La vera questione dietro al volo spaziale di Katy Perry è un’altra

Blue Origin ha inviato sei celebrità in un volo suborbitale di 11 minuti, promosso come “girl power”. Ma tra costi ambientali elevati e marketing di facciata, emerge l’ipocrisia del “women washing” e l’urgenza di giustizia climatica

di ARNALDO LIGUORI
18 aprile 2025
Sul volo spaziale c'erano Katy Perry, Lauren Sánchez, Gayle King, Aisha Bowe, Amanda Nguyen e Kerianne Flynn

Sul volo spaziale c'erano Katy Perry, Lauren Sánchez, Gayle King, Aisha Bowe, Amanda Nguyen e Kerianne Flynn

L’ultima missione di Blue Origin, l’azienda spaziale di Jeff Bezos, è riuscita perfettamente nel suo intento: far parlare di sé. Non per una nuova scoperta scientifica, né per una tecnologia innovativa, ma per aver lanciato un equipaggio tutto al femminile nello spazio, o meglio, nella sua versione edulcorata: un volo suborbitale di 11 minuti. A bordo della capsula New Shepard c’erano la popstar globale Katy Perry, la giornalista e fidanzata di Bezos Lauren Sánchez, il volto storico della televisione americana Gayle King, l’ingegnera aerospaziale Aisha Bowe, l’attivista dei diritti civili Amanda Nguyen e la produttrice cinematografica Kerianne Flynn.

Il viaggio, partito dalla base di lancio nel Texas occidentale il 14 aprile 2025, è stato celebrato come un “momento storico per le donne nello spazio”. Il punto, però, non è chi sono queste donne, ma perché sono finite lì. Nessuna di loro è stata selezionata attraverso un programma spaziale istituzionale. Nessuna missione scientifica, nessuna raccolta dati, nessun esperimento a bordo. Sono state scelte per il loro valore mediatico: quasi un carosello travestito da empowerment.

Eh sì, dopo un volo di 11 minuti, al suo ritorno Katy Perry ha baciato il suolo terrestre
Eh sì, dopo un volo di 11 minuti, al suo ritorno Katy Perry ha baciato il suolo terrestre

Dietro il sipario, però, ci sono i numeri. I costi di un volo come questo si aggirano sui 50 milioni di dollari: un investimento giustificabile se associato a una missione della Nasa o dell’Esa, ma difficilmente sostenibile quando il fine è solo quello di immortalare celebrità in assenza di gravità. E poi c’è il prezzo ambientale. Un solo lancio suborbitale rilascia nella stratosfera quantità significative di CO2, ossidi di azoto e fuliggine.

In altre parole: mentre milioni di persone combattono ogni giorno contro le conseguenze del cambiamento climatico, qualcun altro si diverte a fare turismo spaziale in nome del “girl power”. Ma il femminismo non ha niente a che fare col mandare delle VIP in orbita per 11 minuti. Il femminismo è garantire che milioni di donne possano accedere all’istruzione, alla salute, ai diritti. Non trasformare un razzo in una sfilata.

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Questa è la ricorrente retorica svuotata di contenuto, un “women washing” che sfrutta la parità di genere come leva di marketing. Un gesto che, nonostante i tentativi di confezionarlo bene, è stato smascherato in zero secondi: alcune celebrità, tra cui Olivia Munn ed Emily Ratajkowski, hanno criticato pubblicamente l'iniziativa, definendola “opulenta” e scollegata dalla realtà. Le loro voci si sono aggiunte a un crescente coro di scettici – e milioni di meme – che, da tempo, denunciano la tendenza delle grandi aziende tech a promuovere un attivismo di facciata. Come dire: “Ah e così anche Bezos, dopo aver costruito un impero sul commercio globale e l’iperconsumo, ci offre la sua redenzione sotto forma di voli spaziali inclusivi?”.

Dopo il lancio di Blue Origin, vallo a spiegare all’uomo della strada perché deve fare la differenziata, usare una cannuccia di carta e pagarsi il sacchettino di plastica in cui mette la frutta al supermercato.

E questo non è un caso isolato. È il sintomo di una tendenza più grande: Taylor Swift, per dirne una, è stata recentemente accusata – con dati alla mano – di aver effettuato oltre 170 voli in jet privato in un solo anno, per un totale di 8.293 tonnellate di CO2. La risposta? “L’aereo è prestato ad altri”, come se l’anidride carbonica sapesse distinguere tra un proprietario e un ospite.

Ma il punto è un altro. Il punto è che la giustizia climatica è intrinsecamente legata alla disuguaglianza economica. E ancora una volta sono i dati a parlare: primo, negli ultimi dieci anni gli eventi climatici estremi in Italia sono decuplicati; secondo, il 10 per cento più ricco della popolazione – e in proporzione ancora di più l’1 per cento – produce circa la metà delle emissioni, mentre il 90 per cento più povero subisce il 97 per cento dei danni prodotti dalle catastrofi naturali.

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Non siamo pronti ad affrontare questi eventi. Serve un piano di adattamento al cambiamento climatico, ma soprattutto servono soldi. Non si può combattere la crisi climatica senza una ridistribuzione delle ricchezze. È impossibile attrezzare le nostre città contro nubifragi, allagamenti, incendi, siccità, mareggiate o frane senza dispiegare le risorse detenute oggi da una piccola minoranza privata. Una minoranza che in virtù del proprio patrimonio può difendersi facilmente dagli effetti del clima e che, pertanto, ha meno urgenza di altri nel combattere contro il riscaldamento globale.

Alla fine, quindi, il problema non è il volo. Non sono gli 11 minuti in assenza di gravità, né le foto patinate delle VIP in orbita. Il punto è un sistema che prende un’emergenza realela crisi climatica – e la riconfeziona in contenuti da Instagram. È l’ennesima dimostrazione che chi detiene il potere economico non ha alcun interesse a cambiare davvero le cose, ma solo a sembrare dalla parte giusta della storia. Intanto, mentre i jet privati decollano e i razzi si moltiplicano, il resto del mondo si arrangia tra alluvioni, caro energia e desertificazione. E il paradosso è tutto qui: chi ha i mezzi per salvarsi, li usa per fuggire; chi non li ha, resta a fare i conti con le conseguenze.