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Home » Attualità » La storia del medico afghano Mohammed Naderi: “In Italia c’è salvezza, in Afghanistan una condanna”

La storia del medico afghano Mohammed Naderi: “In Italia c’è salvezza, in Afghanistan una condanna”

È ricercato dai talebani per le sue attività a favore delle donne e dei diritti civili. Fuggito in Iran, nonostante le difficoltà, continua a sognare un futuro sicuro per sé e per la sua famiglia

Elisa Serafini
2 Agosto 2022
Mohammad Naderi

Mohammad Naderi medico, attivista e direttore del Pronto Soccorso di uno degli ospedali di Kabul

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Il rumore del magazzino è assordante. Urla di bambini, suoni del clacson. Mohammad gira e rigira il suo video messaggio tre volte finché non riesce ad avere un po’ più di silenzio. Mohammad Naderi è un medico, attivista, direttore del Pronto Soccorso di uno degli ospedali di Kabul, ricercato dai talebani per le sue attività a favore delle donne e dei diritti civili. Mohammad, oltre ad occuparsi di diritti, è stato una fonte per Il Giorno e altri media italiani, collaborando raccogliendo foto e testimonianze dell’avvento dei talebani, e raccontando l’oppressione degli hazara, l’etnia di minoranza asiatica più perseguitata in Afghanistan.

L’ospedale di Kabul

“La nostra vita qui è durissima, rischiamo ogni giorno la deportazione verso l’Afghanistan”

Mohammad, dopo un lungo viaggio, è riuscito a scappare in Iran, insieme a sua moglie, medico anche lei, e alla loro bambina di due anni. Con un visto turistico sono riusciti a entrare a Tehran, dove però la situazione è drammatica. Mohammad lavora, da illegale, in un magazzino sotterraneo come operaio per un sarto, taglia e cuce borse e vestiti per 12 -14 ore al giorno per poter raccogliere qualche soldo e pagare l’affitto e il vitto nella capitale iraniana. I prezzi, nello Stato, sono lievitati, a seguito dell’arrivo di circa un milione di afghani nel Paese. “La nostra vita qui è durissima. Rischiamo ogni giorno la deportazione verso l’Afghanistan”. Nel suo Paese, invece, rischierebbe torture, prigionia e persecuzione. Ha già ricevuto minacce e ritorsioni e ha dovuto lasciare il Paese dove è nato e cresciuto, e dove aveva iniziato la sua carriera di medico. Attraverso il passaparola della sua storia, una famiglia in Italia ha offerto disponibilità ad ospitare Mohammed, sua moglie e la sua bambina.

Un futuro sicuro: il sogno dei due medici

Luca Foresti, Amministratore Delegato del Centro Medico Sant’Agostino

Luca Foresti, amministratore delegato del Centro Medico Sant’Agostino, un punto di riferimento sanitario a Milano, sta organizzando un percorso di integrazione per poter assumere i due medici, anche se la burocrazia italiana e le differenze nel riconoscimento delle lauree, rendono complessi i passaggi. Una raccolta fondi è stata avviata per poter coprire le spese di viaggio, lievitate a causa dell’incremento dei prezzi dei biglietti. Mohammad dovrà inoltre pagare delle sanzioni per aver fatto scadere il suo visto turistico in Iran. Senza la copertura di queste spese, la partenza verso l’Italia è a rischio e la deportazione verso l’Afghanistan potrebbe mettere in pericolo la sua vita e quella della sua famiglia. L’Associazione Amad, con sede ad Ancona, si occupa di aiutare persone afghane a rischio a raggiungere l’Italia e si sta attivando per procedere con la concessione di un visto urgente per l’Italia, per motivi umanitari. Mohammad, sua moglie e la sua bimba sognano un futuro sicuro, di libertà e di democrazia, dove possano dedicarsi alla cura delle persone, come hanno sempre fatto. Rimane aperto il nodo dell’emergenza Afghanistan e dell’accoglienza in Italia: ad oggi milioni di persone vivono a rischio povertà, malattia e persecuzione. I più colpiti sono i cittadini afghani di etnia hazara, minoranza nel paese, insieme a donne e bambine. Un’emergenza che riguarda tutti, e su cui non dobbiamo spegnere i riflettori.

 

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Sul suo profilo Instagram pubblica una foto delle protesi lasciate sul lettino, prima di fare un tuffo in mare. Libera. 🏊‍♀️

#lucenews #lucelanazione #bebevio #inclusivity #libera #protesi #tornosubito
  • Maura Nardi, 41 anni a novembre, ed Emanuele Loati, 25, oltre ad essere innamorati, sono due giovani transgender che, dopo una vera e propria odissea, hanno completato insieme la transizione per il cambio di sesso. E ora, nuovi documenti alla mano, coroneranno finalmente il loro sogno d’amore con le nozze.

“Con l’identità di genere non si può scendere a patti: puoi lottarci per un po’, ma alla fine devi accettare quello che sei perché in ballo c’è la tua vita”.

