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Home » Attualità » Mahjabin Hakimi, la 18enne decapitata dai talebani perché era stata una pallavolista della nazionale

Mahjabin Hakimi, la 18enne decapitata dai talebani perché era stata una pallavolista della nazionale

Costrette ad abbandonare i campi sportivi, a stare chiuse in casa ad aspettare che i talebani arrivino a stanarle, una per una, per punirle. È il destino delle atlete afghane che non sono riuscite a fuggire dal loro paese e ora rischiano di morire per la loro passione

Sofia Francioni
21 Ottobre 2021
epa09414570 An Afghan burqa-clad women from northern provinces stands near her shelter after she fled from her home due to the fighting between Taliban and Afghan security forces, in a public park in Kabul, Afghanistan, 14 August (issued 15 August). The Taliban captured Mazar-i-Sharif, the country's fourth-largest city and the government's last major stronghold in the north on 14 August, as they tightened their grip on the country and closed in on Kabul. Most of the remote districts of the provinces have already fallen to the Taliban in the past three months.  EPA/HEDAYATULLAH AMID

epa09414570 An Afghan burqa-clad women from northern provinces stands near her shelter after she fled from her home due to the fighting between Taliban and Afghan security forces, in a public park in Kabul, Afghanistan, 14 August (issued 15 August). The Taliban captured Mazar-i-Sharif, the country's fourth-largest city and the government's last major stronghold in the north on 14 August, as they tightened their grip on the country and closed in on Kabul. Most of the remote districts of the provinces have already fallen to the Taliban in the past three months. EPA/HEDAYATULLAH AMID

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Si chiamava Mahjabin Hakimi, aveva 18 anni, era una giovane pallavolista della nazionale junior dell’Afghanistan ed è stata decapitata dai talebani. Ma il terrore per lei, come per le altre donne che praticavano sport e che non sono riuscite a fuggire dal Paese, è cominciato mesi prima, perché i talebani una volta saliti al potere prima le hanno cacciate dai campi sportivi, poi le hanno costrette a rinchiudersi in casa e, solo a quel punto, nell’ombra e nell’isolamento, hanno cominciato a cercarle una a una per punirle, ucciderle e decapitarle. Mahjabin Hakimiè stata assassinata a inizio ottobre: in casa. Ma i suoi genitori non hanno fatto trapelare la notizia a causa delle minacce dei talebani.

Finché il silenzio è stato rotto, quasi un mese dopo, dall’allenatrice dell’atleta che, sotto pseudonimo, ha raccontato al quotidiano britannico The Indipendent che da agosto “i taleban hanno cercato di identificare le atlete; in particolare quelle della nazionale di pallavolo, perché in passato hanno gareggiato in competizioni internazionali trasmesse anche dalla televisione”. Con le fotografie dei loro volti, per gli studenti coranici trovarle e ucciderle è stato infatti più semplice.

Hakimi giocava nel Kabul Municipality Volleyball Club, la squadra della capitale. Soltanto due delle sue compagne sono riuscite a fuggire “prima che i taleban prendessero il controllo di Kabul”. Adesso, tutte le sue compagne rischiano di fare la stessa fine. La coach ha infatti confermato che sono in corso perquisizioni “casa per casa”. Tanto che le ragazze stanno cercando di cancellare qualsiasi traccia, bruciando divise e scarpe, del loro passato da sportive. Formalmente in Afghanistan il divieto di praticare sport in pubblico non esiste. Ma il vicepresidente della “Commissione culturale”, Ahmadullah Wasiq, nei giorni scorsi ha spiegato che “non è necessario” per le donne fare attività sportiva, in particolare in pubblico. Sotto le mentite spoglie della raccomandazione, l’imposizione si dimostra spietata: i militanti contattano le famiglie, ordinano di proibire alle figlie di fare sport, se non vogliono pagare “conseguenze molto serie e violenze inaspettate” e poi cercano quelle che in passato hanno intrapreso questa strada, esponendosi.

