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Home » HP Blocco Viola (in evidenza) » Non è mai troppo tardi per avere una nuova opinione

Non è mai troppo tardi per avere una nuova opinione

Parlare di diversità significa parlare di tutti, perché tutti ci siamo sentiti diversi, almeno una volta, e ne abbiamo avuto paura. La sfida è trovare linguaggi nuovi per raccontare quella diversità

Agnese Pini
15 Aprile 2021
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Dal giorno in cui è nata l’idea di creare uno spazio digitale dedicato alla diversità e all’inclusione, ho pensato a lungo a che cosa significassero davvero per me queste parole.

Ho pensato a tutte le innumerevoli volte in cui per esempio io stessa mi ero sentita diversa, fuori posto, inadeguata, esclusa.

Ho imparato che per dare una forma riconoscibile a ciò che scriviamo, dobbiamo ricondurla a qualcosa che corrisponda a immagini autenticamente nostre. In caso contrario il trucco si vede e chi legge si accorge immediatamente dell’artificio, del vuoto che le parole possono lasciarsi dietro, e portarsi dentro, quando non siano profondamente vere. Enzo Biagi, citando una diciassettenne Natalia Ginzburg, diceva: «Dire la verità. Solo così nasce l’opera d’arte».

E allora la prima cosa che mi viene in mente è che il senso di diversità io lo associo alla paura. Ricordo che, molto piccola, erano gli anni ’80, avevo paura degli ambulanti senegalesi che vendevano borse e occhiali in spiaggia, sul mare di Marina di Carrara dove andavo con i miei. Ne avevo paura proprio in virtù del fatto che fossero neri: il loro essere così neri in quella spiaggia di bianchi lasciava la me di quattro anni decisamente angosciata. Ricordo che lo dissi a mio padre che avevo quell’angoscia, e glielo dissi mettendoci sopra una domanda, non esplicita, ma che stava a galleggio su ogni sillaba: perché mi fanno così paura? Mio padre mi prese molto sul serio, e credo che ci pensò un po’ su prima di rispondere. Infine mi rispose con un’altra domanda: mi chiese se avessi paura dei miei fratelli. Ne ho due, un fratello e una sorella per la precisione, entrambi più grandi di me, entrambi adottati. Sono peruviani, di Cusco. Hanno la pelle scura. Non scura come gli ambulanti senegalesi, ma decisamente scura: più marrone che nera. Non ebbi bisogno di rifletterci: certo che non avevo paura dei miei fratelli. «Lo vedi? – disse allora mio padre – gli ambulanti ti fanno paura solo perché non li conosci».
Crescendo ho ripensato più volte a quella risposta, arrivando a un certo punto a convincermi che se era vero che abbiamo paura solo di ciò che non conosciamo, allora sarebbe bastato conoscere tutto per non avere più paura di nulla.

Sembra così semplice. Sembra.

Resta un fatto: e cioè che il senso di che cosa è diversità, e di conseguenza di che cosa è inclusione, arriva da un desiderio che sempre inevitabilmente ci sfugge e a cui sempre inevitabilmente tendiamo: quello di essere come tutti. Ci ha scritto sopra un saggio-romanzo Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, e porta per incipit un’altra frase della straordinaria Ginzburg: «Di diversità e solitudine, e di desiderio di essere come tutti, è fatta la nostra infelicità e tuttavia sentiamo che tale infelicità forma la sostanza migliore della nostra persona ed è qualcosa che non dovremmo perdere mai».

Nessuno di noi può affermare di non essersi mai sentito diverso, almeno una volta, nella sua vita.

E allora uno spazio digitale dedicato alla diversità e all’inclusione (e alla coesione) parla alla fine semplicemente di ciascuno di noi. Di tutte le volte in cui ciascuno di noi ha desiderato di essere come tutti sentendosi invece in un lontano altrove, e ne ha avuto paura.

Diversi dunque siamo tutti, ma la sfida difficile e necessaria oggi è raccontare quella diversità in una chiave autentica, che possa comprenderci e farsi comprendere: unire, non dividere. Che faccia conoscere, che ci faccia conoscere, nella nostra pelle e nei nostri amori e nei nostri gusti e nelle nostre povertà e ricchezze e debolezze. Per non avere paura né di noi stessi, né degli altri. Né della nostra diversità, né di quella altrui. Che faccia luce.

