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Home » Economia » Gender Pay Gap, il divario salariale tra uomini e donne in Italia si spiega con un’equazione: “Più sei istruita e più sei discriminata”

Gender Pay Gap, il divario salariale tra uomini e donne in Italia si spiega con un’equazione: “Più sei istruita e più sei discriminata”

A parametri diversi corrispondono stime diverse: Eurostat calcola il divario sulla retribuzione oraria netta (5%), Jobpriciping su quella annuale lorda (11,5%). Ma quello che emerge, comunque, è che le donne, sul lavoro, sono pagate meno degli uomini. A fare la differenza? Solo il genere. Anzi, migliori sono i risultati negli studi e maggiore sarà la differenza nella paga. E con la pandemia il fenomeno – secondo la professoressa Maria Laura Di Tommaso – è destinato a peggiorare ancora

Sofia Francioni
25 Settembre 2021
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Si parla tanto di Gender Pay Gap, ma i numeri non tornano mai. Per l’ufficio statistico dell’Unione europea, meglio conosciuto come Eurostat, il differenziale retributivo tra uomini e donne in Italia è al 5%. Per l’Osservatorio Jobpricing, invece, all’11,5%.
Con il suo dato Eurostat, che basa i calcoli sulla media delle paghe orarie nette dei lavoratori italiani, ci dice che l’Italia – in Europa – si colloca tra i Paesi migliori per quanto riguarda il
Gender pay gap, dato che i peggiori attestano il differenziale al 20%. Mentre, se si considera il divario del 11,5% di Jobpriciping, che sceglie come parametro la retribuzione annuale lorda full time, l’Italia arranca in classifica. La distanza, di circa 7 punti percentuali, che fa schizzare il nostro Paese su e giù tra le classifiche europee e mondiali descrive però un’unica realtà: una sistematica discriminazione femminile sul posto di lavoro.

 

Come ci spiega la professoressa di economia Maria Laura Di Tommaso del dipartimento di Economia e Statistica “Cognetti de Martiis” dell’università di Torino: “Questi risultati così distanti tra di loro nascono essenzialmente da due modi diversi di calcolare il Gender pay gap: guardando gli stipendi al netto delle tasse o al lordo e distinguendo tra retribuzione oraria, mensile o annuale”. Di Tommaso, che da anni si occupa di economia di genere spendendosi attualmente nel divario retributivo che esiste nelle discipline matematiche (dove le donne sono particolarmente sottorappresentate), afferma di ritenere migliore il parametro del salario orario, come quello scelto da Eurostat, “perché mostra il differenziale retributivo spogliato da tanti fattori“. Detto questo – prosegue la professoressa – “seppur basso, in Italia il Gender pay gap resta: meno nel settore pubblico, perché c’è maggiore monitoraggio e tendenzialmente si applica il contratto del lavoro nazionale; più elevato nel settore privato”.

 

“In Italia il Gender Pay Gap si spiega solo con la discriminazione”

A fronte di questi dati, sorge spontanea una domanda: In Italia le lavoratrici sono pagate di meno perché lavorano meno, sono meno produttive o perché sono vittime di discriminazione? Sulla risposta Jobpricing, Eurostat e la professoressa Di Tommaso concordano: il pay gap fra i generi – che sia più o meno basso – è frutto esclusivamente di scelte discriminanti. “Quel 5% – afferma Di Tommaso – è spiegato soltanto dalla discriminazione perché, anche a parità di caratteristiche fra i lavoratori, il differenziale fra i salari resta. Anzi, dato che le donne sono più istruite degli uomini, dovrebbe esserci un gap a nostro favore“. Dal canto suo, l’Osservatorio conferma: “Stimando il gender pay gap a parità di caratteristiche fra i lavoratori (livelli di istruzione, esperienza, tipologia di impresa in cui si lavora, etc.) è possibile provare a vedere quanto il differenziale di genere sia giustificato dalle diverse caratteristiche tra uomini e donne o sia riconducibile a una vera e propria discriminazione. Utilizzando il metodo statistico della scomposizione di Oaxaca-Blinder emerge che, le lavoratrici, pur avendo in media caratteristiche migliori di quelle degli uomini, sono comunque pagate sensibilmente di meno dei colleghi. Il differenziale salariale di genere medio, quindi, è dovuto interamente a discriminazione”, concludono.

