desideri della maggioranza.

Lunedì non ci sarà quindi alcuna discussione alla Camera sul testo presentato da Debora Serracchiani nella scorsa legislatura, Tutto ripartirà da capo, con un nuovo testo, firmato da due esponenti del centrodestra: Jacopo Morrone e Ingrid Bisa.

“Questo (il testo Serracchini) era un testo che era già stato votato da un ramo del Parlamento, noi lo avevamo ripresentato per migliorare le condizioni delle detenute madri – ha spiegato ieri il dem Alessandro Zan – ma la maggioranza lo ha trasformato inserendovi norme che di fatto peggiorano le cose, consentendo addirittura alle donne incinte o con figli di meno di un anno di età di andare in carcere. Così non ha più senso, quindi ritiriamo le firme“.

Lo scontro tra le due fazioni è finito (anche) sui social media. "Sul tema delle borseggiatrici e ladre incinte occorre cambiare la visione affinché la gravidanza non sia una scusa“ sottolineano i due presentatori della proposta.

La proposta presentata prevede modifiche all’articolo 146 del codice penale in materia di rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena: “Se sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti – si legge nel testo presentato – il magistrato di sorveglianza può disporre che l’esecuzione della pena non sia differita, ovvero, se già differita, che il differimento sia revocato. Qualora la persona detenuta sia recidiva, l’esecuzione della pena avviene presso un istituto di custodia attenuata per detenute madri“.

#lucenews #madriincarcere
Quando Andrea ha detto a sua moglie che voleva diventare una donna, lei le ha risposto: “Tu per me sei morto, non esisti più”. E invece oggi Andrea è più vivo che mai. Anzi, lo è Elena, 59 anni, giudice trans* e avvocatessa della provincia di Milano. A raccontare questa storia di transizione, in un'intervista alla stessa Elena, è Mow.
L'avvocatessa e giudice Elena (Foto concessa da Mow)

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È nata come Andrea, ma oggi si chiama Elena. L'avvocatessa e giudice onorario racconta che la sua esperienza di transizione non è stata sempre difficile e dolorsa, ma comunque non sono mancati gli episodi spiacevoli, soprattutto a lavoro. "Le cancellerie - racconta Elena al magazine lifestyle di AM Network - alle volte sentendo una voce femminile dicono: 'Ok, mandi l'avvocato', e io rispondo: 'L'avvocato sono io'. Prima, da Andrea, non mi era mai successo di doverlo precisare". E in effetti, è proprio sul luogo di lavoro che Elena è costretta a subire i pregiudizi e ad affrontare le difficoltà del suo percorso di transizione. Tra le più grandi preoccupazioni di Elena infatti, come lei racconta, c'erano proprio i suoi clienti. "Per un sacco di anni si erano visti davanti un avvocato con la giacca, la barbetta e il capello corto. Certo, si sa che esistono le persone T, ma un conto è vederle in televisione o sentirne parlare sui social, un altro è quando ne incontri una in carne e ossa e scegli di fartici rappresentare a livello legale", dichiara Elena a Mow. Comunque, nonostante la paura, Elena non perde nessuno dei suoi clienti, a dimostrazione del fatto che a loro poco importava della sua transizione. Così Elena riesce senza troppi problemi a continuare a lavorare e a svolgere le sue mansioni da avvocatessa. E in tribunale pure, Elena non si sente discriminata. "Io non so se sono tonta - ironizza con Mow - e se non me ne accorgo. Però onestamente non ti posso dire di aver subito delle discriminazioni esplicite da parte di qualcuno".

Il dialogo "per nulla semplice" con la moglie e la famiglia

La questione si complica con la famiglia. Prima di diventare Elena, Andrea era infatti sposato da 19 anni. "Amavo profondamente mia moglie", racconta Elena a Mow.  Ma quando le disse che avrebbe voluto affrontare questo percorso di transizione la moglie rispose: "Tu per me sei morto, non esisti più". Inevitabile il dispiacere dell'allora Andrea nell'essersi sentito rivolgere queste parole dalla moglie, la persona che più di tutte avrebbe dovuto o potuto comprendere la necessità del marito. Però non è successo. Il dialogo e le discussioni con la moglie - racconta ancora Elena a Mow - sono andati avanti per un anno. "Non è stato per nulla semplice!", ma alla fine, dopo aver capito che il percorso di transizione non dipendeva da problemi di coppia o quant'altro, la moglie ha compreso l'esigenza dell'ex Andrea. "Ancora oggi ci vogliamo bene e siamo molto legate", rivela Elena a Mow.
Alessio Avellino (foto tratta dal suo profilo Instagram)

Alessio Avellino, il poliziotto che non voleva indossare i tacchi

Il percorso di transizione non è mai una scelta facile. Oggi abbiamo raccontato la storia di Alessio Avellino, un poliziotto napoletano di 26 anni, che è riuscito nella sua impresa: quello di prestare giuramento in pantaloni, e non in gonna e tacchi. Alessio non si sentiva donna, non era una donna. Lo era solo perché i suoi documenti e il suo corpo lo dicevano. Ma prima di affrontare il percorso di transizione, Alessio ha dovuto affrontare tante difficoltà. Poi, grazie all'aiuto di una donna, Michela Pascali, che lo supportò in questo suo percorso, Alessio riuscì piano piano a diventare quello che era, quello che voleva essere. "È nel comunicare la paura che ho iniziato a capire di potermi fidare, di pochi, ma di potermi fidare. Di potermi esporre, di poterci provare a farmi vedere. E così nel dolore che mi invadeva e pervadeva, ho scoperto occhi che vestiti coi miei stessi colori hanno abbracciato la mia sofferenza, stravolgendola", ha raccontato Alessio a Polis Aperta, l'associazione Lgbti+ delle Forze dell'Ordine e delle Forze Armate. Quando arrivò il giorno del giuramente, Alessio riuscì nella sua impresa: "Ho giurato in pantaloni perché le molteplici divise che hanno incontrato la mia richiesta si sono spese uniformemente nella risposta al mio bisogno. E il giorno del giuramento - conclude Alessio nella dichiarazione a Polis Aperta - è stato per me gioia, nonostante tutto, perché quello che ero si era in parte allineato con ciò che ero chiamato a fare".
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