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Home » Attualità » L’associazione Fatima a Palermo: “Saman deve essere l’ultima. Basta con questa cultura patriarcale”

L’associazione Fatima a Palermo: “Saman deve essere l’ultima. Basta con questa cultura patriarcale”

Le donne musulmane dell'associazione scendono in campo per la tutela dei loro diritti dopo l'ultimo caso di cronaca che ha sconvolto il nostro Paese. "Serve dialogo e confronto, mai più un caso come questo"

Camilla Prato
10 Giugno 2021
Muslim tourist exploring city

Muslim tourist exploring city

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“Saman non è la prima che fa questa fine, ma dobbiamo lottare perché sia l’ultima” dice Manel Bousselmi, 38 anni, di origine tunisina. La donna è a capo dell’associazione Fatima, che a Palermo riunisce 120 donne musulmane di diverse nazionalità.

Donne che si battono per altre donne, in nome di un riconoscimento che va al di là del genere, della religione o della nazionalità. Vogliono difendere i propri diritti. Per questo le associate, che un anno fa erano appena sette, oggi chiedono a gran voce che il caso di Saman Abbas, la 18enne di origine pakistana di cui non si hanno più notizie dallo scorso 30 aprile e che si ritiene si stata uccisa dalla sua stessa famiglia perché aveva rifiutato un matrimonio combinato, sia l’ultimo. Per questo si oppongono alle nozze forzate e spronano tutte tutte le donne islamiche a scegliere il loro futuro e ad “affrancarsi dalla cultura patriarcale che con l’alibi della religione decide per loro”.

“Non è questione di religione, ma una questione culturale che fa sentire le donne sottomesse all’uomo, incapaci di scegliere. Vivono nella paura e intanto c’è chi decide per loro – continua Bousselmi -. Il matrimonio combinato è una realtà. Accade anche a Palermo che ragazze nate e cresciute in città a un certo punto debbano tornare nel loro Paese d’origine per sposare un cugino, uno zio, o qualsiasi uomo magari molto più grande di loro”.

Manel sa bene cosa voglia dire sottostare ad una cultura tradizionalista e patriarcale come quella islamica. Quando le cose hanno smesso di funzionare nel suo matrimonio lei, come poche, ha trovato la forza per separarsi e adesso aspetta il divorzio. A Palermo abita insieme ai suoi genitori e ai suoi due bambini. Laureata in Tunisia, ha continuato a studiare anche in Italia, e adesso si sta preparando per la laurea magistrale in Ingegneria gestionale. “Le cose possono cambiare soltanto se educhiamo i bambini e le bambine in modo diverso. Chi nasce lontano dal proprio Paese mescola la cultura d’origine con quella del luogo in cui cresce e costruisce una sorta di terza identità. È difficile per i genitori poter accettare le scelte di un figlio che si allontanano dalla loro cultura”.

Saman Abbas, 18enne scomparsa da oltre 40 giorni a Novellara, in provincia di Reggio Emilia

Proprio come Saman, che in Italia aveva trovato persino l’amore. Era fidanzata con un ragazzo, ma i genitori si erano opposti alla loro unione, avendo già combinato un matrimonio nel Paese d’origine. “Il padre voleva che sposasse un uomo in Pakistan – ha raccontato il ragazzo – ma lei ha detto no, gli ha detto a me piace l’Italia e c’è un ragazzo qua che mi piace”. E così, dalle minacce (di cui persino il ragazzo stesso si dice vittima ancora oggi) si è passati ai fatti. E per Saman non c’è stato scampo.

Anche per questo Manel Bousselmi e l’associazione Fatima chiedono uno spazio dove poter organizzare incontri con le donne e con i bambini. “Vogliamo fare dibattiti su questi argomenti, confronti. Perché c’è troppa paura, ci sono tanti casi di violenza in famiglia che non vengono mai denunciati. Le donne da sole non ce la fanno. Sarebbe bello poterle sostenere in questo percorso, dare loro la forza di alzare la testa”. Perché casi come quelli della ragazza di Novellara non sono più accettabili in uno stato che si definisce civile e democratico.

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Instagram

  • «Era terribile durante il fascismo essere transessuale. Mi picchiavano e mi facevano fare delle cose schifose. Mi imbrattavano con il catrame e mi hanno rasato. Ho preso le botte dai fascisti perché mi ero atteggiato a donna e per loro questo era inconcepibile».

È morta a quasi 99 anni Lucy Salani, attivista nota come l’unica persona trans italiana sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti.

#lucenews #lucysalani #dachau
  • È morta a quasi 99 anni Lucy Salani, attivista nota come l
  • Elaheh Tavakolian, l’iraniana diventata uno dei simboli della lotta nel suo Paese, è arrivata in Italia. Nella puntata del 21 marzo de “Le Iene”, tra i servizi del programma di Italia 1, c’è anche la storia della giovane donna, ferita a un occhio dalla polizia durante le proteste in Iran. Nella puntata andata in onda la scorsa settimana, l’inviata de “Le Iene” aveva incontrato la donna in Turchia, durante la sua fuga disperata dall’Iran, dove ormai era troppo pericoloso vivere. 

“Ho molta paura. Vi prego, qui potrebbero uccidermi” raccontava l’attivista a Roberta Rei. Già in quell’occasione, Elaheh Tavakolian era apparsa con una benda sull’occhio, a causa di una grave ferita causatale da un proiettile sparato dalle forze dell’ordine iraniane durante le manifestazioni a cui ha preso parte dopo la morte di Mahsa Amini.