Un salto indietro di mezzo secolo, perché già negli anni Settanta c’erano a Kabul squadre di pallavolo, e poi di calcio, cricket e altri sport. Tanto che la nazionale di volley è stata fondata quarant’anni fa. “Non vogliamo che altre facciano la stessa fine”, dichiara alla Bbc Zahra Fayazi, per sette anni titolare nella nazionale afghana e in contatto con le atlete rimaste intrappolate nel Paese: “Hanno cambiato casa, si sono trasferite in altre province per sfuggire alla caccia dei taleban – ha raccontato -. Molte hanno bruciato le loro tute, l’abbigliamento sportivo, per salvare se stesse e le proprie famiglie. Sono spaventate a morte e cercano di cancellare tutto quello che ricorda lo sport”.

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  • Aumentano, purtroppo, gli episodi di bullismo e cyberbullismo. 

I minori vittime di prepotenze nella vita reale, o che le abbiano subite qualche volta sono il 54%, contro il 44% del 2020. Un incremento significativo, di ben 10 punti, che deve spingerci a riflettere. 

Per quanto riguarda il cyber bullismo, il 31% dei minori ne è stato vittima almeno una volta, contro il 23% del 2020. Il fenomeno sembra interessare più i ragazzi delle ragazze sia nella vita reale (il 57% dei maschi è stato vittima di prepotenze, contro il 50% delle femmine) sia in quella virtuale (32% contro 29%). Nel 42% si tratta di offese verbali, ma sono frequenti anche violenze fisiche (26%) e psicologiche (26%).

Il 52% è pienamente consapevole dei reati che commette se intraprende un’azione di bullismo usando internet o lo smartphone, il 14% lo è abbastanza, ma questo non sembra un deterrente. Un 26%, invece, dichiara di non saperne nulla della gravità del reato. Intervistati, con risposte multiple, sui motivi che spingono ad avere comportamenti di prepotenza o di bullismo nei confronti degli altri, il 54% indica il body shaming. 

Mentre tra i motivi che spingono i bulli ad agire in questo modo, il 50% afferma che così dimostra di essere più forte degli altri, il 47% si diverte a mettere in ridicolo gli altri, per il 37% il bullo si comporta in questo modo perché gli piace che gli altri lo temano.

Ma come si comportano se assistono a episodi di bullismo? Alla domanda su come si comportano i compagni quando assistono a queste situazioni, solo il 34% risponde “aiutano la vittima”, un dato che nel 2020 era il 44%. 

Un calo drastico, che forse potrebbe essere spiegato con una minore empatia sociale dovuta al distanziamento sociale e al lockdown, che ha impedito ai minori di intessere relazioni profonde. Migliora, invece, la percentuale degli insegnanti che, rendendosi conto di quanto accaduto, intervengono prontamente (46% contro il 40% del 2020). Un 7%, però, dichiara che i docenti, sebbene si rendano conto di quanto succede, non fanno nulla per fermare le prepotenze.

I giovanissimi sono sempre più iperconessi, ma sono ancora in grado di legarsi?

#lucenews #giornatacontroilbullismo
  • “Non sono giorni facilissimi, il dolore va e viene: è molto difficile non pensare a qualcosa che ti fa male”. Camihawke, al secolo Camilla Boniardi, una delle influencer più amate del web si mette ancora una volta a nudo raccontando le sue insicurezze e fragilità. In un post su Instagram parla della tricodinia. 

“Se fosse tutto ok, per questa tricodinia rimarrebbe solo lo stress come unica causa e allora dovrò modificare qualcosa nella mia vita. Forse il mio corpo mi sta parlando e devo dargli ascolto."

La tricodinia è una sensazione dolorosa al cuoio capelluto, accompagnata da un bruciore o prurito profondo che, in termini medici, si chiama disestesia. Può essere transitoria o diventare cronica, a volte perfino un gesto quotidiano come pettinarsi o toccarsi i capelli può diventare molto doloroso. Molte persone – due pazienti su tre sono donne – lamentano formicolii avvertiti alla radice, tra i follicoli e il cuoio capelluto. Tra le complicazioni, la tricodinia può portare al diradamento e perfino alla caduta dei capelli. 

#lucenews #lucelanazione #camihawke #tricodinia
  • Dai record alle prime volte all’attualità, la 65esima edizione dei Grammy Awards non delude quanto a sorprese. 

