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Home » Attualità » Giornata della Famiglia, Mariangela Rossi e la rinascita di sua figlia: “Un giorno Anastasia mi disse: ‘Mamma, ti concedo di raccontare quando mi hai adottato'”

Giornata della Famiglia, Mariangela Rossi e la rinascita di sua figlia: “Un giorno Anastasia mi disse: ‘Mamma, ti concedo di raccontare quando mi hai adottato'”

In occasione della Giornata internazionale delle Famiglie, la giornalista racconta a Luce! la storia dell'adozione della sua bambina, dal Donbass all'Italia: "Il nostro messaggio vuole essere positivo, di accoglienza, di speranza. Voglio incitare tanti aspiranti genitori adottivi e incoraggiare quanti si stanno mobilitando per ospitare i profughi"

Caterina Ceccuti
15 Maggio 2022
giornata famiglia

giornata famiglia

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La vivacità culturale di una Kiev più europea di tante città che ufficialmente lo sono davvero. La precarietà di un treno diretto nel Donbass che sembra deragliare ad ogni curva. Il grigio della periferia sovietica, industriale che corre fuori dai finestrini. L’odore di cemento umido di una cantina dove quindici rifugiati si nascondono dalle bombe, stipati tra sacchi di patate e di carote. Quello di Mariangela Rossi, giornalista di viaggi di base a Milano da molti anni, ma di origini lucchesi, è un libro che parla ai cinque sensi. Le pagine non si sfogliano, si sentono una dopo l’altra, toccando le emozioni intense, talvolta estreme, che contengono, respirando i luoghi di un’Ucraina vissuta da chi, dieci anni fa, ci è andato per realizzare un sogno, quello più grande: diventare genitore. È una storia vera, autobiografica, la storia di Mariangela, di Michele e di Anastasia, loro figlia, adottata dieci anni fa e “rinata”, non una ma ben tre volte grazie a questo gesto d’amore.

La loro storia, che Luce! sceglie di raccontare in occasione della Giornata internazionale della Famiglia, è narrata in un libro che si chiama “L’abbraccio di Kiev. Lettera a una bambina rinata” (Solferino editore), che proprio in questi giorni sta portando le sue protagoniste in giro per l’Italia per incontrare un pubblico di lettori che si fa sempre più commosso e numeroso.

Mariangela, il suo libro esce in un momento storico in cui sfortunatamente l’Ucraina si trova al centro dell’attenzione mediatica. Una scelta strategica?

“No. È stato scritto sull’onda dell’attualità, ma il motivo non è stato strategico o pensato a tavolino in precedenza, piuttosto fortuito e legato a tre circostanze particolari, avvenute a pochi giorni di distanza una dall’altra, che mi hanno portato a riaprire il cassetto dei ricordi dove conservavo la storia della mia famiglia. L’adozione di un figlio è una gestazione lunghissima, quanto invece breve e inaspettata lo è stata quella di questo libro. Il messaggio, nonostante il momento così difficile, vuole essere positivo, di accoglienza, di speranza. Nelle mie pagine racconto le vicende di nostra figlia Anastasia e della sua terra, il Donbass, ora più che mai tribolata dalla guerra, ma incito anche alla speranza tanti aspiranti genitori adottivi, che sentono il bisogno di offrire una casa e una nuova vita a molti bambini rimasti orfani. Un incoraggiamento, il mio, anche per quanti anche adesso si stanno mobilitando per ospitare i profughi arrivati in Italia”.

Mariangela Rossi racconta la storia dell’adozione di sua figlia, dall’Ucraina all’Italia: “Un giorno Anastasia mi disse: ‘Mamma, ti concedo di raccontare la nostra storia'” (Foto Ortiiica su gentile concessione di Mariangela Rossi)

