
Una ragazza agita le chiavi durante una manifestazione contro i femminicidi: il senso è che "l’assassino ha le chiavi di casa"
Giugno è appena iniziato e l’elenco delle donne morte per mano di uomini che dicevano di amarle si è già allungato. Piera Ulivelli è stata uccisa a Empoli dal marito, che poi ha tentato il suicidio. Mary Bonanno è stata freddata a Castelvetrano, ancora una volta dal marito. Elena Belloli è stata ammazzata a colpi di pistola in provincia di Bergamo e anche in questo caso a colpirla è stato l’uomo che aveva sposato. Sueli Leal Barbosa si è lanciata dal quarto piano di un palazzo a Milano per sfuggire all’incendio che il compagno avrebbe appiccato. Storie. Vite. Tragedie. E questi sono solo alcuni dei nomi che si aggiungono a una lista che non dovrebbe esistere. Ma che invece cresce, si aggiorna.
E allora, di fronte all’ennesima donna uccisa, ci si accorge che non basta più il dolore. Non bastano le lacrime, le fiaccolate, gli slogan sussurrati o gridati. Non basta più nemmeno il conteggio dei corpi, perché mentre i numeri si sommano nel silenzio degli archivi o nelle pagine dei giornali, sui social, nei bar, nei salotti, nei commenti sotto le notizie, sui social, pare consolidarsi una narrazione tossica, pericolosa, inquietante: quella della negazione.
Succede ogni giorno. È sufficiente aprire un post di cronaca, leggere un titolo che racconta l’ennesima violenza di genere – quella di un marito, un ex, un amante, un figlio – e lì, sotto, accanto a commenti di rabbia e cordoglio, ecco apparire le solite frasi. “Non è femminicidio, è un omicidio come gli altri”, “sono pochi”, “solo una minoranza degli uomini è violenta”, “e le donne che uccidono?”, “e i padri separati?”. Come se la violenza potesse essere bilanciata da una contabilità cinica. Come se ogni volta si dovesse dimostrare che le donne non muoiono abbastanza per meritare attenzione.
Ma questa non è solo ignoranza. È una vera e propria resistenza culturale. È il rifiuto, collettivo e maschile – e troppo spesso anche femminile – di riconoscere l’esistenza di un problema strutturale. Di accettare che l’uccisione delle donne da parte degli uomini non sia una tragica coincidenza, non sia frutto di “raptus”, né di una statistica impazzita. È, invece, la punta estrema di una piramide solida, costruita nel tempo, alimentata da modelli culturali, linguaggi, educazione, immagini, silenzi e complicità.
Perché se è vero che, negli ultimi vent’anni, gli omicidi in Italia sono calati in modo nettissimo, i femminicidi no. Restano stabili. Anzi, in alcuni anni aumentano. E la costante, che i dati confermano anno dopo anno, è che a uccidere le donne non sono sconosciuti, né mostri isolati. In oltre l’80 per cento dei casi sono i partner, gli ex partner, gli uomini di casa, gli amici, i conoscenti. Uomini comuni. Uomini “normali”. Uomini che talvolta erano già stati denunciati. O che troppo spesso vengono descritti come “insospettabili”.
Il femminicidio non è un’eccezione. È il punto di arrivo di una società che continua a tollerare, giustificare, edulcorare la violenza maschile. Una società che insegna agli uomini il diritto al possesso, alla rabbia, al controllo. Che insegna alle donne a temere, a giustificare, a minimizzare. È una cultura che chiama amore quello che è dominio, che chiama gelosia quello che è controllo, che chiama errore quello che è crimine.
E ogni volta che qualcuno prova a nominare il patriarcato, a denunciare la violenza strutturale, a chiedere un cambiamento, ecco che scatta il contrattacco: “non tutti gli uomini”, “anche gli uomini subiscono violenza”. Ma non si tratta di accusare “tutti”. Si tratta di riconoscere che troppi uomini continuano a considerare le donne come una loro proprietà. E che troppi altri, pur non colpendo con le mani, colpiscono con le parole, con l’indifferenza, con la derisione.
Perché ogni volta che si scrive “sono casi isolati”, ogni volta che si condivide un meme che ridicolizza il femminismo, ogni volta che si sposta il discorso sulla “parità” per non parlare della violenza, si contribuisce a creare quell’humus in cui la violenza si nutre e prolifera.
Non possiamo più permetterci di essere neutrali. Non è più sufficiente indignarsi dopo. Bisogna iniziare prima. Prima che una donna venga uccisa. Prima che chieda aiuto e non venga creduta. Prima che l’ennesimo “non aveva mai dato segnali” diventi l’alibi di un altro silenzio collettivo.
Bisogna reagire. Nominare. Denunciare. Combattere ogni giorno la banalizzazione, la rimozione, la complicità. Bisogna difendere le parole, ridare loro peso. Dire con chiarezza che il femminicidio è un problema maschile. Che non si risolve con il garantismo, con le percentuali, con l’aritmetica. Si risolve con un cambiamento culturale radicale, che comincia dall’educazione, passa per i media, attraversa la politica, coinvolge tutti e tutte.
E allora, se ci chiediamo cosa fare, da dove partire, la risposta è semplice e scomoda: si parte dalle parole. Dal coraggio di dire che sì, esiste una responsabilità collettiva maschile nella violenza contro le donne. Che ogni “non tutti gli uomini” è un modo per spostare il discorso e non affrontarlo. Che ogni commento che minimizza, nega, svia, è già parte della violenza. Chi nega, è complice. Chi minimizza, è parte del problema. Chi resta in silenzio, sta scegliendo da che parte stare.