
I ventenni di oggi si affacciano al mondo del lavoro con ansia e un senso di inadeguatezza
“Cosa vuoi fare da grande?”, chiede la maestra il primo giorno di scuola, subito dopo il nome e il cognome. Ed è così che, con ancora in mano macchinine e bambole, si è già chiamati a immaginare un universo lontano, quasi astratto, per un bambino: il mondo del lavoro. Le prime risposte sono le più fantasiose, spesso improvvisate: qualcuno vuole fare l’astronauta (ammettiamolo, chi non ha avuto almeno un compagno o una compagna astronauta alle elementari?), gettonato anche il veterinario, mentre qualche eroe o eroina si propone come maestra. Dal primo giorno di scuola comincia una lunga corsa a ostacoli orientata all’utile, e non all’arricchimento personale - che invece dovrebbe essere la base dell’istruzione. Ogni tappa del percorso è funzionale alla successiva, in una catena che ha come premio, per i più bravi, dicono, un buon posto di lavoro. Le elementari preparano alle medie, le medie alle superiori: tutto costruito come le fondamenta di un futuro professionale.
L’ultimo anno delle medie si trasforma in una caccia alla scelta “più conveniente”, come al mercato. Nuovi indirizzi, scuole sperimentali, percorsi rimodulati: l’obiettivo resta sempre lo stesso, formare il lavoratore ideale di domani. Si arriva al diploma, alla soglia dei vent’anni: mentre si studia per la maturità, nella testa iniziano a farsi spazio domande più grandi, come “che cosa farò dopo?”. C’è chi sente di aver chiuso con lo studio e sceglie, coraggiosamente, di buttarsi nel mondo del lavoro, lo stesso mondo per cui ci hanno allenati fin da bambini. E poi c’è chi si interroga su quale strada seguire: “Devo inseguire quello che mi piace (o che penso mi possa piacere), o scegliere una facoltà che prometta più stabilità?”. Nel frattempo, si affollano anche le voci esterne – genitori, parenti, amici – con i loro consigli, spesso non richiesti: “Trova qualcosa che sia ben retribuito, comodo, e con tante ferie, se possibile”.
Tra i banchi dell’università, qualcuno il mondo del lavoro lo ha già conosciuto: c’è chi ha ripreso a studiare dopo anni, sentendo il bisogno di completarsi, e chi lavora per mantenersi gli studi, finendo però per non avere davvero il tempo per studiare. C’è anche chi semplicemente non sa ancora dove sta andando, e si ritrova a chiedersi, con un po’ di vertigine, cosa farà della sua vita. Forse, chi ha vent’anni oggi al lavoro ci ha già pensato fin troppo, per tutta la vita. Siamo cresciuti e abbiamo studiato non in funzione di ciò che ci piacesse, o che potesse farci sentire completi, ma di ciò che potesse renderci lavoratori migliori, quando, paradossalmente, non sapevamo nemmeno cosa fosse, il mondo del lavoro. E nemmeno chi pretendeva di insegnarcelo.
Viviamo in un mondo che corre più veloce di noi, delle nostre previsioni e di quelle di chiunque altro, tra nuove tecnologie, crisi climatiche e squilibri globali. E, alzando gli occhi dai libri, sembra davvero che non ci sia spazio per tutti, al diavolo la meritocrazia. Offerte di lavoro sottopagate che richiedono anni e anni di esperienza, il mito della gavetta, tirocini non retribuiti, precarietà cronica e un futuro con un punto di domanda. A vent’anni la parola “lavoro” fa rima con “paura”, “ansia”, “incertezza”, “inadeguatezza”. E per qualcuno anche “molestia”. Ci hanno abituati a correre, senza fermarci mai, senza sbagliare mai. Ora, il peso di una società che appare al collasso ci sta schiacciando, ancor prima che riusciamo a costruire davvero le basi del nostro futuro, in una Repubblica democratica “fondata sul lavoro”.