Ha parlato di tre coincidenze che l’hanno portata a scrivere la vostra storia…

“Esatto. La prima è accaduta mentre ero in macchina con Anastasia, il 17 febbraio scorso, stavamo andando in montagna io e lei da sole a sciare. Tra i tornanti della Val Gardena mia figlia si è aperta con me come non mai, raccontandomi cose di se stessa che non mi aveva mai detto in dieci anni, tra cui anche dettagli della sua infanzia. Da parte mia le ho rivelato che al tempo dell’adozione (nel 2011) “Elle”, per cui scrivevo, mi aveva chiesto di scrivere un reportage su Kiev, accompagnato da un altro servizio con una storia in prima persona. Una volta di ritorno consegnai il servizio di viaggi sulla città, ma non mi sono sentita di approfondire il nostro percorso privato. Ad Anastasia, tra un tornante e l’altro, ho detto anche che quella storia è comunque rimasta in un cassetto, negli appunti che avevo preso, come sempre faccio con tutte le cose della mia vita. Lei allora è rimasta in silenzio, come se stesse pensando intensamente a qualcosa, poi mi ha detto ‘Grazie mamma, hai fatto bene. Ma se tu vuoi raccontarla ora, io te lo concedo’. Proprio così ha detto, ‘te lo concedo’. Un termine molto forte, molto pensato. Ed io ho scelto di diventare la memoria del nostro percorso.

La seconda coincidenza è stata lo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, lo scorso 24 febbraio. Un dramma che ha toccato la mia famiglia molto da vicino. Dovete sapere che l’Ucraina ha regole burocratiche particolari in materia di adozioni internazionali. Ci era stato affidato un referente locale, Olena, che per tutto il tempo ci ha fatto da traduttrice e ci ha aiutato nello svolgimento delle pratiche burocratiche, accompagnata da un team di psicologi e altri professionisti. Olena ha seguito la nostra storia diventando una di famiglia, dal momento in cui il Dap, tribunale locale, abbinò me e mio marito ad Anastasia, una bambina del Donbass. Ebbene la terza coincidenza è stata quando, a causa della guerra, Olena è tornata in Italia e mi ha chiamato. Mi ha detto che era riuscita a fuggire, che si trovava a Bergamo e che aveva voglia di vedermi. Allora io, che vivo a Milano, sono partita di corsa per andare a prenderla. La magia di questo libro per me è questa: gli incontri, i momenti toccanti, le casualità che mi hanno portato a scriverlo”.

Anastasia l’ha aiutata nella stesura?

“Sì, ed è stato uno di quei momenti molto toccanti di cui parlo quando mi riferisco alla magia del libro. Lei mi ha consegnato nuovamente la sua vita, perché io la consegnassi a mia volta ai lettori. Ma ha voluto rivedere ogni singolo passaggio per approvarlo, aggiungere dettagli, cancellarne altri. Nonostante sia una ragazza assai centrata e riservata, ha accettato di raccontarsi con coraggio”.

Anastasia con mamma Mariangela e papà Michele. La madre racconta a Luce!: “Le abbiamo sempre detto che quando avesse voluto l’avremmo riportata in Ucraina. Ma lei ha chiuso con il passato” (Foto su gentile concessione di Mariangela Rossi)

Lei è una giornalista di viaggi. Quali sensazioni le ha regalato l’Ucraina, più in particolare il Donbass, terra di nascita di sua figlia?

Prima di raggiungere il Donbass io e mio marito avevamo trascorso circa tre settimane a Kiev, cercando di viverla da viaggiatori, con gli occhi spalancati e i sensi all’erta, per entrare nel tessuto della città. Non volevamo stare lì ad aspettare solo una telefonata da parte del tribunale per le adozioni. Quando la chiamata è arrivata ci siamo lasciati alle spalle una Kiev viva e vibrante, dove la cultura si animava di artisti internazionali del calibro di Damien Hirst, Louise Bourgeois, Ai Wei Wei, ed era, grazie proprio all’interesse per l’arte moderna e contemporanea, destinata a diventare una delle destinazioni più interessanti, da tenere sott’occhio. Abbiamo poi affrontato un viaggio in treno di dodici ore, di notte, attraversando un paesaggio fatto solo di boschi e fabbriche dismesse, scenari sovietici, il grigio e le memorie della guerra; ad ogni curva avevamo la sensazione di deragliare perché il treno passava sugli scambi dei binari. Il Donbass si presentava a noi come una terra triste, fatta di miniere di carbone che producono 10 milioni di tonnellate l’anno. Dal Donbass si estrae di tutto, minerali, carbone, zolfo, sale. La vita trascorsa lavorando nel sottosuolo lega gran parte delle famiglie alla terra, al carbone, ricordo anche le montagnette di scorie sulla strada. Tutto riflette la vita industriale, di estrazione, di miniere. Ma era lì, in provincia di Lugansk, che nostra figlia era nata. Ci siamo fatti coraggio, lo stesso di cui devono dotarsi i genitori adottivi che affrontano quelle zone in cui a volte la temperatura scende a 27 gradi sotto lo zero. Lo stesso coraggio che caratterizza le donne ucraine, forti, determinate”.