Elaheh Tavakolian fa parte di quelle centinaia di iraniani che hanno subito gravi ferite agli occhi dopo essere stati colpiti da pallottole, lacrimogeni, proiettili di gomma o altri proiettili usati dalle forze di sicurezza durante le dure repressioni che vanno avanti ormai da oltre sei mesi. La ragazza, che ha conseguito un master in commercio internazionale e ora lavora come contabile, ha usato la sua pagina Instagram per rivelare che le forze di sicurezza della Repubblica islamica stavano deliberatamente prendendo di mira gli occhi dei manifestanti. 

✍ Barbara Berti

#lucenews #lucelanazione #ElahehTavakolian #iran #leiene
  • Ha 19 anni e vorrebbe solo sostenere la Maturità. Eppure alla richiesta della ragazza la scuola dice di no. Nina Rosa Sorrentino è nata con la sindrome di Down, e quel diritto che per tutte le altre studentesse e studenti è inviolabile per lei è invece un’utopia.

Il liceo a indirizzo Scienze Umane di Bologna non le darà la possibilità di diplomarsi con i suoi compagni e compagne, svolgendo le prove che inizieranno il prossimo 21 giugno. La giustificazione – o la scusa ridicola, come quelle denunciate da CoorDown nella giornata mondiale sulla sindrome di Down – dell’istituto per negarle questa possibilità è stata che “per lei sarebbe troppo stressante“.

Così Nina si è ritirata da scuola a meno di tre mesi dalla fine della quinta. Malgrado la sua famiglia, fin dall’inizio del triennio, avesse chiesto agli insegnanti di cambiare il Pei (piano educativo individualizzato) della figlia, passando dal programma differenziato per gli alunni certificati a quello personalizzato per obiettivi minimi o equipollenti, che prevede l’ammissione al vero e proprio esame di Maturità. Ma il liceo Sabin non ha assecondato la loro richiesta.

Francesca e Alessandro Sorrentino avevano trovato una sponda di supporto nel Ceps di Bologna (Centro emiliano problemi sociali per la Trisomia 21), in CoorDown e nei docenti di Scienze della Formazione dell’Alma Mater, che si sono detti tutti disponibili per realizzare un progetto-pilota per la giovane studentessa e la sua classe. Poi, all’inizio di marzo, la doccia fredda: è arrivato il no definitivo da parte del consiglio di classe, preoccupato che per la ragazza la Maturità fosse un obiettivo troppo impegnativo e stressante, tanto da generare “senso di frustrazione“, come ha scritto la dirigente del liceo nella lettera che sancisce l’epilogo di questa storia tutt’altro che inclusiva.

“Il perché è quello che ci tormenta – aggiungono i genitori –. Anche la neuropsichiatra concordava: Nina poteva e voleva provarci a fare l’esame. Non abbiamo mai chiesto le venisse regalato il diploma, ma che le fosse data la possibilità di provarci”.

#lucenews #lucelanazione #disabilityinclusion #giornatamondialedellasindromedidown
"Saman non è la prima che fa questa fine, ma dobbiamo lottare perché sia l'ultima" dice Manel Bousselmi, 38 anni, di origine tunisina. La donna è a capo dell'associazione Fatima, che a Palermo riunisce 120 donne musulmane di diverse nazionalità. Donne che si battono per altre donne, in nome di un riconoscimento che va al di là del genere, della religione o della nazionalità. Vogliono difendere i propri diritti. Per questo le associate, che un anno fa erano appena sette, oggi chiedono a gran voce che il caso di Saman Abbas, la 18enne di origine pakistana di cui non si hanno più notizie dallo scorso 30 aprile e che si ritiene si stata uccisa dalla sua stessa famiglia perché aveva rifiutato un matrimonio combinato, sia l'ultimo. Per questo si oppongono alle nozze forzate e spronano tutte tutte le donne islamiche a scegliere il loro futuro e ad "affrancarsi dalla cultura patriarcale che con l'alibi della religione decide per loro". "Non è questione di religione, ma una questione culturale che fa sentire le donne sottomesse all'uomo, incapaci di scegliere. Vivono nella paura e intanto c'è chi decide per loro - continua Bousselmi -. Il matrimonio combinato è una realtà. Accade anche a Palermo che ragazze nate e cresciute in città a un certo punto debbano tornare nel loro Paese d'origine per sposare un cugino, uno zio, o qualsiasi uomo magari molto più grande di loro". Manel sa bene cosa voglia dire sottostare ad una cultura tradizionalista e patriarcale come quella islamica. Quando le cose hanno smesso di funzionare nel suo matrimonio lei, come poche, ha trovato la forza per separarsi e adesso aspetta il divorzio. A Palermo abita insieme ai suoi genitori e ai suoi due bambini. Laureata in Tunisia, ha continuato a studiare anche in Italia, e adesso si sta preparando per la laurea magistrale in Ingegneria gestionale. "Le cose possono cambiare soltanto se educhiamo i bambini e le bambine in modo diverso. Chi nasce lontano dal proprio Paese mescola la cultura d'origine con quella del luogo in cui cresce e costruisce una sorta di terza identità. È difficile per i genitori poter accettare le scelte di un figlio che si allontanano dalla loro cultura".
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