Dalla Francia arriva la rivoluzione dei “terzi luoghi”. Cosa sono e perché farebbero bene anche qui

Tiers lieux: oltralpe sono oltre 3.500 con più di 150mila lavoratori coinvolti. Né casa né lavoro, sono luoghi aperti, accessibili a persone di ogni estrazione sociale, creativi, orizzontali

di DOMENICO GUARINO
18 aprile 2025
I terzi luoghi sono realtà di incontro, scambio, arte, nightlife

I terzi luoghi sono realtà di incontro, scambio, arte, nightlife

Si chiamano “terzi luoghi” (tiers-lieux), in Francia sono oltre 3.500 ad oggi (ma in aumento) distribuiti su tutto il territorio, con più di 150.000 lavoratori coinvolti, e stanno trasformando radicalmente il mondo della cultura e del lavoro. Si tratta di luoghi aperti e comunitari, sempre terzi rispetto ad alla dicotomia casa-lavoro, ma anche veri e propri motori di sviluppo economico e rigenerazione locale. Non semplici coworking o spazi per eventi culturali, insomma, ma anche spazi erogatori di servizi fondamentali, anche per chi vive ai margini: il Fawa, ad esempio, alla periferia di Parigi, che sei giorni su sette accoglie persone senza fissa dimora e nel fine settimana si trasforma in un teatro e live club, autofinanziandosi con 12 ore settimanali di musica.

Il nome “third places” deriva in realtà dal mondo anglosassone, con un significato leggermente diverso. Nel 1989, Ray Oldenburg, nel libro “The great good place” aveva parlato di “posti”/”spazi” terzi come distinti da casa (primo) e lavoro (secondo), ma si riferiva inizialmente a bar, pub, locali, parrucchieri, biblioteche, centri religiosi, centri sportivi, parchi. Nell’approccio francese il concetto si amplia dal termine “posto/spazio” a quello di “luogo”, ma anche con un maggiore riferimento forte alla dimensione identitaria territoriale.

In Francia “tiers lieux” lungi dall’essere ostacolati e osteggiati, sono al centro delle politiche culturali, tanto che Il 27 agosto 2021, il Primo Ministro francese Jean Castex, a Caen, ha annunciato un piano nazionale di sostegno con un finanziamento complessivo di 130 milioni di euro, di cui metà provenienti dal Plan Relance (l’equivalente del nostro PNRR), la cui attuazione è affidata al Ministero della Coesione dei Territori e Relazione con le collettività territoriali, anche come motore per riattivare paesi, borghi e periferie dimenticate: Il 62% dei tiers-lieux francesi si trova infatti fuori dalle grandi città, il 34% in aree rurali.

Luoghi aperti, accessibili a persone di ogni estrazione sociale, creativi, orizzontali. I terzi luoghi come detto sono dei motori di innovazione sociale e culturale, in cui la parola chiave è ‘scambio’ e ‘comunità’. Ma se state pensando alle Comuni attive negli anni Sessanta Settanta siete abbondantemente fuori strada: i terzi luoghi offrono una visione molto concreta di futuro, capace di coniugare cultura, coesione sociale e sostenibilità. Si tratta infatti anche di un motore per l’occupazione culturale: l’81% a tempo indeterminato il 70% donne.

Un modello virtuoso che sta cambiando anche le regole della nightlife culturale: grazie infatti ad investimenti in insonorizzazione e a normative chiare sull’impatto acustico, questi luoghi riescono a mantenere attiva la vita notturna rispettando il benessere dei residenti. In molti club, un display mostra in tempo reale i decibel, con soglie massime fissate a 102dBa e 118dBc. I dati vengono registrati e possono essere consultati dalla prefettura, a garanzia della trasparenza.

E in Italia? Al momento gli esempi sono pochi, come il Cinema Troisi e l’Alcazar Live, entrambi a Roma. Il primo, dopo anni di abbandono, è oggi uno spazio polifunzionale che ospita una programmazione culturale un’aula studio aperta h24. L’Alcazar Live è un ex cinema di Trastevere, che si è trasformato in un vivacissimo hub culturale in cui convivono concerti, performance teatrali ed esposizioni artistiche.

Secondo lo studio Open Impact dell’Università Tor Vergata, ogni euro investito in questi genera oltre quattro euro di ritorno sociale, ambientale ed economico. Ce ne sarebbe d’avanzo perché la politica nostrana ci ‘buttasse un occhio’. Ma, si sa, in Italia c’è ancora chi è convinto che ‘con la cultura non si mangia’.