Come ha vissuto Anastasia lo scoppio della guerra nella sua terra natia?

“Gli ultimi due anni sono stati emotivamente difficili per tutti i ragazzi. Prima la pandemia che ha tolto loro la gioia della socialità, la libertà, poi la guerra. In casa ne abbiamo parlato tanto, da quel 24 febbraio in poi. Lei ascoltava con noi tutto il bombardamento mediatico cui siamo stati sottoposti. Ora cerchiamo di allontanarcene un po’. Poi, parlando, un giorno mi ha detto ‘Io sto male, perché sono nata in una zona filo russa dove gli stessi ragazzi che fino a poco tempo fa condividevano i social, guardavano gli stessi film, ascoltavano la stessa musica, ora stanno sparando sui loro fratelli ucraini’. Olena dice che grazie all’adozione abbiamo salvato nostra figlia tre volte: nel 2012 dalla solitudine, nel 2014 dalla prima guerra, adesso dalla seconda guerra che sta interessando la sua terra proprio in questi giorni. Una volta chiesi ad Anastasia ‘Dove pensi che saresti adesso?’ E lei mi ha risposto ‘Se fossi stata viva sarei ancora in Donbass, forse con un fucile in mano, a difendere me stessa e il mio Paese’.

Ma non parliamo e basta, affrontiamo la questione della guerra anche in modo che lei possa sentirsi un soggetto attivo, da giovane donna quale è ora. Da subito abbiamo aiutato la Chiesa ortodossa di Milano e alcune Associazioni, tra cui Unitalsi Ligure – impegnata nel soccorso ai profughi – e Hope Onlus di Milano, che si occupa di mandare convogli carichi di aiuti medicinali e di macchinari agli ospedali”.

Le prossime tappe del suo tour promozionale toccheranno varie città, tra cui Firenze – 26 maggio all’Hotel Savoy, in cui sarà insieme a Letizia Cini, Stefania Ippoliti e Olga Iaroshevska- e Lucca il 27 maggio nel Palazzo Burlamacchi dell’Atelier Ricci, stavolta in compagnia di Lisa Quaratesi Vincenzini.

Per Anastasia la guerra in Ucraina è stata uno shock. Mamma Mariangela: “Un giorno mi ha detto ‘Io sto male, sono nata in una zona filo russa dove quelli che un tempo erano amici e fratelli adesso si stanno sparando a vicenda” (Foto su gentile concessione di Mariangela Rossi)

So che nelle varie presentazioni ama far intervenire donne ucraine che possano portare la testimonianza della propria identità.

“Esatto, alla presentazione milanese dello scorso 4 maggio c’era anche Olena. Ha raccontato la sua esperienza personale e la platea era basita, completamente in silenzio per 15 minuti ad ascoltare la voce fresca, vera, di accusa, con cui questa donna rappresentava il suo popolo, con grande dignità. Le prime sirene all’alba del 24 febbraio. La condizione di emergenza della città, la fuga in campagna con la sua famiglia, poi le sirene anche lì. Si rifugiavano nello scantinato, su casse di patate e di carote, con l’aria forte e acre del cemento umido. Riparandosi dal freddo e dalla paura semplicemente stando vicini, cantando l’inno ucraino per darsi forza. Tornata la calma andavano nelle camere, ma sempre con le scarpe accanto, pronti per scappare. Una notte, Olena, la nuora e i nipotini piccoli hanno deciso di fuggire attraverso l’Ungheria, erano i primi di marzo. Lei ha vissuto per un po’ a Bergamo, poi in Puglia e poi a Milano da me. In quei giorni ci ha raccontato tanto della sua vita. La costruzione di reti mimetiche cui tutte le donne partecipano, già dalla prima guerra nel Donbass, ritrovandosi periodicamente per costruirle con fili sottilissimi dove poi si dispongono foglie e strisce di stoffa da donare ai militari ucraini per nascondere passaggi e posizionamenti strategici difensivi. Poi i sacchi di sabbia da mettere contro le porte. Con Olena, io ed Anastasia abbiamo rivissuto tutti i ricordi di dieci anni fa e condiviso quelli di adesso. Le atrocità della guerra, lo sconforto, le sorprese ogni giorno. E il figlio rimasto in Ucraina, perché, anche se non vanno al fronte, gli uomini dai 18 ai 60 anni devono stare a disposizione del loro Paese”.

