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Nicoletta Sipos: "Vi racconto la Seconda guerra mondiale attraverso gli occhi di un bambino tedesco"

La scrittrice: "Quando è stata invasa l'Ucraina, Putin ha portato in campo i medesimi argomenti di Hitler: è stato come assistere a un film già visto"

di CATERINA CECCUTI -
25 gennaio 2023
Nicoletta Sipos

Nicoletta Sipos

Nicoletta Sipos, giornalista e scrittrice, ha vissuto in Ungheria, in Germania e negli Stati Uniti, prima di raggiungere Milano e lì restare. Alle sue spalle c'è mezzo secolo di esperienza in quotidiani e settimanali come "Il Giorno", "Avvenire" e "Chi", sul quale firma tutt'oggi la pagina dei libri “come alibi per continuare a leggere e per incontrare scrittori fantastici”. Ma, soprattutto, Nicoletta Sipos è madre di quattro figli e nonna di sei nipoti, ed è proprio per il profondo rispetto che nutre nei confronti di questo ruolo familiare che sente forte la necessità di tramandare alle nuove generazioni gli insegnamenti provenienti dal nostro passato collettivo. Il suo “La guerra di H” (Piemme), un romanzo fortemente ispirato a fatti realmente accaduti, l'autrice indaga in maniera del tutto nuova e appassionante un momento drammatico, decisivo della storia del nostro continente: la Seconda guerra mondiale. A raccontare l'ascesa e la disfatta del Nazismo è stavolta la voce di un bambino tedesco, che riporta con semplicità e veracità le molte sofferenze patite dal suo popolo durante il conflitto scatenato da Hitler, focalizzando l'attenzione del lettore sul drammatico paradigma che accomuna chiunque si trovi a vivere sulla propria pelle una guerra: la sofferenza. Pagine toccanti, le sue, tanto più intense perché impregnate di fatti reali, emozioni provate e sentite dai protagonisti e condivise da quanti, anche adesso, si trovano coinvolti in un conflitto armato. Sipos sottolinea il ruolo della memoria collettiva come strumento potente per non commettere gli stessi errori. "Imparai poco alla volta – scrive il piccolo Heinrich Stein, protagonista del romanzo - che nel nostro strano paese – fiero di essere tedesco ma retto da un austriaco, un vagabondo che sognava di diventare pittore e che invece era finito in politica – la verità aveva più volti con infinite sfumature". Un libro, "La guerra di H", in cui i fatti storici e tutte le umane miserie che ne conseguono, vengono presentati in maniera comunque godibile alla lettura, grazie a una narrazione rapida e ritmata che appassiona indiscutibilmente il lettore.
La cover del romanzo "La guerra di H"

La cover del romanzo "La guerra di H"