Emanuele e Maura si sono conosciuti 3 anni fa, proprio durante il difficile e lungo percorso che li avrebbe portati alla loro nuova identità. Da quel primo incontro, proprio come in una favola con la freccia di Cupido scoccata che non lascia scampo, i due non si sono più lasciati.

Uniti, supportandosi a vicenda senza mai smettere di amarsi, hanno affrontato tutte le difficoltà che si sono presentate e non sono state poche: prima la sofferenza emotiva (ma anche fisica) per la transizione, aggravata poi dalla burocrazia dello Stato. E dopo tante peripezie la luce è apparsa in fondo al tunnel: l’ufficio anagrafe del comune di Recanati, in provincia di Macerata, ha provveduto a rettificare i loro documenti di identità. Era l’ultimo step da superare prima del via libera al matrimonio. Ora non resta che organizzare.

Se quella di Nardi e Loati è una vicenda già particolarmente travagliata, anche se a lieto fine, per Maura le cose sono state, se possibile, ancora più difficili. Ha iniziato la transizione nel 2016 e quando ha completato il percorso, è stata la prima persona non vedente italiana a riuscirci. Da quando ha 19 anni soffre di una forma di cecità a causa dello sviluppo di una rara malattia alla retina, nel suo caso “è stato più semplice convivere con la cecità che con l’incongruenza di genere”.

E aggiunge: “Nonostante il supporto non è stata una passeggiata: ho avuto diversi momenti di sconforto e paura, altri in cui mi sono sentita in colpa per aver trascinato la mia famiglia in questo cammino così complesso. Oggi so che rifarei tutto. La ciliegina sulla torta è stata l’arrivo del mio compagno. Ora finalmente siamo pronti a sposarci e possiamo pensare a una cosa bella”.

#lucenews #recanati #nozze
  • Quello che molti temevano è purtroppo accaduto: per scoprire le interruzioni di gravidanza negli Usa le autorità stanno facendo ricorso anche ai dati personali contenuti nelle app di messaggistica e sui social. 

A destare scalpore è un caso in Nebraska, dove Celeste Burgess, 18 anni, e sua madre Jessica, 41, sono finite in tribunale per un presunto aborto illegale, con molteplici capi d’imputazione. La polizia ha presentato come prove i messaggi su Facebook che le due donne si sarebbero scambiate e a cui, con l’autorizzazione dei gestori della piattaforma – in questo caso Meta –, ha avuto accesso. Le chat private, secondo le autorità, mostrano le prove di un aborto farmacologico illegale, autogestito alla 28esima settimana di gestazione (settimo mese), e di un piano per nascondere "i resti”.

Dopo che la polizia ha ottenuto il materiale dai due mandati di perquisizione, Jessica è stata accusata di altri due reati, induzione all’aborto illegale e pratica dell’aborto come persona diversa da un medico autorizzato, per i quali si è nuovamente dichiarata non colpevole. Attualmente il Nebraska proibisce gli aborti dopo le 20 settimane, una legge in vigore da prima dell’annullamento della sentenza Roe v. Wade.

Il problema di fondo che emerge da questa e da tante altre vicende in materia di diritti ha un duplice aspetto: da una parte c’è l’obbligo di una società di fornire i dati alle forze dell’ordine che ne fanno richiesta per le indagini e dall’altra la possibilità di disporre di questi dati. 

Mai come oggi grandi aziende private possono disporre di informazioni personali relative ai propri utenti, e se queste sono utili per fermare chi commette crimini è un conto, ma se le leggi vengono modificate ciò che può essere giudicato come crimine cambia. Il caso di Celeste Burgess è solo un esempio, ma conferma anche che negare il diritto all’aborto non eradica il fenomeno, ma lo trasporta in una dimensione di illegalità e pericolo per la salute della donna.

#lucenews #lucelanazione #aborto #nebraska #abortion #usa
  • La scelta coraggiosa del calciatore croato Robert Peric-Komsic non poteva non fare il giro del mondo in un baleno. Nel fiore dell’età, e con tutta la vita davanti, a soli 23 anni ha deciso di lasciare il mondo del pallone. La sua non è stata una scelta forzata, è stata intimamente voluta, e se ha detto addio alla sua carriera è stato solo per una scelta d’amore. Dimostrando che la vita della propria madre viene prima di qualunque cosa. Prima della passione per il pallone, prima del successo, prima di ogni carriera.

“Non c’erano altre opzioni, io era l’unica possibilità, l’ultima. Ho avuto ben chiara qual era la mia missione: salvarla.”