Prima della guerra, avevate mai pensato di ritornare in Ucraina con Anastasia?

“Le abbiamo sempre detto che quando avesse voluto ce l’avremmo riportata, ma lei ha chiuso con il passato. Con equilibrio. Ricorda la sua terra da spettatrice, partecipa delle cose che la riguardano, ma è un ricordo lontano”.

Se potesse scegliere una sola frase del suo libro, quale sarebbe la più significativa?

“Non sarebbe una mia, almeno non una soltanto perché ce ne sono molte. Allora preferisco rispondere con le parole di Walt Whitman, che leggevo spesso mentre ero sul treno che verso il Donbass: ‘Se tardi a trovarmi, insisti. Se non ci sono in nessun posto, cerca in un altro, perché io sono seduto in una qualche parte ad aspettare te’. E così è stato. Anastasia era seduta ad aspettare noi.

Trovarla è stato difficile, l’attesa per incontrarla è stata lunga. Lei, bambina, neanche sapeva saremmo stati i suoi genitori adottivi. Ricordo che pensava fossimo dei dottori venuti a visitarla, perché era entrata da poco nel circuito delle adozioni e non sapeva come funzionasse. Eppure, dopo poco, ha capito chi eravamo, attraverso codici di comunicazione universali, come gli sguardi di dolcezza, di empatia, e poi le carezze, gli abbracci. Appunto, L’abbraccio di Kiev”.

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  • Per una detenuta come Joy – nigeriana di 34 anni, arrestata nel 2014 per possesso di droga – uscire dal carcere significherà dover imparare a badare a se stessa. Lei che è lontana da casa e dalla famiglia, lei che non ha nessuno ad aspettarla. In carcere ha fatto il suo percorso, ha imparato tanto, ha sofferto di più. Ma ha anche conosciuto persone importanti, detenute come lei che sono diventate delle amiche. 

Mon solo. Nella Cooperativa sociale Gomito a Gomito, per esempio, ha trovato una seconda famiglia, un ambiente lavorativo che le ha offerto “opportunità che, se fossi stata fuori dal carcere, non avrei mai avuto”, come quella di imparare un mestiere e partecipare ad un percorso di riabilitazione sociale e personale verso l’indipendenza, anche economica.

Enrica Morandi, vice presidente e coordinatrice dei laboratori sartoriali del carcere di Rocco D’Amato (meglio noto ai bolognesi come “La Dozza”), si riferisce a lei chiamandola “la mia Joy”, perché dopo tanti anni di lavoro fianco a fianco ha imparato ad apprezzare questa giovane donna impegnata a ricostruire la propria vita: 

“Joy è extracomunitaria, nel nostro Paese non ha famiglia. Per lei sarà impossibile beneficiare degli sconti di pena su cui normalmente possono contare le detenute italiane, per buona condotta o per anni di reclusione maturati. Non è una questione di razzismo, è che esistono problemi logistici veri e propri, come il non sapere dove sistemare e a chi affidare queste ragazze, una volta lasciate le mura del penitenziario. Se una donna italiana ha ad attenderla qualcuno che si fa carico di ospitarla, Joy e altre come lei non hanno nessun cordone affettivo cui appigliarsi”.

L
  • Presidi psicologici, psicoterapeutici e di counselling per tutti gli studenti universitari e scolastici. Lo chiedono l’Udu, Unione degli universitari, e la Rete degli studenti medi nella proposta di legge ‘Chiedimi come sto’ consegnata a una delegazione di parlamentari nel corso di una conferenza stampa a Montecitorio.