Non a caso questo progetto editoriale si chiama così: Luce!
Ringrazio l’editore Andrea Riffeser Monti e la sua famiglia, ringrazio tutto il team digitale che si è dedicato al progetto. Quello che leggerete, vedrete, ascolterete su www.luce.news nasce dalla loro visione, dalla loro creatività, dal loro coraggio. E dalla passione di tutti i giornalisti, i fotografi, i videomaker, i grafici e art director che lavorano su questo progetto.

Non è mai troppo tardi per farsi una nuova opinione, non è mai troppo tardi per abbattere un pezzo della nostra paura. Se avete voglia di provarci con noi, venite a trovarci su Luce!

Buona lettura.

 

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  • Numerosi attori e musicisti di alto profilo si sono recati in Ucraina da quando è scoppiata la guerra con la Russia nel febbraio 2022. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’attore britannico Orlando Bloom, che ieri ha visitato un centro per bambini e ha incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Kiev.

“Non mi sarei mai aspettato che la guerra si sarebbe intensificata in tutto il Paese da quando sono stato lì”, ha detto Bloom su Instagram, “Ma oggi ho avuto la fortuna di ascoltare le risate dei bambini in un centro del programma Spilno sostenuto dall’Unicef, uno spazio sicuro, caldo e accogliente dove i bambini possono giocare, imparare e ricevere supporto psicosociale”.

Bloom è un ambasciatore di buona volontà per l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef). Il centro di Splino, che è uno dei tanti in Ucraina, offre sostegno ai bambini sfollati e alle loro famiglie, con più di mezzo milione di bambini che ne hanno visitato uno nell’ultimo anno.

La star hollywoodiana ha poi incontrato il presidente Zelensky, con cui ha trattato temi tra cui il ritorno dei bambini ucraini deportati in Russia, la creazione di rifugi antiatomici negli istituti scolastici e il supporto tecnico per l’apprendimento a distanza nelle aree in cui è impossibile studiare offline a causa della guerra. L’attore britannico aveva scritto ieri su Instagram, al suo arrivo a Kiev, che i «bambini in Ucraina hanno bisogno di riavere la loro infanzia».

#lucelanazione #lucenews #zelensky #orlandobloom
  • “La vita che stavo conducendo mi rendeva particolarmente infelice e se all’inizio ero entrata in terapia perché volevo accettare il fatto che mi dovessi nascondere, ho avuto poi un’evoluzione e questo percorso è diventato di accettazione di me stessa."

✨Un sorriso contagioso, la spensieratezza dei vent’anni e la bellezza di chi si piace e non può che riflettere quella luce anche al di fuori. La si potrebbe definire una Mulan nostrana Carlotta Bertotti, 23 anni, una ragazza torinese come tante, salvo che ha qualcosa di speciale. E non stiamo parlano del Nevo di Ota che occupa metà del suo volto. Ecco però spiegato un primo punto di contatto con Mulan: l’Oriente, dove è più diffusa (insieme all’Africa) quell’alterazione di natura benigna della pigmentazione della cute intorno alla zona degli occhi (spesso anche la sclera si presenta scura). Quella che appare come una chiazza grigio-bluastra su un lato del volto (rarissimi i casi bilaterali), colpisce prevalentemente persone di sesso femminile e le etnie asiatiche (1 su 200 persone in Giappone), può essere presente alla nascita o apparire durante la pubertà. E come la principessa Disney “fin da piccola ho sempre sentito la pressione di dover salvare tutto, ma forse in realtà dovevo solo salvare me stessa. Però non mi piace stare troppo alle regole, sono ribelle come lei”.

🗣Cosa diresti a una ragazza che ha una macchia come la tua e ti chiede come riuscire a conviverci?�
“Che sono profondamente fiera della persona che vedo riflessa allo specchio tutto i giorni e sono arrivata a questa fierezza dopo che ho scoperto e ho accettato tutti i miei lati, sia positivi che negativi. È molto autoreferenziale, quindi invece se dovessi dare un consiglio è quello che alla fine della fiera il giudizio altrui è momentaneo e tutto passa. L’unica persona che resta e con cui devi convivere tutta la vita sei tu, quindi le vere battaglie sono quelle con te stessa, quelle che vale la pena combattere”.