Perché una storia così e perché ora? “Ho incontrato il protagonista di questa mia storia molto tempo fa, addirittura negli anni '50, ossia in un'epoca che portava ancora gli strascichi della guerra. Diventammo amici, parlammo di Hitler e della miseria della Germania. Poco per volta, via via che ci incontravamo, lui aggiungeva ricordi, dettagli, confessioni. Come quando, per esempio, ripensò a quella volta in cui sua madre si trovava sul balcone a stendere la biancheria, e la vicina di casa le disse: 'Oh Dio! L'America è entrata in guerra contro di noi, che siamo già in guerra con la Russia. Questa per noi è la fine!'. Heinrich mi ha fatto conoscere aspetti sconosciuti di quel popolo che siamo abituati a considerare completamente cattivo. Invece l'impatto della guerra sulle persone qualunque è stato devastante per i tedeschi che non hanno avuto scelta, che non avrebbero mai voluto scontrarsi con l'America, né andare combattere in Russia. Per anni ho portato dentro di me la testimonianza di questa storia che, mano mano, si arricchiva sempre più di dettagli. Molte volte avrei voluto scriverla, magari a quattro mani con il mio amico, ma lui non se la sentiva, portava dentro di sé ferite ancora troppo vive. Io stessa esitavo ad affrontare questa storia che racconta una famiglia tedesca in forte sofferenza in una Germania ferita e umiliata. Una storia così contraria a quella dei cattivi tedeschi colpevoli di troppi stermini”. Cosa le ha fatto cambiare idea? “Lo scoppio della guerra in Ucraina, l'utilizzo da parte di Putin dei medesimi argomenti che aveva usato Hitler. È stato come vedere un film già visto, come trovarsi ad ammettere che non abbiamo imparato nulla dalla storia, che stiamo ripetendo tutti gli stessi errori. Fortuna vuole che stavolta si possa contare su elementi chiave come la Comunità europea, la Nato e l'Onu, capaci di bloccare l'incalzare del conflitto, e su un mondo che ormai è sempre più interconnesso. Ma resta il fatto che questa storia tedesca andava scritta. Spero anche di poter tornare nelle scuole e incontrare di nuovo i giovani per poterli aiutare a riflettere sul fatto che la guerra non è mai una soluzione, in quanto non genera vincitori né vinti, solo gente che soffre. Purtroppo, ormai, questa guerra va combattuta, paradossalmente proprio per dare un freno a possibili altre guerre. Ma resta il fatto che è terribile, è sbagliata, e sembra l'umanità sia ancora vittima di un ragionamento del passato”. Suo padre era ebreo. La sua famiglia, dal lato paterno, è stata vittima delle persecuzioni naziste. Eppure lei è riuscita a immedesimarsi nel popolo tedesco, quello che ha sofferto, quello che è stato vittima a sua volta di quella stessa follia totalitaria... “Ha ragione quando dice che mio padre era ebreo e che la parte paterna della mia famiglia ha sofferto molto negli anni delle persecuzioni. Ho scritto due libri dedicati alla Shoah, ma con 'La guerra di H' io voglio raccontare la storia per intero. La gente ha etichettato tutto il popolo tedesco durante il nazismo come crudele per antonomasia. Pare che la colpa di quello che è accaduto sia indistintamente di tutti i tedeschi, poco importa si tratti degli ufficiali in divisa processati a Norimberga o di bambini che semplicemente sono nati in Germania negli anni '30 e che, all'epoca della guerra, avevano appena sette o otto anni, come nel caso del mio protagonista. Non si pensa mai a quanto la gente comune abbia sofferto, alla fame e al freddo che anche il popolo tedesco ha patito. Sappiamo che sei milioni di ebrei sono stati sterminati da Hitler, ma non ricordiamo che sette milioni di tedeschi sono morti durante la guerra voluta da lui, e che altri tredici milioni sono stati costretti lasciare le loro case e i loro averi fuggendo, per esempio, dalla Germania dell’Est a Ovest, o lasciando i loro domicili in Polonia, Cecoslovacchia e altri paesi conquistati dal Führer. Quattro milioni di prigionieri di guerra tedeschi furono deportati dagli alleati per lavorare al servizio delle potenze vincitrici e ripagare i danni del conflitto. Molti di loro non tornarono a casa se non dopo molti anni dalla fine della guerra. Gli ultimi diecimila 'schiavi' tedeschi che si trovavano in Russia poterono rimettere piede in Germania solo nel 1956. La guerra ha portato ulteriori crudeltà. In alcuni casi sono state operate vere e proprie vendette ai danni del popolo tedesco, e con popolo intendo la gente comune, non gli ufficiali nazisti. Un esempio è il bombardamento di Dresda, nel febbraio del 1945, a opera degli aerei inglesi e statunitensi, che infierì ulteriormente su un paese già distrutto in cui, ormai, di fanatici ne erano rimasti ben pochi. Anche questa è storia ufficiale, e come tale andrebbe raccontata. Purtroppo chi ha molto sofferto non ne vuole parlare, con il risultato che, alla fine, i nostri giovani non vengono a conoscenza di tante cose”.
La giornalista e scrittrice Nicoletta Sipos (Instagram)