La proposta è stata redatta secondo le conclusioni di una ricerca condotta da Spi-Cgil e Istituto Ires, che ha evidenziato come, su un campione di 50mila risposte, il 28 per cento abbia avuto esperienze di disturbi alimentari e oltre il 14 di autolesionismo.

“Nella nostra generazione è ancora forte lo stigma verso chi sta male ed è difficile chiedere aiuto - spiega Camilla Piredda, coordinatrice nazionale dell’Udu - l’interesse effettivo della politica si è palesato solo dopo il 15esimo suicidio di studenti universitari in un anno e mezzo. Ci sembra assurdo che la politica si interessi solamente dopo che si supera il limite, con persone che arrivano a scegliere di togliersi la vita.

Dall’altro lato, è positivo che negli ultimi mesi si sia deciso di chiedere a noi studenti come affrontare e come risolvere, il problema. Non è scontato e non è banale, perché siamo abituati a decenni in cui si parla di nuove generazioni senza parlare alle nuove generazioni”.

#luce #lucenews #università
  • La polemica politica riaccende i riflettori sulle madri detenute con i figli dopo la proposta di legge in merito alla detenzione in carcere delle donne in gravidanza: già presentata dal Pd nella scorsa legislatura, approvata in prima lettura al Senato, ma non alla Camera, prevedeva l’affido della madre e del minore a strutture protette, come le case famiglia, e vigilate. La dichiarata intenzione del centrodestra di rivedere il testo ha messo il Pd sul piede di guerra; alla fine di uno scontro molto acceso, i dem hanno ritirato il disegno di legge ma la Lega, quasi per ripicca, ne ha presentato uno nuovo, esattamente in linea con i desideri della maggioranza.

Lunedì non ci sarà quindi alcuna discussione alla Camera sul testo presentato da Debora Serracchiani nella scorsa legislatura, Tutto ripartirà da capo, con un nuovo testo, firmato da due esponenti del centrodestra: Jacopo Morrone e Ingrid Bisa.

“Questo (il testo Serracchini) era un testo che era già stato votato da un ramo del Parlamento, noi lo avevamo ripresentato per migliorare le condizioni delle detenute madri – ha spiegato ieri il dem Alessandro Zan – ma la maggioranza lo ha trasformato inserendovi norme che di fatto peggiorano le cose, consentendo addirittura alle donne incinte o con figli di meno di un anno di età di andare in carcere. Così non ha più senso, quindi ritiriamo le firme“.

Lo scontro tra le due fazioni è finito (anche) sui social media. "Sul tema delle borseggiatrici e ladre incinte occorre cambiare la visione affinché la gravidanza non sia una scusa“ sottolineano i due presentatori della proposta.

La proposta presentata prevede modifiche all’articolo 146 del codice penale in materia di rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena: “Se sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti – si legge nel testo presentato – il magistrato di sorveglianza può disporre che l’esecuzione della pena non sia differita, ovvero, se già differita, che il differimento sia revocato. Qualora la persona detenuta sia recidiva, l’esecuzione della pena avviene presso un istituto di custodia attenuata per detenute madri“.

#lucenews #madriincarcere

La vivacità culturale di una Kiev più europea di tante città che ufficialmente lo sono davvero. La precarietà di un treno diretto nel Donbass che sembra deragliare ad ogni curva. Il grigio della periferia sovietica, industriale che corre fuori dai finestrini. L'odore di cemento umido di una cantina dove quindici rifugiati si nascondono dalle bombe, stipati tra sacchi di patate e di carote. Quello di Mariangela Rossi, giornalista di viaggi di base a Milano da molti anni, ma di origini lucchesi, è un libro che parla ai cinque sensi. Le pagine non si sfogliano, si sentono una dopo l'altra, toccando le emozioni intense, talvolta estreme, che contengono, respirando i luoghi di un'Ucraina vissuta da chi, dieci anni fa, ci è andato per realizzare un sogno, quello più grande: diventare genitore. È una storia vera, autobiografica, la storia di Mariangela, di Michele e di Anastasia, loro figlia, adottata dieci anni fa e “rinata”, non una ma ben tre volte grazie a questo gesto d'amore.