Domenica 5 febbraio, in una serata sfavillante a Los Angeles, la cerimonia dell’Oscare della musica della Recording Academy ha fatto entusiasmare sia per i big presenti sia per i riconoscimenti assegnati. 

Intanto ad essere simbolicamente premiate sono state le donne e i manifestanti contro la dittatura della Repubblica Islamica: “Baraye“, l’inno delle proteste in Iran, ha vinto infatti il primo Grammy per la canzone che ispira cambiamenti sociali nel mondo. Ad annunciarlo dal palco è stata nientemeno che  la first lady americana Jill Biden.

L’autore, il 25enne Shervin Hajipour, era praticamente sconosciuto quando è stato eliminato dalla versione iraniana di American Idol, ma la sua canzone è diventata un simbolo delle proteste degli ultimi mesi in Iran evocando sentimenti di dolore, rabbia, speranza e desiderio di cambiamento. Hajipour vive nel Paese in rivolta ed è stato arrestato dopo che proprio questo brano, a settembre, è diventata virale generando oltre 40 milioni di click sul web in 48 ore.

#lucenews #grammyawards2023 #shervinhajipour #iran
Si chiamava Mahjabin Hakimi, aveva 18 anni, era una giovane pallavolista della nazionale junior dell'Afghanistan ed è stata decapitata dai talebani. Ma il terrore per lei, come per le altre donne che praticavano sport e che non sono riuscite a fuggire dal Paese, è cominciato mesi prima, perché i talebani una volta saliti al potere prima le hanno cacciate dai campi sportivi, poi le hanno costrette a rinchiudersi in casa e, solo a quel punto, nell'ombra e nell'isolamento, hanno cominciato a cercarle una a una per punirle, ucciderle e decapitarle. Mahjabin Hakimiè stata assassinata a inizio ottobre: in casa. Ma i suoi genitori non hanno fatto trapelare la notizia a causa delle minacce dei talebani. Finché il silenzio è stato rotto, quasi un mese dopo, dall'allenatrice dell'atleta che, sotto pseudonimo, ha raccontato al quotidiano britannico The Indipendent che da agosto "i taleban hanno cercato di identificare le atlete; in particolare quelle della nazionale di pallavolo, perché in passato hanno gareggiato in competizioni internazionali trasmesse anche dalla televisione". Con le fotografie dei loro volti, per gli studenti coranici trovarle e ucciderle è stato infatti più semplice. Hakimi giocava nel Kabul Municipality Volleyball Club, la squadra della capitale. Soltanto due delle sue compagne sono riuscite a fuggire "prima che i taleban prendessero il controllo di Kabul". Adesso, tutte le sue compagne rischiano di fare la stessa fine. La coach ha infatti confermato che sono in corso perquisizioni "casa per casa". Tanto che le ragazze stanno cercando di cancellare qualsiasi traccia, bruciando divise e scarpe, del loro passato da sportive. Formalmente in Afghanistan il divieto di praticare sport in pubblico non esiste. Ma il vicepresidente della "Commissione culturale", Ahmadullah Wasiq, nei giorni scorsi ha spiegato che "non è necessario" per le donne fare attività sportiva, in particolare in pubblico. Sotto le mentite spoglie della raccomandazione, l'imposizione si dimostra spietata: i militanti contattano le famiglie, ordinano di proibire alle figlie di fare sport, se non vogliono pagare "conseguenze molto serie e violenze inaspettate" e poi cercano quelle che in passato hanno intrapreso questa strada, esponendosi. Un salto indietro di mezzo secolo, perché già negli anni Settanta c'erano a Kabul squadre di pallavolo, e poi di calcio, cricket e altri sport. Tanto che la nazionale di volley è stata fondata quarant'anni fa. "Non vogliamo che altre facciano la stessa fine", dichiara alla Bbc Zahra Fayazi, per sette anni titolare nella nazionale afghana e in contatto con le atlete rimaste intrappolate nel Paese: "Hanno cambiato casa, si sono trasferite in altre province per sfuggire alla caccia dei taleban - ha raccontato -. Molte hanno bruciato le loro tute, l'abbigliamento sportivo, per salvare se stesse e le proprie famiglie. Sono spaventate a morte e cercano di cancellare tutto quello che ricorda lo sport".
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