L’intervista a cura di Marianna Grazi �✍ 𝘓𝘪𝘯𝘬 𝘪𝘯 𝘣𝘪𝘰

#lucenews #lucelanazione #carlottabertotti #nevodiota
  • La salute mentale al centro del podcast di Alessia Lanza. Come si supera l’ansia sociale? Quanto è difficile fare coming out? Vado dallo psicologo? Come trovo la mia strada? La popolare influencer, una delle creator più note e amate del web con 1,4 milioni di followers su Instagram e 3,9 milioni su TikTok, Alessia Lanza debutta con “Mille Pare”, il suo primo podcast in cui affronta, in dieci puntate, una “para” diversa e cerca di esorcizzare le sue fragilità e, di riflesso, quelle dei suoi coetanei.

“Ho deciso di fare questo podcast per svariati motivi: io sono arrivata fin qui anche grazie alla mia immagine, ma questa volta vorrei che le persone mi ascoltassero e basta. Quando ho cominciato a raccontare le mie fragilità un sacco di persone mi hanno detto ‘Anche io ho quella para lì!’. Perciò dico parliamone, perché in un mondo in cui sembra che dobbiamo farcela da soli, io credo nel potere della condivisione”.

#lucenews #lucelanazione #millepare #alessialanza #podcast
  • Si è laureata in Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali indossando un abito tradizionale Crow, tribù della sua famiglia adottiva in Montana. Eppure Raffaella Milandri è italianissima e ha conseguito il titolo nella storica università Alma Mater di Bologna, lo scorso 17 marzo. 

La scrittrice e giornalista nel 2010 è diventata membro adottivo della famiglia di nativi americani Black Eagle. Da quel momento quella che era una semplice passione per i popoli indigeni si è focalizzata sullo studio degli aborigeni Usa e sulla divulgazione della loro cultura.

Un titolo di studio specifico, quello conseguito dalla Milandri, “Che ho ritenuto oltremodo necessario per coronare la mia attività di studiosa e attivista per i diritti dei Nativi Americani e per i Popoli Indigeni. La prima forma pacifica di attivismo è divulgare la cultura nativa”. L’abito indossato durante cerimonia di laurea appartiene alla tribù della sua famiglia adottiva. Usanza che è stata istituzionalizzata solo dal 2017 in Montana, Stato d’origine del suo popolo, quando è stata approvata una legge (la SB 319) che permette ai nativi e loro familiari di laurearsi con il “tribal regalia“. 

In virtù di questa norma, il Segretario della Crow Nation, Levi Black Eagle, a maggio 2022 ha ricordato la possibilità di indossare l’abito tradizionale Crow in queste occasioni e così Milandri ha chiesto alla famiglia d’adozione se anche lei, in quanto membro acquisito della tribù, avrebbe potuto indossarlo in occasione della sua discussione.

La scrittrice, ricordando il momento della laurea a Bologna, racconta che è stata “Una grandissima emozione e un onore poter rappresentare la Crow Nation e la mia famiglia adottiva. Ho dedicato la mia laurea in primis alle vittime dei collegi indiani, istituti scolastici, perlopiù a gestione cattolica, di stampo assimilazionista. Le stesse vittime per le quali Papa Francesco, lo scorso luglio, si è recato in Canada in viaggio penitenziale a chiedere scusa  Ho molto approfondito questo tema controverso e presto sarà pubblicato un mio studio sull’argomento dalla Mauna Kea Edizioni”.