La loro storia, che Luce! sceglie di raccontare in occasione della Giornata internazionale della Famiglia, è narrata in un libro che si chiama “L'abbraccio di Kiev. Lettera a una bambina rinata” (Solferino editore), che proprio in questi giorni sta portando le sue protagoniste in giro per l'Italia per incontrare un pubblico di lettori che si fa sempre più commosso e numeroso.

Mariangela, il suo libro esce in un momento storico in cui sfortunatamente l'Ucraina si trova al centro dell'attenzione mediatica. Una scelta strategica?

“No. È stato scritto sull’onda dell’attualità, ma il motivo non è stato strategico o pensato a tavolino in precedenza, piuttosto fortuito e legato a tre circostanze particolari, avvenute a pochi giorni di distanza una dall'altra, che mi hanno portato a riaprire il cassetto dei ricordi dove conservavo la storia della mia famiglia. L'adozione di un figlio è una gestazione lunghissima, quanto invece breve e inaspettata lo è stata quella di questo libro. Il messaggio, nonostante il momento così difficile, vuole essere positivo, di accoglienza, di speranza. Nelle mie pagine racconto le vicende di nostra figlia Anastasia e della sua terra, il Donbass, ora più che mai tribolata dalla guerra, ma incito anche alla speranza tanti aspiranti genitori adottivi, che sentono il bisogno di offrire una casa e una nuova vita a molti bambini rimasti orfani. Un incoraggiamento, il mio, anche per quanti anche adesso si stanno mobilitando per ospitare i profughi arrivati in Italia”.

Mariangela Rossi racconta la storia dell'adozione di sua figlia, dall'Ucraina all'Italia: "Un giorno Anastasia mi disse: 'Mamma, ti concedo di raccontare la nostra storia'" (Foto Ortiiica su gentile concessione di Mariangela Rossi)

Ha parlato di tre coincidenze che l'hanno portata a scrivere la vostra storia...

“Esatto. La prima è accaduta mentre ero in macchina con Anastasia, il 17 febbraio scorso, stavamo andando in montagna io e lei da sole a sciare. Tra i tornanti della Val Gardena mia figlia si è aperta con me come non mai, raccontandomi cose di se stessa che non mi aveva mai detto in dieci anni, tra cui anche dettagli della sua infanzia. Da parte mia le ho rivelato che al tempo dell'adozione (nel 2011) “Elle”, per cui scrivevo, mi aveva chiesto di scrivere un reportage su Kiev, accompagnato da un altro servizio con una storia in prima persona. Una volta di ritorno consegnai il servizio di viaggi sulla città, ma non mi sono sentita di approfondire il nostro percorso privato. Ad Anastasia, tra un tornante e l'altro, ho detto anche che quella storia è comunque rimasta in un cassetto, negli appunti che avevo preso, come sempre faccio con tutte le cose della mia vita. Lei allora è rimasta in silenzio, come se stesse pensando intensamente a qualcosa, poi mi ha detto 'Grazie mamma, hai fatto bene. Ma se tu vuoi raccontarla ora, io te lo concedo'. Proprio così ha detto, 'te lo concedo'. Un termine molto forte, molto pensato. Ed io ho scelto di diventare la memoria del nostro percorso.

La seconda coincidenza è stata lo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, lo scorso 24 febbraio. Un dramma che ha toccato la mia famiglia molto da vicino. Dovete sapere che l'Ucraina ha regole burocratiche particolari in materia di adozioni internazionali. Ci era stato affidato un referente locale, Olena, che per tutto il tempo ci ha fatto da traduttrice e ci ha aiutato nello svolgimento delle pratiche burocratiche, accompagnata da un team di psicologi e altri professionisti. Olena ha seguito la nostra storia diventando una di famiglia, dal momento in cui il Dap, tribunale locale, abbinò me e mio marito ad Anastasia, una bambina del Donbass. Ebbene la terza coincidenza è stata quando, a causa della guerra, Olena è tornata in Italia e mi ha chiamato. Mi ha detto che era riuscita a fuggire, che si trovava a Bergamo e che aveva voglia di vedermi. Allora io, che vivo a Milano, sono partita di corsa per andare a prenderla. La magia di questo libro per me è questa: gli incontri, i momenti toccanti, le casualità che mi hanno portato a scriverlo”.

Anastasia l'ha aiutata nella stesura?

