Perché le quote rosa sono ancora necessarie, spiegato con una metafora

Avvocata, femminista e podcaster: Camilla Guidotti combatte il “soffitto di cristallo” nelle aziende e nei tribunali. “Se nessuno si occupa dei diritti delle minoranze, saremo tutti minoranza”

di MIRKO DI MEO
2 giugno 2025
Camilla Guidotti

Camilla Guidotti

Avvocata (sì, con la A), femminista e da poco anche podcaster: Camilla Guidotti è tutto questo e molto di più. Sui social si definisce un “Aquario multipotenziale”, una riserva inesauribile di energia e idee, sempre alla ricerca di nuovi stimoli e ossessioni da coltivare. Parlarle significa lasciarsi travolgere dalla sua passione per la giurisprudenza e per la vita, che – alla fine della conversazione – comprendi essere due facce di una stessa medaglia.

Il diritto, per l’avvocata Guidotti, è un fatto concreto, perché consente di agire nel mondo in direzione dell’altro. Il femminismo, allo stesso modo, non è solo una teoria, ma una pratica: una forma di attivismo quotidiano. “Ho scelto di difendere persone che magari non hanno voce – racconta – persone appartenenti a minoranze. Anche io, in quanto donna, faccio parte di una minoranza. Ma riconosco il mio privilegio: sono cisgender, eterosessuale. Non l’ho scelto, ma sono consapevole che se cammino per mano con un ragazzo nessuno mi grida contro o mi aggredisce. So che posso scegliere se adottare o avere figli naturalmente – anche se non sempre posso decidere liberamente di non averne” (ride). “Il privilegio mi ha sempre spinto a sentirmi un’alleata, a sostenere le lotte delle altre minoranze. Perché sono anche le nostre lotte. Se nessuno si occupa dei diritti delle minoranze, alla fine, saremo tutti minoranza. È una questione di solidarietà”.

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Il suo lavoro si estende anche alle aziende, con progetti di formazione sulla parità di genere. Ma cosa significa, in concreto, portare il femminismo in un’azienda?

“Innanzitutto – precisa subito – parità di genere significa intraprendere un percorso culturale. È chiaro che ci sono vantaggi fiscali e reputazionali, ma la base dev’essere il cambiamento culturale. Un’azienda che si interessa a questi temi lavora meglio. Noi non vogliamo distribuire coccarde o fare pink washing”.

Quando si parla di parità, spesso si incontra resistenza o scetticismo, come mai?

“La prima reazione è sempre una forma di minimizzazione: ‘Ma che diritti vi mancano? Di cosa vi lamentate?’ Queste domande nascono da una mancanza di consapevolezza. Ma sono i numeri a parlare: in Italia solo il 4% delle donne occupa posizioni di Ceo, contro una media europea del 7%. Eppure, il 63% delle donne si laurea in corso con una media tra 104 e 110. Dove vanno tutte queste donne? La risposta è il famoso ‘soffitto di cristallo’, quella barriera invisibile ma reale che impedisce alle donne di avanzare, anche a parità – o superiorità – di merito. A volte si finge che nel lavoro non esista una discriminazione di genere, ma è una menzogna. Pensa ai colloqui di lavoro: quante volte ti hanno chiesto se vuoi avere figli o se sei sposato? A me e a tante altre donne capita regolarmente, e una risposta affermativa diventa un ostacolo”.

La maternità, in ambito lavorativo, è ancora un fattore penalizzante.

“Una donna incinta è vista come un costo. Il congedo di paternità obbligatorio è di 10 giorni. Risultato? Il patriarcato vince: è più conveniente assumere un uomo in età fertile, perché se diventa padre, costa meno. E sono spesso le stesse donne a pensarla così. Pensa a Elisabetta Franchi, che dichiarò di assumere solo donne che avevano già ‘fatto i quattro giri di boa’. Come se a 40 anni non si potesse più diventare madri!” (ride).

Sul posto di lavoro, durante le formazioni, è mai stata vittima di episodi di sessismo?

“Durante i workshop in azienda per fortuna no, anche perché sono momenti collettivi, tuttavia il sessismo sa essere sottile. Mi è capitato in un convegno universitario sull’influencer marketing, dove ero l’unica donna, giovane, tra professori e avvocati uomini. La moderatrice si rivolgeva a tutti con il titolo: ‘avvocato’, ‘dottore’, e poi a me semplicemente ‘Camilla’”.

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Come ha reagito?

“Con gentilezza, ma fermezza: ho detto che nel quotidiano sono Camilla, ma in quel contesto ero anche un’avvocata. Non è la prima volta che succede. Quando vado in tribunale con un collega uomo, tutti si rivolgono a lui. Anche quando accompagno un cliente uomo, l’avvocato della controparte spesso si rivolge a lui, non a me. L’ambiente legale è ancora molto maschile nella cultura, anche se le donne avvocate e magistrate sono tantissime”.

Perché fatichiamo ad accettare le donne al potere?

“La leadership femminile ha bisogno di essere raccontata e riconosciuta. È necessario avere dei modelli, delle storie di riferimento”.

Come funziona la certificazione di parità di genere?