#lucenews #raffaellamilandri #antropologia
Dal giorno in cui è nata l’idea di creare uno spazio digitale dedicato alla diversità e all’inclusione, ho pensato a lungo a che cosa significassero davvero per me queste parole. Ho pensato a tutte le innumerevoli volte in cui per esempio io stessa mi ero sentita diversa, fuori posto, inadeguata, esclusa. Ho imparato che per dare una forma riconoscibile a ciò che scriviamo, dobbiamo ricondurla a qualcosa che corrisponda a immagini autenticamente nostre. In caso contrario il trucco si vede e chi legge si accorge immediatamente dell’artificio, del vuoto che le parole possono lasciarsi dietro, e portarsi dentro, quando non siano profondamente vere. Enzo Biagi, citando una diciassettenne Natalia Ginzburg, diceva: «Dire la verità. Solo così nasce l’opera d’arte». E allora la prima cosa che mi viene in mente è che il senso di diversità io lo associo alla paura. Ricordo che, molto piccola, erano gli anni ’80, avevo paura degli ambulanti senegalesi che vendevano borse e occhiali in spiaggia, sul mare di Marina di Carrara dove andavo con i miei. Ne avevo paura proprio in virtù del fatto che fossero neri: il loro essere così neri in quella spiaggia di bianchi lasciava la me di quattro anni decisamente angosciata. Ricordo che lo dissi a mio padre che avevo quell’angoscia, e glielo dissi mettendoci sopra una domanda, non esplicita, ma che stava a galleggio su ogni sillaba: perché mi fanno così paura? Mio padre mi prese molto sul serio, e credo che ci pensò un po’ su prima di rispondere. Infine mi rispose con un’altra domanda: mi chiese se avessi paura dei miei fratelli. Ne ho due, un fratello e una sorella per la precisione, entrambi più grandi di me, entrambi adottati. Sono peruviani, di Cusco. Hanno la pelle scura. Non scura come gli ambulanti senegalesi, ma decisamente scura: più marrone che nera. Non ebbi bisogno di rifletterci: certo che non avevo paura dei miei fratelli. «Lo vedi? – disse allora mio padre – gli ambulanti ti fanno paura solo perché non li conosci». Crescendo ho ripensato più volte a quella risposta, arrivando a un certo punto a convincermi che se era vero che abbiamo paura solo di ciò che non conosciamo, allora sarebbe bastato conoscere tutto per non avere più paura di nulla. Sembra così semplice. Sembra. Resta un fatto: e cioè che il senso di che cosa è diversità, e di conseguenza di che cosa è inclusione, arriva da un desiderio che sempre inevitabilmente ci sfugge e a cui sempre inevitabilmente tendiamo: quello di essere come tutti. Ci ha scritto sopra un saggio-romanzo Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, e porta per incipit un’altra frase della straordinaria Ginzburg: «Di diversità e solitudine, e di desiderio di essere come tutti, è fatta la nostra infelicità e tuttavia sentiamo che tale infelicità forma la sostanza migliore della nostra persona ed è qualcosa che non dovremmo perdere mai». Nessuno di noi può affermare di non essersi mai sentito diverso, almeno una volta, nella sua vita. E allora uno spazio digitale dedicato alla diversità e all’inclusione (e alla coesione) parla alla fine semplicemente di ciascuno di noi. Di tutte le volte in cui ciascuno di noi ha desiderato di essere come tutti sentendosi invece in un lontano altrove, e ne ha avuto paura. Diversi dunque siamo tutti, ma la sfida difficile e necessaria oggi è raccontare quella diversità in una chiave autentica, che possa comprenderci e farsi comprendere: unire, non dividere. Che faccia conoscere, che ci faccia conoscere, nella nostra pelle e nei nostri amori e nei nostri gusti e nelle nostre povertà e ricchezze e debolezze. Per non avere paura né di noi stessi, né degli altri. Né della nostra diversità, né di quella altrui. Che faccia luce. Non a caso questo progetto editoriale si chiama così: Luce! Ringrazio l’editore Andrea Riffeser Monti e la sua famiglia, ringrazio tutto il team digitale che si è dedicato al progetto. Quello che leggerete, vedrete, ascolterete su www.luce.news nasce dalla loro visione, dalla loro creatività, dal loro coraggio. E dalla passione di tutti i giornalisti, i fotografi, i videomaker, i grafici e art director che lavorano su questo progetto. Non è mai troppo tardi per farsi una nuova opinione, non è mai troppo tardi per abbattere un pezzo della nostra paura. Se avete voglia di provarci con noi, venite a trovarci su Luce! Buona lettura.  
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