
I Millennials affrontano il lavoro con uno spirito di sacrificio che viene dallo choc della crisi del 2008
C’è una generazione, quella dei Millennial, che ha dovuto imparare a diffidare delle certezze proprio nel momento topico dell’ingresso nel mondo del lavoro. Una generazione che è diventata adulta quando tutto ha iniziato ad andare a rotoli. Una generazione che ha vissuto un prima e un dopo così potente da plasmare tutto il suo approccio al lavoro, schiacciata com’era e com’è tra la granitica certezza del posto fisso dei propri genitori e la volatile flessibilità, chiamiamola così, degli impieghi dei nostri giorni.
La grande recessione del 2008 ha travolto come una valanga le speranze di chi, tra quelli nati tra i primi anni ‘80 e la metà degli anni ‘90, si stava diplomando e laureando proprio mentre in America la bolla immobiliare scoppiava, la finanza Usa crollava e, come in un contagio, l’Europa entrava in una spirale recessiva. Cosa poteva mai andare storto?
La crisi del 2008 è stato un evento spartiacque per tutti. Ai Millennial europei, cresciuti nel mito della stabilità, della pace (almeno nelle vicinanze), del posto fisso, della retribuzione certa, della carriera lineare e del cartellino timbrato al minuto spaccato, è crollata la terra sotto ai piedi. Pensavano di avere porte aperte, invece si sono (ci siamo) messi a testa bassa a cercare un lavoro purché sia, mentre intorno a noi si sgretolavano diritti e garanzie. Ci siamo ritrovati in competizione tra di noi per accaparrarci i posti disponibili nonostante la crisi. Abbiamo pensato che buttando il cuore oltre l’ostacolo, facendoci vedere disposti a tutto, avremmo avuto più chance di cavarcela. E chi non era performante abbastanza è rimasto indietro, ha faticato il doppio a trovare un posto nel mondo del lavoro. Questo ci ha fatto sviluppare una cultura del sacrificio così tossica da farci pensare pure di dover ringraziare il datore di lavoro per averci dato un impiego nonostante la crisi. Se sei donna, peggio ancora, ringrazi due volte per aver accolto in organico un essere utero dotato che potrebbe permettersi di avere bambini.

Il Millennial, in un ufficio, lo riconosci subito: è quello che non ha l’orologio, che se esce alle 19 è perché ha fatto presto, che viene al lavoro anche acciaccato, che si sente in colpa se è costretto a chiedere permessi. Abbiamo un posto fisso e uno stipendio mediamente garantito ma con quali sacrifici? Quali incertezze? Quali carichi di lavoro, che però accettiamo ringraziando? Sui social, come per ogni cosa, è pieno di meme pure su questo.
Come sempre però, a ogni azione corrisponde una reazione. E finalmente la nostra generazione sta reagendo: sta (stiamo) iniziando a rifiutare una certa retorica del lavoro come sacrificio assoluto. Sia chiaro, non è un rigetto del lavoro in sé e anzi, i Millennial lavorano molto, spesso troppo, ma è un cambiamento di prospettiva: il lavoro non è più l’asse centrale dell’identità individuale. Non si vive per lavorare, ma si lavora per vivere. C’entra qualcosa il fatto che siamo tutti in età – tarda – da famiglia? Che, anche se almeno dieci anni dopo rispetto ai nostri genitori, siamo riusciti a fatica a sposarci e metter su casa nonostante gli ostacoli? C’entra eccome. Arrivare alla soglia dei 35-40 per avere i primi figli ci ha resi consapevoli del fatto che, queste creature avranno presto genitori anziani e che dunque è meglio goderseli adesso, subito. Anche perché, dopo dieci o quindici anni di lavoro, di QUESTO lavoro, abbiamo capito che da vecchi vorremo ricordare gli affetti vissuti, i momenti privati, e non le call infinite, le ore di straordinario non pagate, le sfuriate dei capi e gli stipendi che non bastano.
I Millennial non sono pigri, anzi. E nemmeno disillusi. Si guardano indietro, poi guardano i colleghi più giovani, mille volte più a loro agio nell’incertezza e a disagio nell’orario d’ufficio, e finalmente sentono di poter dire ad alta voce che il sacrificio cieco, in nome di un futuro promesso ma mai arrivato, non è più sostenibile. E che il lavoro, per avere senso, deve essere anche giusto.