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Home » Attualità » I diritti dei figli delle coppie omosessuali sono validi in tutti gli Stati dell’Unione Europea

I diritti dei figli delle coppie omosessuali sono validi in tutti gli Stati dell’Unione Europea

Una sentenza storica ha sancito, nel caso di due donne che chiedevano alla Bulgaria i documenti d'identità per la loro figlia nata in Spagna, che i bambini delle famiglie arcobaleno debbano poter godere di tutti i diritti garantiti per i cittadini dell'Unione

Marianna Grazi
14 Dicembre 2021
The Two lesbian mother and baby on bed having fun

The Two lesbian mother and baby on bed having fun

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Un padre e una madre, due padri, due madri. Quello che conta, per i figli e le figlie, è l’amore e la possibilità di una famiglia. È partendo da questo principio che la Corte di giustizia dell’UE ha fatto un passo avanti ‘storico’ nel riconoscere l’uguaglianza dei diritti per le famiglie arcobaleno. I figli di coppie omosessuali devono avere una carta d’identità o un passaporto dello Stato di cui sono cittadini, devono poter liberamente circolare nel territorio dell’Unione Europea ed essere accompagnati da quelli che sono indicati come i suoi genitori in base all’atto di nascita, anche se questo è stato rilasciato da Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza uno dei due e il bambino stesso. Insomma devono avere un documento che permetta loro l’esercizio dei diritti riconosciuti a livello comunitario.

Il principio stabilito dai giudici di Lussemburgo si basa sul caso di due donne che si sono viste negare il documento di identità dalla Bulgaria per la figlia, una bambina di 2 anni nata in Spagna. La sentenza sulla causa C-490/20 è arrivata in seguito al ricorso presentato dalle due donne: dopo essersi sposate e avere avuto una figlia nel 2019, la famiglia si è trasferita nello Stato d’origine di una delle madri; la bambina aveva un regolare certificato di nascita rilasciato dalle autorità spagnole, nel quale le donne figuravano come genitori. Ed ecco porsi il problema: la coppia ha richiesto al Comune di Sofia un regolare documento di identità per la piccola, ma la richiesta è stata respinta, perché la legge nazionale prevede che sull’atto di nascita siano indicati un padre e una madre, e non due persone dello stesso sesso.

Le autorità della Capitale, inoltre, avevano domandato di poter conoscere quale delle due donne fosse la madre biologica della minore. La cittadina bulgara richiedente ha scelto di non fornire tale informazione e si è vista di conseguenza negare l’iscrizione allo stato civile della bambina. La Corte di Giustizia europea, però, ha ritenuto le motivazioni dell’amministrazione di Sofia non in linea con il diritto europeo. E la risposta è stata netta: “nel caso di un minore, cittadino dell’Unione, il cui atto di nascita rilasciato dalle autorità competenti dello Stato membro ospitante (la Spagna, in questo caso, ndr) designi come suoi genitori due persone dello stesso sesso, lo Stato membro di cui tale minore è cittadino (La Bulgaria, ndr) è tenuto, da un lato, a rilasciargli una carta d’identità o un passaporto, senza esigere la previa emissione di un atto di nascita da parte delle sue autorità nazionali e, dall’altro, a riconoscere, come ogni altro Stato membro, il documento promanante dallo Stato membro ospitante che consente a detto minore di esercitare, con ciascuna di tali due persone, il proprio diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri“, si legge nella nota dei giudici.

La Cgue non entra, quindi, nel merito del riconoscimento dei matrimoni tra coppie dello stesso sesso, ma vuole affermare che se un minore è riconosciuto come figlio di due donne o di due uomini in uno Stato membro dell’Unione, questo deve valere in tutti gli altri Paesi del blocco, in modo di consentire alla famiglia e allo stesso bambino la possibilità di godere dei dei diritti che gli sono riconosciuti come cittadino europeo. Se questo gli venisse impedito, attraverso il rifiuto di documenti di identità, il Paese incorrerebbe nella violazione dei diritti stabiliti dagli articoli 20 e 21 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dagli articoli 7, 24 e 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Il dibattito sui diritti delle famiglie arcobaleno è, però, ben presente sul tavolo dell’intera Unione. Da quel 16 settembre 2020, quando la neo-presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen aveva deciso di parlare proprio dei diritti delle famiglie con due mamme o due papà come uno degli ambiti della sua azione, affermando che “Chi è genitore in un Paese, è genitore in ogni Paese“, si è arrivati invece ad una situazione in cui in sei stati – Bulgaria, Croazia, Cipro, Repubblica Ceca, Grecia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania e Slovacchia – “un minore non può avere come genitori legali due donne o due uomini”. questo è quanto emerge da uno studio dello scorso marzo, commissionato dal Dipartimento tematico Diritti dei cittadini e affari costituzionali del Parlamento europeo su richiesta della Commissione per le petizioni. Una fotografia nitida di quelli che sono gli ostacoli che le famiglie arcobaleno si trovano ad affrontare quando tentano di esercitare i loro diritti di libera circolazione all’interno dell’Ue e dei modi in cui i singoli Paesi trattano le coppie dello stesso sesso (che siano sposate, registrate civilmente o non registrate civilmente) e i loro figli nelle situazioni “transfrontaliere”.