“Si parte da una radiografia dell’azienda, una valutazione del livello di ‘compliance’ rispetto a una serie di KPI – Key Performance Indicators – che misurano equità retributiva, benessere organizzativo, governance. Valutiamo dati sia quantitativi (quante donne in CDA? C’è un gender pay gap?) sia qualitativi (c’è consapevolezza? È stata fatta formazione?). In base ai dati, si calcola uno score: un punteggio che indica la probabilità che l’azienda ottenga la certificazione. Il punteggio minimo è 60. Ma da lì parte il lavoro vero: elaboriamo policy aziendali su parità, cura parentale, gestione delle segnalazioni. Formiamo le persone su tanti aspetti, come il confine sottile tra un complimento e una molestia”.

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Ha una scadenza la certificazione?

“Una volta individuati gli ambiti su cui intervenire, accompagniamo l’azienda fino al momento dell’audit, cioè la verifica da parte dell’ente certificatore. A quel punto l’azienda arriva preparata, con un bagaglio solido; tuttavia la certificazione va mantenuta. Come per le stelle Michelin, può essere tolta. Quindi bisogna monitorare e aggiornare costantemente politiche e prassi”.

È qui che si smaschera il pink washing: sul lungo termine si capisce chi lo fa solo per lo sgravio fiscale e chi invece ci crede davvero.

“Esatto. È come mettersi a dieta a giugno perché a luglio c’è la prova costume. La parità, come la salute – personale o aziendale che sia – va costruita nel tempo. Se inizi un percorso di certificazione solo perché un cliente te lo richiede e hai fretta di ottenere la targhetta, magari ci arrivi, ma poi non riesci a mantenerla. Se invece ci arrivi per gradi, con consapevolezza, allora diventa un processo sostenibile anche nel lungo termine”.

Cosa direbbe a chi ostacola le quote rosa?

“Le quote rosa sono un tema divisivo perché molte persone effettivamente non sanno che sono uno strumento di discriminazione positiva. Pongono una categoria svantaggiata in una condizione di vantaggio per un periodo temporaneo. Quindi è questo che bisogna sottolineare: la temporaneità della misura”.

Molti criticano le quote rosa perché mancano di meritocrazia.

“Le quote rosa si inseriscono perfettamente nel discorso della differenza tra equità e uguaglianza. L’uguaglianza ci vuole tutti allo stesso piano, ma non siamo tutti allo stesso piano. Ed è lì che interviene l’equità. L’equità fa sì che le persone che partono da un livello svantaggiato possano essere messe nella condizione di partire allo stesso punto delle altre. È il medesimo criterio delle borse di studio. C’è un’immagine che utilizzo sempre per spiegare la differenza tra uguaglianza ed equità: è una staccionata molto alta, e al di qua della staccionata ci sono due persone; al di là, c’è uno spettacolo magnifico. Una persona è alta un metro e novanta e quindi riesce a vedere lo spettacolo senza problemi. Un’altra persona è alta un metro e venti: come fa a vedere lo spettacolo? Le viene messo uno sgabello. Quello sgabello lì sono le quote rosa”.

E viva gli sgabelli.

“Eh, viva gli sgabelli!”

Lei si occupa anche di formazione sui social, ha un grande seguito su Instagram e TikTok e ha da poco creato un podcast, com’è nata l’idea?

“Partirei dal nome. Il mio podcast si chiama Codice delle relazioni, espressione ironica che unisce due aspetti che per me sono molto importanti: relazioni e legge”.

In effetti le relazioni hanno molto a che fare con il diritto e il potere.

“Il diritto e le relazioni hanno in comune il fatto che entrambi si fondano su delle regole di base. Solo che quelle del diritto sono scritte, mentre quelle delle relazioni – ahimè – non lo sono e sarebbe molto bello se lo fossero” (ride). “In chiave ironica e anche un po’ fantasiosa, mi pongo nell’ottica di dire: se i comportamenti disfunzionali delle relazioni, come il ghosting, fossero degli illeciti, ci comporteremmo nello stesso modo? Faremmo ghosting se sapessimo che è un illecito e che è sanzionato dal nostro ordinamento?”

Chi è stata la prima persona a cui lo hai detto?

“La mia psicologa. Dopo l’ennesima seduta in cui continuavamo a parlare dei miei ‘casi umani’, lei quasi esasperata mi ha detto: ‘Insomma basta, Camilla, mi parli sempre delle stesse cose! Ma parlami di qualcos’altro, sono certa che nella tua vita c’è qualcos’altro. Cosa stai facendo in questo periodo?’ E io le ho detto: ‘Sto scrivendo un podcast’. E lei era contenta, finalmente le introducevo un nuovo topic. ‘Grande! Di cosa parla questo podcast?’ Io non sapevo come dirle che parlava di relazioni. Ha riso e poi in realtà mi ha anche chiesto di mandarle il link per ascoltarlo”.

Come sta andando il podcast?

“Bene, sono contenta. Sto ricevendo un sacco di feedback positivi. Tra l’altro, qua fuori prima di vederti, ho incontrato una mia ex collega di università che mi ha detto che ha ascoltato il podcast e che l’ha girato a una sua amica che in questo periodo sta subendo love-bombing da una sua frequentazione. Mi fa molto ridere perché io l’ho iniziato in chiave ironica e anche un po’ autoterapeutica, per tirare fuori quello che avevo dentro. Volevo esorcizzare ciò che ho passato a livello relazionale. Adesso ci scherzo, ma ho sofferto moltissimo. Quindi mi fa piacere sentire che può essere utile anche a qualcuno, magari anche solo per strappare una risata oppure far sentire una compartecipazione a un sentimento”.

La condivisione.

“Esatto, ‘non sono da sola’, ci sono altre persone che hanno vissuto queste esperienze”.