“Sì, ed è stato uno di quei momenti molto toccanti di cui parlo quando mi riferisco alla magia del libro. Lei mi ha consegnato nuovamente la sua vita, perché io la consegnassi a mia volta ai lettori. Ma ha voluto rivedere ogni singolo passaggio per approvarlo, aggiungere dettagli, cancellarne altri. Nonostante sia una ragazza assai centrata e riservata, ha accettato di raccontarsi con coraggio”.

Anastasia con mamma Mariangela e papà Michele. La madre racconta a Luce!: "Le abbiamo sempre detto che quando avesse voluto l'avremmo riportata in Ucraina. Ma lei ha chiuso con il passato" (Foto su gentile concessione di Mariangela Rossi)

Lei è una giornalista di viaggi. Quali sensazioni le ha regalato l'Ucraina, più in particolare il Donbass, terra di nascita di sua figlia?

Prima di raggiungere il Donbass io e mio marito avevamo trascorso circa tre settimane a Kiev, cercando di viverla da viaggiatori, con gli occhi spalancati e i sensi all’erta, per entrare nel tessuto della città. Non volevamo stare lì ad aspettare solo una telefonata da parte del tribunale per le adozioni. Quando la chiamata è arrivata ci siamo lasciati alle spalle una Kiev viva e vibrante, dove la cultura si animava di artisti internazionali del calibro di Damien Hirst, Louise Bourgeois, Ai Wei Wei, ed era, grazie proprio all’interesse per l'arte moderna e contemporanea, destinata a diventare una delle destinazioni più interessanti, da tenere sott’occhio. Abbiamo poi affrontato un viaggio in treno di dodici ore, di notte, attraversando un paesaggio fatto solo di boschi e fabbriche dismesse, scenari sovietici, il grigio e le memorie della guerra; ad ogni curva avevamo la sensazione di deragliare perché il treno passava sugli scambi dei binari. Il Donbass si presentava a noi come una terra triste, fatta di miniere di carbone che producono 10 milioni di tonnellate l'anno. Dal Donbass si estrae di tutto, minerali, carbone, zolfo, sale. La vita trascorsa lavorando nel sottosuolo lega gran parte delle famiglie alla terra, al carbone, ricordo anche le montagnette di scorie sulla strada. Tutto riflette la vita industriale, di estrazione, di miniere. Ma era lì, in provincia di Lugansk, che nostra figlia era nata. Ci siamo fatti coraggio, lo stesso di cui devono dotarsi i genitori adottivi che affrontano quelle zone in cui a volte la temperatura scende a 27 gradi sotto lo zero. Lo stesso coraggio che caratterizza le donne ucraine, forti, determinate”.

Come ha vissuto Anastasia lo scoppio della guerra nella sua terra natia?

“Gli ultimi due anni sono stati emotivamente difficili per tutti i ragazzi. Prima la pandemia che ha tolto loro la gioia della socialità, la libertà, poi la guerra. In casa ne abbiamo parlato tanto, da quel 24 febbraio in poi. Lei ascoltava con noi tutto il bombardamento mediatico cui siamo stati sottoposti. Ora cerchiamo di allontanarcene un po'. Poi, parlando, un giorno mi ha detto 'Io sto male, perché sono nata in una zona filo russa dove gli stessi ragazzi che fino a poco tempo fa condividevano i social, guardavano gli stessi film, ascoltavano la stessa musica, ora stanno sparando sui loro fratelli ucraini'. Olena dice che grazie all'adozione abbiamo salvato nostra figlia tre volte: nel 2012 dalla solitudine, nel 2014 dalla prima guerra, adesso dalla seconda guerra che sta interessando la sua terra proprio in questi giorni. Una volta chiesi ad Anastasia 'Dove pensi che saresti adesso?' E lei mi ha risposto 'Se fossi stata viva sarei ancora in Donbass, forse con un fucile in mano, a difendere me stessa e il mio Paese'.

Ma non parliamo e basta, affrontiamo la questione della guerra anche in modo che lei possa sentirsi un soggetto attivo, da giovane donna quale è ora. Da subito abbiamo aiutato la Chiesa ortodossa di Milano e alcune Associazioni, tra cui Unitalsi Ligure - impegnata nel soccorso ai profughi - e Hope Onlus di Milano, che si occupa di mandare convogli carichi di aiuti medicinali e di macchinari agli ospedali”.