La giornalista e scrittrice Nicoletta Sipos (Instagram)

"La guerra di H" ha una fortissima componente storica, ma resta comunque un romanzo, estremamente scorrevole e godibile per i lettori. Le va di raccontarci qualcosa riguardo alla trama? “Heinrich Stein ha ancora nel cuore l’estate che ha trascorso sul Baltico. Era il 1938 e lui aveva sette anni. Era la prima volta che vedeva il mare ed era rimasto folgorato da tutta quella bellezza. Con un unico dispiacere: poter andare in spiaggia solo la mattina, perché di pomeriggio la costa era riservata ai nuovi aerei costruiti nella vicina base militare. In quella fatidica estate la guerra di Hitler si avvicinava a grandi passi anche se la maggioranza dei tedeschi non voleva capirlo e gli statisti europei si illudevano di poter scongiurare il ricorso alle armi. Dai ricordi di Heinrich, primogenito di una nidiata di cinque fratelli, emerge la vita quotidiana di una famiglia borghese, colta e razionale, che dà al nazismo un appoggio tiepido, senza però arrivare a contrastarlo. Ma l’invasione della Polonia cambia tutto. Mentre i militari passano di vittoria in vittoria, occupano spazi immensi, ottengono importanti trofei, per chi è rimasto a casa non sono giorni di festa. La gente ha fame e freddo e arrivano le prime notifiche di morte. Perfino il padre di Heinrich, uomo mite e illuminato, direttore di una fabbrica di aerei, pagherà un prezzo carissimo per un gesto di umanità. Si parla poco della miseria dei tedeschi durante e dopo la guerra, ma Heinrich Stein continua a pensarci anche da vecchio, schiacciato tra il senso di colpa collettivo e l’amarezza di avere troppo taciuto”. Lei ha pubblicato diversi romanzi di successo, tra cui, per citarne solo alcuni, "Il buio oltre la porta" (Sperling & Kupfer Editore), dove ha descritto le violenze domestiche all’interno di una buona famiglia della borghesia italiana, e "Perché no?", in cui indaga le problematiche legate alla fecondazione assistita. Non ultimo il libro "Colette". Un sogno audace, dedicato ad una scrittrice che riuscì ad essere “manager di se stessa” nella prima metà del '900. Insomma, da parte sua c'è e c'è sempre stata una forte attenzione per le tematiche connesse alla donna, all'emancipazione della sua condizione sociale e ai problemi che nel corso della storia ha dovuto affrontare pur di raggiungerla. Ma quali sono, secondo lei, i peggiori ostacoli che le giovani donne si trovano ad affrontare oggi? “Sono gli ostacoli di sempre. La società è rimasta patriarcale e maschilista. Mi basta guardare mia figlia o le mie amiche giovani, che si trovano davanti direttivi composti esclusivamente da uomini; oppure guardare ai nostri rappresentanti, sia in ambito politico che economico, per notare che esiste una carenza di donne competenti all'interno dei partiti e delle aziende. La donna ha sempre bisogno di giustificarsi e ha tutt'oggi difficoltà ad emergere. Ho ottant'anni, dunque è passato un bel po' di tempo da quando andavo al liceo. Ma il mio professore di latino e greco diceva sempre: 'Voi ragazze dovrete lavorare il doppio degli uomini per dimostrare quanto valete, probabilmente anche il triplo, per poter accudire la famiglia', e da allora le cose non sono cambiate. Forse è cambiato il fatto che le donne stiano finalmente cominciando a fare rete, e che stia iniziando a diffondersi un certo senso di sorellanza che ci porta istintivamente ad aiutarci una con l'altra, come d'altronde gli uomini hanno sempre fatto, raggruppandosi in club e società sportive. C'è bisogno di aiutare di più le quote rosa: molti le contestano ma indubbiamente ci hanno aiutato”.
La giornalista e scrittrice Nicoletta Sipos (Instagram)

