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"La vicenda del piccolo Eitan non ha legami religiosi. Che cresca in diaspora o in Israele non c'entra ora con la sua sofferenza"

di DOMENICO GUARINO -
15 settembre 2021
Eitan

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La vicenda del piccolo Kan Eitan Biran, il bambino di 6 anni unico sopravvissuto della sua famiglia alla tragedia del Mottarone, che è stato trasferito dall’Italia in Israele in un “sospetto rapimento” da parte del nonno Shmuel Peleg , e le dichiarazioni di quest’ultimo che ha detto di aver compiuto il gesto per educare il bambino nella maniera ebraica e farlo crescere come “un vero ebreo”, hanno riproposto un tema molto delicato: quello cioè dell’appartenenza nazionale e dell’identità religiosa. Un tema quantomai complesso, spesso agli onori delle cronache, nella maggior parte dei casi per episodi che sconfinano nella violenza se non - come in molti casi - nel terrorismo. In questo caso la vicenda vede al centro un bambino già protagonista di una vicenda altrettanto eclatante: come il crollo devastante della funivia e la conseguente strage che vide la morte di decine di persone, tra i quali appunto i genitori di Eitan. Sul fatto ascoltiamo Enrico Fink, musicista, tra le voci più apprezzate della cultura ebraica in Italia e non solo, presidente della comunità ebraica di Firenze.

Enrico Fink nella sinagoga di Firenze

“A mio parere non c’è in questo caso un tema che riguarda il rapporto tra le fedi” dice Fink. “Si tratta di una vicenda di cronaca dolorosissima che riguarda una famiglia divisa tra due stati, e che ha al centro purtroppo un bambino che è stato a sua volta al centro di un’altra vicenda terribile, molto nota a livello internazionale, e che quindi ha già addosso l’attenzione del mondo”.   Quindi, non pensi che la questione dell’appartenenza religiosa abbia rilevo in questo caso? “No. Credo che questa vicenda non abbia in realtà alcun nesso con le fedi o le appartenenze religiose, culturali sociali, politiche. A mio parere andrebbe letta con il rispetto per il dolore delle persone coinvolte. Anche evitando troppi commenti. Poi è chiaro che, siccome i due paesi in cui è divisa la famiglia sono l’Italia ed Israele, questo fatto per gli Ebrei italiani è qualcosa che porta ad una maggiore attenzione”.  

Il nonno materno, Shmulik Peleg, 58 anni

In che senso? “Nel senso che per noi ebrei italiani è più facile immedesimarci non nello specifico di questo fatto, ma rispetto alla questione delle famiglie divise tra due stati, che è una realtà invece abbastanza diffusa. E sulla quale le comunità sono molto sollecitate. Non a caso l’episodio ha generato un forte dibattito all’interno delle nostre comunità”.   Non ritieni che, anche alla luce delle dichiarazioni del nonno, la dimensione confessionale sia un elemento della vicenda? “Sulle motivazioni della famiglia davvero non mi sento di intervenire perché in casi come questo, in cui le persone agiscono sotto il peso di dolore e in situazioni molto particolari, non ha senso dare giudizi sulla base di quanto si può leggere sulla stampa, ed è meglio a mio modo di vedere astenersi dal commentare oltre misura, anche e soprattutto per rispetto alla situazione atroce del bimbo. Ciò detto, comunque penso che motivazioni di carattere religioso in questo come in tanti altri casi siano poco più che giustificazioni a posteriori per diatribe, sofferenze e rancori familiari che sono molto personali e poco hanno a che fare con categorie generali. La differenza per un ebreo tra crescere in diaspora e crescere in Israele è un tema interessante che merita riflessione, ma che davvero non mi pare c’entri alcunché con la sofferenza di Eitan, con la sua condizione, con cosa sia meglio per lui in questo momento così drammatico".   Tu, come hai vissuto, come vivi la tua dimensione religiosa rispetto al Paese in cui vivi?

Enrico Fink

“Quello che viviamo oggi è un periodo a mio modo di vedere molto interessante riguardo al tema delle appartenenze e delle identità. La società di oggi è una società che vive le difficoltà e le opportunità e del rapporto tra culture diverse in maniera estremamente differente rispetto al passato. Nel passato sono stati tentati meccanismi di relazione tra le culture che spesso sfociavano in ghettizzazioni, se non vere e proprie segregazioni, oppure in tentativi di assimilazione forzata. Il mondo ebraico è stato testimone -  spesso suo malgrado, in quanto minoranza che ha vissuto come tale nel contesto europeo e non solo - di queste dinamiche che hanno avuto come tutti sappiamo parentesi estremamente tragiche. Oggi, direi per fortuna, in Europa queste non sono ritenute opzioni interessanti o da perseguire, ma si cercano strade diverse. Però le differenze che ci sono tra culture religioni, apparenze identità mettono in luce tante sfumature, tante nervature, ed ovviamente la cosa mi coinvolge e mi interessa come cittadino e come musicista".   Il caso di Eitan resta fuori? "Sì, la cronaca non c’entra. Questa deve essere letta in maniera del tutto equivalente, senza condizionamenti legati alle appartenenze”.