L’infermiera tenuta in vita solo perché incinta e le altre: gli effetti perversi (e letali) delle leggi antiabortiste

Dall’America all’Africa, passando per l’Europa, il corpo delle donne è ancora una volta campo di battaglia. Ecco come le legislazioni antiabortiste mettono a rischio la salute e la dignità delle donne, tra obiezioni di coscienza e criminalizzazione

di CLARA LATORRACA
21 maggio 2025
Adriana Smith col figlio e, a destra tenuta in vita perché incinta

Adriana Smith col figlio e, a destra tenuta in vita perché incinta

Adriana Smith, un’infermiera di 30 anni di Atlanta, madre di un bambino di 7 anni, si è recata in ospedale il 9 febbraio scorso per curare un forte mal di testa, senza ricevere nessun trattamento specifico. Il 19 febbraio viene trovata incosciente dal compagno e ricoverata Emory University Hospital Midtown, dove una TAC mostra la presenza di coaguli di sangue nel cervello. Il giorno stesso Adriana Smith viene dichiarata cerebralmente morta - una condizione irreversibile dopo la quale viene solitamente dichiarato il decesso. Eppure fino ad oggi la donna è stata tenuta in vita con sostegno medico artificiale. Il motivo? Al momento della morte cerebrale, la 30enne era incinta di nove settimane. E la legge contro l’aborto dello Stato della Georgia - che vieta l’interruzione di gravidanza da quando è possibile individuare il battito del cuore del feto - impone all’ospedale di mantenere in vita artificialmente Smith fino a quando non sarà possibile procedere con relativa sicurezza a un parto prematuro. La famiglia di Smith ha denunciato di non avere alcuna possibilità di scelta sui trattamenti per la figlia né sul portare a termine la sua gravidanza. La madre dell’infermiera ha raccontato le visite frequenti alla figlia in ospedale come questa esperienza “una tortura”. I famigliari non sono stati informati se la bambina potrà soffrire di gravi malattie o disabilità in caso la gravidanza sia portata a termine.

La legge sull'aborto in Georgia 

La legge della Georgia sull’aborto è fra le più restrittive degli Stati Uniti ed entrata in vigore nel 2022, quando la Corte Suprema degli Stati Uniti ha annullato la sentenza che garantiva il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza in tutto il paese. La Living Infants Fairness and Equality (LIFE) Act (Legge sulla correttezza e uguaglianza dei neonati) vieta di interrompere la gravidanza dopo la sesta settimana - un momento in cui la maggior parte delle donne non sa neanche di essere incinta. La legge, approvata nel 2019, era stata dichiarata incostituzionale e sospesa nel 2022, ma poi ristabilita dalla Corte Suprema della Georgia nel 2022, di nuovo sospesa nel 2024 a seguito della sentenza di un giudice e infine reintrodotta lo stesso anno sempre dalla Corte Suprema.

Il caso di Adriana Smith, diventato simbolo delle storture più drammatiche delle leggi anti-aborto, non è un’eccezione. Negli ultimi anni, in diverse parti del mondo, politiche restrittive in materia di salute riproduttiva hanno avuto effetti devastanti non solo sulla libertà di scelta, ma anche sulla salute e sulla vita stessa delle donne.

Il caso di Izabela Sajbor in Polonia

In Polonia, nel 2021, la morte di Izabela Sajbor, una donna di 30 anni incinta alla ventiduesima settimana, ha scatenato indignazione e proteste in tutto il Paese. Ricoverata all’ospedale di Pszczyna a causa della perdita di liquido amniotico, Izabela si è vista negare ogni intervento medico risolutivo, perché il feto mostrava ancora segni di vita. I medici hanno scelto di attendere che il battito si fermasse spontaneamente, per timore di violare la legge sull’aborto in vigore dal gennaio dello stesso anno, che vieta l’interruzione volontaria anche in presenza di gravi malformazioni fetali. Izabela è morta di setticemia poche ore dopo. 

La legge in questione - approvata dopo una sentenza della Corte Costituzionale polacca nel 2020 - ha eliminato quasi tutte le eccezioni precedentemente previste per l’aborto legale, lasciandolo possibile solo in caso di stupro, incesto o grave pericolo di vita per la madre.