L’attaccante del Cibalia Vinkovci non ci ha pensato due volte quando si è trattato di scegliere tra il suo futuro nel mondo calcistico e la salute della sua mamma malata. Per tanto, troppo tempo l’aveva vista lottare contro una malattia al fegato. Ora non c’era più tempo da perdere: si trattava di trovare un donatore compatibile, e al più presto. Lo stomaco della donna si stava oramai riempiendo di acqua, e questo voleva dire che le rimaneva poco tempo, secondo i medici che l’avevano in cura. Questione di qualche giorno appena. Il calciatore della seconda divisione croata era l’unico compatibile. A quel punto Peric-Komsic si è tolto la tuta, ha riposto maglietta e calzoncini da calciatore nella sua valigia e ha preso l’aereo, salendo sul primo volo con destinazione Istanbul. Lì ha trovato sua mamma Ljiljiana che l’aspettava per abbracciarlo, in fin di vita.

“Dopo aver lottato duramente per 13 anni, il vero eroe è lei. Io ho solo fatto quello che chiunque al posto mio avrebbe fatto."

Sono passati quattro mesi e più dall’intervento. Il trapianto è andato benee la signora Ljiljiana è migliorata molto da allora. Giorno dopo giorno ce l’ha messa tutta, e con una straordinaria forza di volontà, animata dall’amore di suo figlio, si sta piano piano riprendendo. E a chi si complimenta per aver fatto qualcosa di straordinario, con l’umiltà dei grandi risponde: “È stata mia madre a darmi la vita. Io l’ho solo estesa a lei”.

#lucenews #lucelanazione #donazionefegato #RobertPericKomsic #donarelavitaperamore
Il rumore del magazzino è assordante. Urla di bambini, suoni del clacson. Mohammad gira e rigira il suo video messaggio tre volte finché non riesce ad avere un po’ più di silenzio. Mohammad Naderi è un medico, attivista, direttore del Pronto Soccorso di uno degli ospedali di Kabul, ricercato dai talebani per le sue attività a favore delle donne e dei diritti civili. Mohammad, oltre ad occuparsi di diritti, è stato una fonte per Il Giorno e altri media italiani, collaborando raccogliendo foto e testimonianze dell’avvento dei talebani, e raccontando l'oppressione degli hazara, l’etnia di minoranza asiatica più perseguitata in Afghanistan.
L'ospedale di Kabul

"La nostra vita qui è durissima, rischiamo ogni giorno la deportazione verso l'Afghanistan"

Mohammad, dopo un lungo viaggio, è riuscito a scappare in Iran, insieme a sua moglie, medico anche lei, e alla loro bambina di due anni. Con un visto turistico sono riusciti a entrare a Tehran, dove però la situazione è drammatica. Mohammad lavora, da illegale, in un magazzino sotterraneo come operaio per un sarto, taglia e cuce borse e vestiti per 12 -14 ore al giorno per poter raccogliere qualche soldo e pagare l’affitto e il vitto nella capitale iraniana. I prezzi, nello Stato, sono lievitati, a seguito dell’arrivo di circa un milione di afghani nel Paese. “La nostra vita qui è durissima. Rischiamo ogni giorno la deportazione verso l’Afghanistan”. Nel suo Paese, invece, rischierebbe torture, prigionia e persecuzione. Ha già ricevuto minacce e ritorsioni e ha dovuto lasciare il Paese dove è nato e cresciuto, e dove aveva iniziato la sua carriera di medico. Attraverso il passaparola della sua storia, una famiglia in Italia ha offerto disponibilità ad ospitare Mohammed, sua moglie e la sua bambina.

Un futuro sicuro: il sogno dei due medici

Luca Foresti, Amministratore Delegato del Centro Medico Sant'Agostino
Luca Foresti, amministratore delegato del Centro Medico Sant'Agostino, un punto di riferimento sanitario a Milano, sta organizzando un percorso di integrazione per poter assumere i due medici, anche se la burocrazia italiana e le differenze nel riconoscimento delle lauree, rendono complessi i passaggi. Una raccolta fondi è stata avviata per poter coprire le spese di viaggio, lievitate a causa dell’incremento dei prezzi dei biglietti. Mohammad dovrà inoltre pagare delle sanzioni per aver fatto scadere il suo visto turistico in Iran. Senza la copertura di queste spese, la partenza verso l’Italia è a rischio e la deportazione verso l’Afghanistan potrebbe mettere in pericolo la sua vita e quella della sua famiglia. L’Associazione Amad, con sede ad Ancona, si occupa di aiutare persone afghane a rischio a raggiungere l’Italia e si sta attivando per procedere con la concessione di un visto urgente per l’Italia, per motivi umanitari. Mohammad, sua moglie e la sua bimba sognano un futuro sicuro, di libertà e di democrazia, dove possano dedicarsi alla cura delle persone, come hanno sempre fatto. Rimane aperto il nodo dell’emergenza Afghanistan e dell’accoglienza in Italia: ad oggi milioni di persone vivono a rischio povertà, malattia e persecuzione. I più colpiti sono i cittadini afghani di etnia hazara, minoranza nel paese, insieme a donne e bambine. Un’emergenza che riguarda tutti, e su cui non dobbiamo spegnere i riflettori.  
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