Le prossime tappe del suo tour promozionale toccheranno varie città, tra cui Firenze - 26 maggio all'Hotel Savoy, in cui sarà insieme a Letizia Cini, Stefania Ippoliti e Olga Iaroshevska- e Lucca il 27 maggio nel Palazzo Burlamacchi dell’Atelier Ricci, stavolta in compagnia di Lisa Quaratesi Vincenzini.

Per Anastasia la guerra in Ucraina è stata uno shock. Mamma Mariangela: "Un giorno mi ha detto 'Io sto male, sono nata in una zona filo russa dove quelli che un tempo erano amici e fratelli adesso si stanno sparando a vicenda" (Foto su gentile concessione di Mariangela Rossi)

So che nelle varie presentazioni ama far intervenire donne ucraine che possano portare la testimonianza della propria identità.

“Esatto, alla presentazione milanese dello scorso 4 maggio c'era anche Olena. Ha raccontato la sua esperienza personale e la platea era basita, completamente in silenzio per 15 minuti ad ascoltare la voce fresca, vera, di accusa, con cui questa donna rappresentava il suo popolo, con grande dignità. Le prime sirene all’alba del 24 febbraio. La condizione di emergenza della città, la fuga in campagna con la sua famiglia, poi le sirene anche lì. Si rifugiavano nello scantinato, su casse di patate e di carote, con l'aria forte e acre del cemento umido. Riparandosi dal freddo e dalla paura semplicemente stando vicini, cantando l'inno ucraino per darsi forza. Tornata la calma andavano nelle camere, ma sempre con le scarpe accanto, pronti per scappare. Una notte, Olena, la nuora e i nipotini piccoli hanno deciso di fuggire attraverso l'Ungheria, erano i primi di marzo. Lei ha vissuto per un po' a Bergamo, poi in Puglia e poi a Milano da me. In quei giorni ci ha raccontato tanto della sua vita. La costruzione di reti mimetiche cui tutte le donne partecipano, già dalla prima guerra nel Donbass, ritrovandosi periodicamente per costruirle con fili sottilissimi dove poi si dispongono foglie e strisce di stoffa da donare ai militari ucraini per nascondere passaggi e posizionamenti strategici difensivi. Poi i sacchi di sabbia da mettere contro le porte. Con Olena, io ed Anastasia abbiamo rivissuto tutti i ricordi di dieci anni fa e condiviso quelli di adesso. Le atrocità della guerra, lo sconforto, le sorprese ogni giorno. E il figlio rimasto in Ucraina, perché, anche se non vanno al fronte, gli uomini dai 18 ai 60 anni devono stare a disposizione del loro Paese”.

Prima della guerra, avevate mai pensato di ritornare in Ucraina con Anastasia?

“Le abbiamo sempre detto che quando avesse voluto ce l'avremmo riportata, ma lei ha chiuso con il passato. Con equilibrio. Ricorda la sua terra da spettatrice, partecipa delle cose che la riguardano, ma è un ricordo lontano”.

Se potesse scegliere una sola frase del suo libro, quale sarebbe la più significativa?

“Non sarebbe una mia, almeno non una soltanto perché ce ne sono molte. Allora preferisco rispondere con le parole di Walt Whitman, che leggevo spesso mentre ero sul treno che verso il Donbass: 'Se tardi a trovarmi, insisti. Se non ci sono in nessun posto, cerca in un altro, perché io sono seduto in una qualche parte ad aspettare te'. E così è stato. Anastasia era seduta ad aspettare noi.

Trovarla è stato difficile, l'attesa per incontrarla è stata lunga. Lei, bambina, neanche sapeva saremmo stati i suoi genitori adottivi. Ricordo che pensava fossimo dei dottori venuti a visitarla, perché era entrata da poco nel circuito delle adozioni e non sapeva come funzionasse. Eppure, dopo poco, ha capito chi eravamo, attraverso codici di comunicazione universali, come gli sguardi di dolcezza, di empatia, e poi le carezze, gli abbracci. Appunto, L'abbraccio di Kiev”.

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