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La vicenda di Izabela ha scatenato forti proteste in Polonia e ha avuto un’eco anche a livello europeo: il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione di condanna in cui ha espresso “solidarietà e sostegno alle donne polacche” e ha invitato le istituzioni dell’UE ad agire contro la deriva antiabortista del governo di Varsavia. Ma il problema non è solo polacco: è la testimonianza di come, anche nel cuore dell’Europa, il diritto alla salute riproduttiva sia ancora fragile, esposto agli attacchi ideologici e religiosi.

El Salvador: una delle leggi antiabortiste più restrittive al mondo

In El Salvador, uno dei paesi con le leggi sull'aborto più restrittive al mondo, l'interruzione di gravidanza è vietata in ogni circostanza, anche in caso di stupro, incesto o pericolo per la vita della madre. Il divieto di interrompere la gravidanza si estende anche ai casi di bambine sopravvissute a violenza sessuale. E prevede pene anche in caso in cui l’interruzione di gravidanza avvenga per cause naturali. Questa legislazione ha portato alla criminalizzazione di donne che hanno subito emergenze ostetriche, come aborti spontanei o parti prematuri.

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Un caso emblematico che ha riguardato il Paese latinoamericano è quello di Beatriz (il cognome non è stato reso pubblico), una giovane donna di 21 anni con lupus e insufficienza renale, a cui è stato negato un aborto terapeutico nonostante il feto fosse anencefalico - ovvero si stava sviluppando senza nè cranio nè cervello. La giovane stata costretta ad affrontare un lungo processo legale, per poi partorire con taglio cesareo tre mesi dopo, un'operazione molto più invasiva di quella inizialmente consigliata dai medici. Il figlio è vissuto solo per cinque ore dopo l'operazione. Beatriz è morta nell'ottobre 2017 a seguito di complicazioni di salute dovute a un incidente stradale. Il suo corpo non era in grado di far fronte al nuovo ricovero. La Corte Interamericana dei Diritti Umani ha recentemente condannato El Salvador per violenza ostetrica e violazioni dei diritti umani nel suo caso.

Africa: tra leggi restrittive e aborti clandestini 

In molti paesi africani, le leggi restrittive sull'aborto costringono le donne a ricorrere a pratiche clandestine e pericolose. In Senegal, l'aborto è completamente vietato, salvo quando la vita della donna è in pericolo, e anche in questo caso viene reso quasi impossibile, dal momento che richiede l'approvazione di tre medici diversi. Secondo il Guttmacher Institute, nel 2012 si sono verificati circa 51.500 aborti clandestini, con il 63% eseguiti da persone non qualificate, situazione che porta a complicazioni gravi per molte donne. In Uganda, sebbene Il Codice Penale preveda che l’aborto sia legale solo per salvare la vita della donna, le Linee guida nazionali del 2006 in materia di salute sessuale e riproduttiva ampliano l'accesso anche nei casi di anomalie fetali, stupro, incesto, infezione da HIV o cancro alla cervice. L’ambiguità legislativa e la paura di ripercussioni legali spingono molti medici a rifiutare l'intervento, costringendo le donne a cercare soluzioni non sicure per la propria salute.

Il caso italiano: il problema dell'obiezione di coscienza

In Italia, l'interruzione volontaria di gravidanza (IVG) è regolamentata dalla legge 194 del 1978, che garantisce il diritto all'aborto entro i primi 90 giorni di gestazione e, in casi specifici, anche successivamente. Tuttavia, l'accesso effettivo a questo diritto è spesso ostacolato dall'elevato numero di medici che si avvalgono dell'obiezione di coscienza, prevista dall'articolo 9 della stessa legge.

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Secondo la Relazione annuale del Ministero della Salute sull'attuazione della legge 194, nel 2022 il 60,5% dei ginecologi si è dichiarato obiettore di coscienza, in lieve diminuzione rispetto al 63,6% dell'anno precedente. Le percentuali variano significativamente tra le regioni: si registrano picchi in Molise (90,9%) e Sicilia (81,5%), mentre le percentuali più basse si trovano in Valle d'Aosta (25,0%) e nella Provincia Autonoma di Trento (31,8%). Questa situazione ha portato a casi in cui interi ospedali non dispongono di medici non obiettori, rendendo di fatto impossibile l'accesso all'IVG in alcune strutture.

La legge 194 prevede che le strutture sanitarie pubbliche garantiscano l'effettiva possibilità di accesso all'IVG, anche in presenza di personale obiettore. Tuttavia, la mancanza di personale disponibile e l'assenza di misure efficaci per garantire questo diritto sollevano preoccupazioni sulla reale applicazione della legge e sull'accesso equo ai servizi di aborto in tutto il territorio nazionale.