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  • Nino Gennaro cresce in un paese complesso, difficile, famigerato per essere stato il regno del boss Liggio, impegnandosi attivamente in politica; nel 1975 è infatti responsabile dell’organizzazione della prima Festa della Donna, figura tra gli animatori del circolo Placido Rizzotto, presto chiuso e, sempre più emarginato dalla collettività, si trova poi coinvolto direttamente nel caso di una sua amica, percossa dal padre perché lo frequentava e che sporse denuncia contro il genitore, fatto che ebbe grande risonanza sui media. Con lei si trasferì poi a Palermo e qui comincia la sua attività pubblica come scrittore; si tratta di una creatività onnivora, che si confronta in diretta con la cronaca, lasciando però spazio alla definizione di mitologie del corpo e del desiderio, in una dimensione che vuole comunque sempre essere civile, di testimonianza.

Nel 1980 a Palermo si avviano le attività del suo gruppo teatrale “Teatro Madre”, che sceglie una dimensione urbana, andando in scena nei luoghi più diversi e spesso con attori non professionisti (i testi si intitolano “Bocca viziosa”, “La faccia è erotica”, “Il tardo mafioso Impero”), all’inseguimento di un cortocircuito scena/vita. Già il logo della compagnia colpisce l’attenzione: un cuore trafitto da una svastica, che vuole alludere alla pesantezza dei legami familiari, delle tradizioni vissute come gabbia. Le sue attività si inscrivono, quindi, in uno dei periodi più complessi della storia della città siciliana, quando una sequenza di delitti efferati ne sconvolge la quotidianità e Gennaro non è mai venuto meno al suo impegno, fondando nel 1986 il Comitato Cittadino di Informazione e Partecipazione e legandosi al gruppo che gestiva il centro sociale San Saverio, dedicandosi quindi a numerosi progetti sociali fino alla morte per Aids nel 1995.

La sua drammaturgia si alimenta di una poetica del frammento, del remix, con brani che spesso vengono montati in modo diverso rispetto alla loro prima stesura.

Luca Scarlini ✍

#lucenews #lucelanazione #ninogennaro #queer
  • -6 a Sanremo 2023!

Questo Festival ha però un sapore dolceamaro per l
  • Era il 1° febbraio 1945, quando la lotta per la conquista di questo diritto, partita tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, sulla scorta dei movimenti degli altri Paesi europei, raggiunse il suo obiettivo. Con un decreto legislativo, il Consiglio dei Ministri presieduto da Ivanoe Bonomi riconobbe il voto alle donne, su proposta di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi. 

Durante la prima guerra mondiale le donne avevano sostituito al lavoro gli uomini che erano al fronte. La consapevolezza di aver assunto un ruolo ancora più centrale all’interno società oltre che della famiglia, crebbe e con essa la volontà di rivendicare i propri diritti. Già nel 1922 un deputato socialista, Emanuele Modigliani aveva presentato una proposta di legge per il diritto di voto femminile, che però non arrivò a essere discussa, per la Marcia su Roma. Mussolini ammise le donne al voto amministrativo nel 1924, ma per pura propaganda, poiché in seguito all’emanazione delle cosiddette “leggi fascistissime” tra il 1925 ed il 1926, le elezioni comunali vennero, di fatto, soppresse. Bisognerà aspettare la fine della guerra perché l’Italia affronti concretamente la questione.

Costituito il governo di liberazione nazionale, le donne si attivarono per entrare a far parte del corpo elettorale: la prima richiesta dell’ottobre 1944, venne avanzata dalla Commissione per il voto alle donne dell’Unione Donne Italiane (Udi), che si mobilitò per ottenere anche il diritto di eleggibilità (sancito da un successivo decreto datato 10 marzo 1946). Si arrivò così, dopo anni di battaglie per il suffragio universale, al primo febbraio 1945, data storica per l’Italia. Il decreto prevedeva la compilazione di liste elettorali femminili distinte da quelle maschili, ed escludeva però dal diritto le prostitute schedate che esercitavano “il meretricio fuori dei locali autorizzati”.

Le elezioni dell’esordio furono le amministrative tra marzo e aprile del 1946 e l’affluenza femminile superò l’89%. 

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  • La regina del pulito Marie Kondo ha dichiarato di aver “un po’ rinunciato” a riordinare casa dopo la nascita del suo terzo figlio. La 38enne giapponese, considerata una "Dea dell’ordine", con i suoi best seller sull’economia domestica negli ultimi anni ha incitato e sostenuto gli sforzi dei comuni mortali di rimettere in sesto case e armadi all’insegna del cosa “provoca dentro una scintilla di gioia”. Ma l’esperta di decluttering, famosa in tutto il mondo, ha ammesso che con tre figli da accudire, la sua casa è oggi “disordinata”, ma ora il riordino non è più una priorità. 

