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Il futuro delle donne in Afghanistan: dagli appelli sui social al ritorno della shaaria. Come Anna Frank di Kabul, regine del ghetto per i nuovi emiri

di ENRICO FOVANNA -
18 agosto 2021
DonneAfghane2

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Vien da pensare che siano tante le Anna Frank di Kabul, nascoste nei vicoli e nelle case coraniche, sotto i burqa o i veli, magari comprati in fretta e furia al mercato da un parente, per sfuggire alla repressione di talebani. Con una differenza. Che oggi le memorie del ghetto non vengono più scritte a matita in un quaderno clandestino, che qualcuno un giorno recupererà, potrà leggere e diffondere, per raccontare cosa accadde alle famiglie quando arrivarono i nazisti. No. Oggi ci sono il web e i social. E le ragazzine, che fino a ieri erano abituate ad uscire con il cellulare, ora lo usano di nascosto per lanciare appelli al mondo. Appelli a vuoto, con tutta probabilità, ma diramati all'istante fino all'angolo più remoto del pianeta. Così anche nelle province americane, nei Papeete o nei Billionaire della penisola, in Cina, in Australia o sulle alpi svizzere, chiunque potrà ascoltare il pianto della ragazza afghana che urla tutto il suo dolore, sul display dello smartphone, per aver visto il futuro finire così in fretta.  

Il pianto senza colpa

"Non contiamo nulla perché siamo in Aghanistan. A nessuno importa di noi, moriremo lentamente nella storia, non è divertente?", dice nel breve clip la ragazza, piangendo. Non ancora ventenne, non aveva mai visto in vita sua i talebani al potere poiché era cresciuta nell'ormai ex Repubblica afghana, e mai avrebbe potuto immaginare di dover nascondere il rossetto e il kajal sotto un velo, di doversi prendere al volo un marito qualunque e di essere costretta alla   per uscire. Di dire addio allo studio e di rinunciare, forse per sempre, a esprimere la propria creatività in un lavoro. L'inferno in terra, insomma. Una punizione senza appello, senza sapere per quale colpa mai commessa. Chi l'ha visto, quel breve video, e sarete in molti, non potrà essere rimasto indifferente. E poco importa che i nuovi padroni dell'Afghanistan, a cui da Trump in poi è stato dato ampio riconoscimento internazionale, ora cerchino di accreditarsi come moderati. Prima invitando le donne al governo ("ma sotto la legge della shaaria"), poi facendo intervistare il loro leader in tv da una giornalista donna, ampiamente velata. Segnali ai partner commerciali che hanno aperto ambasciate e consolati a Kabul, Cina, Russia e Iran, che si sono affrettati al plauso. Zero importa. Perché la shaaria è molto precisa, la donna deve stare a casa al servizio del marito. Punto.  

Il passato che (forse) non ritornerà

Non vale nemmeno, per fortuna, comparare il dramma delle donne afghane del 2021 a quello delle loro madri o nonne, che si ritrovarono sotto il burqa dopo il settembre del '96, con la precedente presa di potere degli studenti coranici. Men che meno equipararle alle schiave dell'Isis, quando i tagliagole sotto la bandiera nera colonizzarono il nord Iraq e parte della Siria a partire dal 2014. Nel primo caso, quei talebani non finsero nemmeno di voler costruire uno Stato con qualche apertura sui diritti umani. Qui almeno una mezza promessa c'è, il che equivale a non vedere, con tutta probabilità, esecuzioni sommarie per strada, decapitazioni o lapidazioni negli stadi. Qualche video di donna frustata in piazza perché uscita senza il marito è già comparso in rete, ma non essendone certa la datazione dobbiamo limitarci alle notizie ufficiali che arrivano dai corrispondenti esteri rimasti a Kabul. Nel secondo caso, benché i talebani possano considerarsi un'emanazione di Al-Qaeda, o viceversa, nessun sodalizio criminale organizzato sembra paragonabile a quanto ci propose Isis. Una versione primordiale, quasi archetipica, del nazismo, in cui le donne venivano stuprate in diretta telefonica con i parenti a cui erano state rapite, le bambine regalate ai signori della guerra e le madri uccise in modo selvaggio davanti ai figli. Ne sanno qualcosa gli yazidi, abitanti del monte Sinjar, nel nord Iraq, una comunità all’interno della etnia curda, accomunati dalla religione tribale. La loro icona è Nadia Murad, la ragazza di 25 anni che ha ricevuto il Nobel per la pace. Rapita dai militanti dello Stato islamico, stuprata, fuggita, ha raccontato la propria vicenda impegnandosi contro la violenza sessuale e per i diritti del suo popolo. La religione yazida immagina un Dio e sette angeli creatori, sue emanazioni. Tra questi, il principale è l’angelo ribelle Melek Taus, che si pente, viene perdonato da Dio e assume le sembianze di un pavone. Il ruolo dell’angelo ribelle ha fatto sì che per i turchi diventassero "gli adoratori del diavolo". Di qui l'odio dei tagliagole islamici, che decisero di assediare e sterminare questo popolo, accanendosi soprattutto sulle donne. Le schiave sessuali venivano poi vendute ai mercati di Mosul e Raqqa ai ricchi emiri, come animali da allevamento.  

Le regine del ghetto

No, a Kabul non avverrà nulla di tutto questo. Sarà tutto più patinato e sottotono. Arriveranno uomini d'affari dall'estero, consoli, trafficanti di oppio e uomini di intelligence straniere. Ma anche giornalisti e telecamere. È del tutto probabile che nessuno dei nuovi emiri voglia isolare l'Afghanistan in un macro ghetto, come la Corea del Nord, ma preferisca allargare il consenso anche grazie ai nuovi partner commerciali e alle alleanze. Un progetto che richiede moderazione e cautela. Ma dietro questa patina, il ruolo delle donne sarà quello di regine del ghetto. Proprio come Anna Frank. Con una speranza. Che questo addio al futuro, alle università, agli amori, alla musica e alla creatività, non sia per sempre.