Il diritto di famiglia è stato riformato, la famiglia no: cosa resta della legge del 1975

Cinquant’anni fa entrava in vigore la riforma del diritto di famiglia. Avrebbe dovuto segnare la fine della subordinazione femminile dentro le mura domestiche, ma oggi, tra retaggi culturali, disuguaglianze e assenze politiche, è ancora promessa incompiuta.

di MARGHERITA AMBROGETTI DAMIANI
19 maggio 2025
Casalinga retrò

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Ci sono date che non vanno archiviate, ma maneggiate con cautela. Perché ci raccontano quanto siamo stati arretrati e quanto, a dispetto delle celebrazioni, lo siamo ancora. Il 19 maggio 1975 è una di queste. Quel giorno di cinquant’anni fa, l’Italia, dodici mesi dopo la vittoria del referendum sul divorzio, proseguiva sul cammino dell’emancipazione da se stessa, approvando la legge 151 e riformando il diritto di famiglia.

Fine della patria potestà, equiparazione giuridica tra coniugi, comunione dei beni, riconoscimento del lavoro domestico come contributo alla vita familiare. Una rivoluzione, sulla carta. Ma cosa resta di quella promessa di emancipazione? Nel 1975, il diritto sanciva che marito e moglie avevano gli stessi diritti e doveri. Prima no. Prima, lui decideva. Lei, eseguiva. Prima, lui portava i soldi, lei il cognome. Lui era la “testa”, lei il “collo”. E se questa metafora oggi suona goffa, è perché da mezzo secolo fingiamo di averla superata, mentre ci affanniamo ancora a far quadrare il cerchio delle disuguaglianze di genere.

La famiglia è cambiata ma non abbastanza

In cinquant’anni, la famiglia è cambiata, sì. Ma non abbastanza. Le madri lavorano (quando possono), si separano (se riescono), crescono figli da sole, sorreggono intere economie domestiche. Ma se muore un padre, nessuno chiede chi crescerà i bambini. Se muore una madre, tutti lo chiedono. La legge ha cambiato la forma, ma la sostanza la plasma ancora il patriarcato. Silenzioso, subdolo, non più “codificato”, ma profondamente incarnato.

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Cosa manca? Manca un welfare degno di questo nome, che non scarichi sulle donne il peso della cura. Mancano politiche fiscali che premino chi condivide responsabilità familiari, non chi le delega. Mancano asili nido pubblici, orari scolastici compatibili con il lavoro, congedi paritari obbligatori, meccanismi reali di riequilibrio. Manca la volontà di costruire una società in cui non sia normale che sia lei a rinunciare al lavoro quando nasce un figlio. Manca la cultura, che continua a rappresentare la famiglia come una “vocazione” femminile e non come un progetto condiviso.

Cosa resta del patriarcato

E poi c’è l’invisibile. L’eredità emotiva, simbolica, profonda. Quella che ancora chiede “chi porta i pantaloni” nella coppia. Quella che tiene i cognomi paterni su targhette, contratti, campanelli. Quella che fa degli uomini “aiutanti” e non “padri”. Quella che ci ha convinti che l’emancipazione sia un traguardo individuale, quando dovrebbe essere un progetto collettivo.  

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Quindi no, il patriarcato non è un fantasma. È ancora lì, nei conti correnti intestati solo a lui, nelle promozioni negate a lei, nelle frasi dei tribunali che chiedono “perché non se n’è andata”, nei titoli dei giornali che parlano di “raptus”. È lì nelle leggi che non si fanno, nelle sentenze che non proteggono, nei consultori chiusi, nei corpi che si giudicano, nei lavori che non si pagano. La riforma del 1975 ci ha dato un lessico, ma non ha ancora prodotto una grammatica della parità. Non basta dire “uguali”, se il mondo continua a premiare chi nasce con il privilegio cucito addosso. Cinquant’anni dopo, l’unica vittoria che possiamo celebrare è quella delle donne che hanno continuato a lottare, nonostante tutto. Ma lo Stato – quello sì – è ancora molto indietro. Il diritto di famiglia è stato riformato. La famiglia no. E finché sarà la donna a dover adattarsi al sistema – e non il sistema ad accogliere la libertà delle donne – continueremo a chiamare “norma” ciò che è solo retaggio.  

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Serve una nuova riforma. Non delle leggi. Ma del pensiero. Serve una politica che abbia il coraggio di dire che la parità non è una gentile concessione, ma una precondizione per una società giusta. E serve, soprattutto, che questo 19 maggio non sia una ricorrenza da commemorare. Ma una ferita ancora aperta da guardare in faccia.