Da quando è diventata madre di tre bambini, ha dichiarato che il suo stile di vita è cambiato e che la sua attenzione si è spostata dall’organizzazione alla ricerca di modi semplici per rendere felici le abitudini di tutti i giorni: "Fino a oggi sono stata una organizzatrice di professione e ho dunque fatto il mio meglio per tenere in ordine la mia casa tutto il tempo”, e anche se adesso “ci ho rinunciato, il modo in cui trascorro il mio tempo è quello giusto per me in questo momento, in questa fase della mia vita”.

✍ Marianna Grazi 

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Un padre e una madre, due padri, due madri. Quello che conta, per i figli e le figlie, è l'amore e la possibilità di una famiglia. È partendo da questo principio che la Corte di giustizia dell’UE ha fatto un passo avanti 'storico' nel riconoscere l'uguaglianza dei diritti per le famiglie arcobaleno. I figli di coppie omosessuali devono avere una carta d’identità o un passaporto dello Stato di cui sono cittadini, devono poter liberamente circolare nel territorio dell'Unione Europea ed essere accompagnati da quelli che sono indicati come i suoi genitori in base all'atto di nascita, anche se questo è stato rilasciato da Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza uno dei due e il bambino stesso. Insomma devono avere un documento che permetta loro l’esercizio dei diritti riconosciuti a livello comunitario. Il principio stabilito dai giudici di Lussemburgo si basa sul caso di due donne che si sono viste negare il documento di identità dalla Bulgaria per la figlia, una bambina di 2 anni nata in Spagna. La sentenza sulla causa C-490/20 è arrivata in seguito al ricorso presentato dalle due donne: dopo essersi sposate e avere avuto una figlia nel 2019, la famiglia si è trasferita nello Stato d'origine di una delle madri; la bambina aveva un regolare certificato di nascita rilasciato dalle autorità spagnole, nel quale le donne figuravano come genitori. Ed ecco porsi il problema: la coppia ha richiesto al Comune di Sofia un regolare documento di identità per la piccola, ma la richiesta è stata respinta, perché la legge nazionale prevede che sull'atto di nascita siano indicati un padre e una madre, e non due persone dello stesso sesso.

Le autorità della Capitale, inoltre, avevano domandato di poter conoscere quale delle due donne fosse la madre biologica della minore. La cittadina bulgara richiedente ha scelto di non fornire tale informazione e si è vista di conseguenza negare l'iscrizione allo stato civile della bambina. La Corte di Giustizia europea, però, ha ritenuto le motivazioni dell'amministrazione di Sofia non in linea con il diritto europeo. E la risposta è stata netta: "nel caso di un minore, cittadino dell’Unione, il cui atto di nascita rilasciato dalle autorità competenti dello Stato membro ospitante (la Spagna, in questo caso, ndr) designi come suoi genitori due persone dello stesso sesso, lo Stato membro di cui tale minore è cittadino (La Bulgaria, ndr) è tenuto, da un lato, a rilasciargli una carta d’identità o un passaporto, senza esigere la previa emissione di un atto di nascita da parte delle sue autorità nazionali e, dall’altro, a riconoscere, come ogni altro Stato membro, il documento promanante dallo Stato membro ospitante che consente a detto minore di esercitare, con ciascuna di tali due persone, il proprio diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri", si legge nella nota dei giudici.

La Cgue non entra, quindi, nel merito del riconoscimento dei matrimoni tra coppie dello stesso sesso, ma vuole affermare che se un minore è riconosciuto come figlio di due donne o di due uomini in uno Stato membro dell'Unione, questo deve valere in tutti gli altri Paesi del blocco, in modo di consentire alla famiglia e allo stesso bambino la possibilità di godere dei dei diritti che gli sono riconosciuti come cittadino europeo. Se questo gli venisse impedito, attraverso il rifiuto di documenti di identità, il Paese incorrerebbe nella violazione dei diritti stabiliti dagli articoli 20 e 21 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e dagli articoli 7, 24 e 45 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
Il dibattito sui diritti delle famiglie arcobaleno è, però, ben presente sul tavolo dell’intera Unione. Da quel 16 settembre 2020, quando la neo-presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen aveva deciso di parlare proprio dei diritti delle famiglie con due mamme o due papà come uno degli ambiti della sua azione, affermando che "Chi è genitore in un Paese, è genitore in ogni Paese", si è arrivati invece ad una situazione in cui in sei stati – Bulgaria, Croazia, Cipro, Repubblica Ceca, Grecia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania e Slovacchia – "un minore non può avere come genitori legali due donne o due uomini". questo è quanto emerge da uno studio dello scorso marzo, commissionato dal Dipartimento tematico Diritti dei cittadini e affari costituzionali del Parlamento europeo su richiesta della Commissione per le petizioni. Una fotografia nitida di quelli che sono gli ostacoli che le famiglie arcobaleno si trovano ad affrontare quando tentano di esercitare i loro diritti di libera circolazione all’interno dell’Ue e dei modi in cui i singoli Paesi trattano le coppie dello stesso sesso (che siano sposate, registrate civilmente o non registrate civilmente) e i loro figli nelle situazioni "transfrontaliere".
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