La giornalista e scrittrice Nicoletta Sipos (Instagram)

Ascoltando le sue parole mi viene in mente un articolo firmato oltre un secolo fa Cristina di Belgiojoso sulle pagine di "Nuova Antologia", nel quale si faceva riferimento al fatto che l'emancipazione e il riscatto della donna nella società avrebbe dovuto prima di tutto essere accettato e promosso dalle donne stesse, troppo spesso impaurite dal cambiamento e schiave di una tradizione che le relegava al ruolo di angelo del focolare... “Cristina di Belgiojoso era una ribelle, una rivoluzionaria, una pioniera capace di vedere con chiarezza il presente e il futuro. E quello che diceva è molto giusto: dobbiamo essere noi donne, per prime, a voler cambiare le cose. Ammetto che quando i miei quattro figli erano piccoli prima di decidermi a fare un viaggio per il giornale per cui scrivevo ci pensavo non una ma ben tre volte, pur di non lasciare soli mio marito e i figli. Oggi come ieri le donne faticano più degli uomini nella professione: Virginia Woolf mi ha sempre commosso perché cercava una stanza dove poter stare. Harriet Beecher Stowe, autrice de 'La capanna dello zio Tom', proveniva da una famiglia molto religiosa ed era rispettosa delle convenzioni. La sua vita è stata costellata di disgrazie e aveva avuto diversi figli, ma la notte trovava comunque il modo di mettersi a scrivere sul tavolo della cucina, augurandosi che qualcuno prima o poi venisse a riparare quell'insopportabile perdita del rubinetto che le dava tanto ai nervi. La donna che abbia inteso emanciparsi ha sempre e comunque dovuto fare i conti con una società che non l'aiuta. Tutt'oggi è così. In Italia la decrescita demografica dipende secondo me anche dal fatto che le famiglie sono costrette a fare i salti mortali per tirare avanti. Non esistono sconti per l'assunzione di baby sitter, per esempio: se te la puoi permettere lavori, se no stai a casa. E questo non aiuta le donne ad evolversi e a formarsi, né le famiglie a crescere. In altri paesi la situazione è diversa. Già una ventina di anni fa, parlando con un'amica polacca, ho scoperto che dalle sue parti gli asili nidi offrivano al bisogno anche un servizio dopo scuola che arrivava a coprire persino la notte. Interventi come questo hanno permesso di innalzare il tasso di natalità in Polonia”. Come commenta la proposta di cancellare dalla storia certi episodi - come la tratta degli schiavi - per evitare che bambini e studenti entrino a contatto con esempi di discriminazione violenta? E come commenta l'atteggiamento in essere da parte delle grandi produzioni internazionali di Cartoon di voler “rimediare” a certe ingiustizie storiche, modificando fatti e costumi del passato nelle proprie rappresentazioni? “Penso che sia una follia, una ricetta sbagliata, orribile e ipocrita che temo combinerà solo pasticci. Non si può cancellare quello che è stato, si può caso mai raccontarlo sottolineando l'errore, dimostrando che adesso quella discriminazione non esiste più. Cento anni fa le donne erano angeli del focolare, per scrivere le proprie storie erano costrette a usare pseudonimi maschili, questa è la storia. L'Olocausto è esistito, la tratta degli schiavi è esistita, questa è la storia. Non parlare di ciò che è stato è folle e non rappresenta la base per un'educazione sana. Ho sei nipoti, la più piccola dei quali ha appena tre anni, e quando riscontro nei cartoni animati o altrove questo atteggiamento ipocrita mi preoccupo profondamente. Bisogna avere il coraggio di guardare al passato e riconoscere gli errori per non ripeterli”.