Sul fatto che le donne siano in media più istruite degli uomini, Almalaurea conferma: “Nell’ultimo anno le laureate sono state il 58,7% del totale e, secondo gli ultimi dati ufficiali del Miur, il fenomeno dell’abbandono scolastico investe maggiormente i ragazzi (il 3% delle ragazze contro il 4,6% dei ragazzi)”. Sempre secondo il Consorzio Interuniversitario pubblico, le donne ottengono, in media, valutazioni migliori degli uomini (voti superiori a 9 per il 43% delle ragazze contro il 31,7% dei ragazzi) e le percentuali di donne con titoli inferiori alla laurea sono andate progressivamente in diminuzione. Tuttavia, le donne laureate sono maggiormente concentrate nelle discipline umanistiche (80% di presenze nell’insegnamento, negli ambiti linguistico e psicologico) autoescludendosi, di fatto, dai percorsi Stem (scienze, tecnologie, ingegneria e matematica), che sono quelli che offrono migliore probabilità di impiego e le migliori prospettive di retribuzione.

Più studi più sei discriminata

Altra caratteristica del Gender pay gap italiano? È proporzionale al livello d’istruzione delle lavoratrici: più sei istruita, più sei discriminata in busta paga rispetto al tuo collega uomo. Guardando infatti il pay gap con lente dell’istruzione, osserviamo che per il gruppo delle non laureate il differenziale si attesta al 10,4%, mentre per quello delle laureate è al 30,4%: con la corona d’alloro la distanza risulta triplicata. Ai due estremi, infatti, vediamo che il gender pay gap minore riguarda chi ha un diploma di scuola professionale (5,4%) mentre il più alto chi ha un master di II livello (46,7%).

Laureate di serie B: il divario attraverso la lente dell’istruzione

Andando più nel dettaglio, secondo un’altra analisi, stavolta prodotta da LabItalia: “Tra le lauree triennali, il pay gap minore lo si osserva per il gruppo dei laureati in educazione fisica (4,7%), mentre quello maggiore tra i laureati del gruppo geo-biologico (26,9%). Passando alle lauree magistrali biennali: il pay gap minore rimane quello del gruppo dei laureati in educazione fisica (3%), mentre il più alto quello del gruppo di psicologia (16,2 %). Infine, tra le magistrali a ciclo unico, il pay gap inferiore è quello del gruppo medico (8,7%), mentre il più ampio è quello dei laureati in agraria e veterinaria (16,6%). Nelle professioni stupisce il dato che fornisce Sabrina Santaniello, presidentessa dell’Associazione nazionale dentisti italiani: “Nella nostra professione il gender pay gap sta aumentando sempre di più. In generale, una giovane collega guadagna il 58% in meno di un collega uomo”.

Dal 2018, in Islanda, pagare uomini e donne in maniera diversa in base al genere è considerato illegale. La legge – approvata in Parlamento dopo numerosi scioperi in cui le donne concludevano la giornata lavorativa con circa due ore e mezzo di anticipo ogni giorno, non lavorando le ore che rispetto ad un uomo non venivano effettivamente retribuite – obbliga le aziende a documentare come uomini e donne, a parità di caratteristiche, vengano pagati ugualmente e ad ottenere una certificazione che attesti la parità di trattamento in azienda.
Un’iniziativa che, lo chiediamo alla professoressa Di Tommaso, in Italia potrebbe funzionare? “In Italia bisogna iniziare a rendere pubblici i dati sulle differenze salariali all’interno di ciascuna azienda, pubblica o privata, come in Inghilterra, dove ogni azienda a fine anno deve pubblicare e rendere accessibile a tutti il salario medio delle donne e degli uomini per ogni qualifica lavorativa. Una politica di questo tipo, di monitoraggio, finirebbe per essere anche un incentivo, perché rende più trasparente quello che avviene dentro le aziende”.

“Dai nostri studi – conclude la professoressa Di Tommaso – abbiamo osservato che nella crisi economica del 2008 fino 2012 nel nostro Paese c’è stato un aumento del Gender pay gap, perché era stato approvato il cosiddetto congelamento del salario nel settore pubblico. Questo, a livello di differenziale di genere nella retribuzione, aveva avuto effetto perché da una parte nel settore pubblico ci sono per la maggior parte donne; dall’altra perché quel congelamento aveva delle ricadute particolarmente accentuate sul settore dell’istruzione, dove le donne sono più numerose. Quella misura, che voleva fronteggiare i problemi del bilancio pubblico, ha avuto una conseguenza molto negativa per il gender pay gap. Questo per dire che bisogna fare attenzione a quali politiche si applicano”.
Dunque, arrivando al presente: “Mi aspetto che ci sarà un aumento del
Gender pay gap in Italia, perché durante la pandemia molte più donne che uomini hanno dovuto prestare lavoro domestico e lavoro di cura, investendo di meno sul mercato del loro impiego”.

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  • Era il 1° febbraio 1945, quando la lotta per la conquista di questo diritto, partita tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, sulla scorta dei movimenti degli altri Paesi europei, raggiunse il suo obiettivo. Con un decreto legislativo, il Consiglio dei Ministri presieduto da Ivanoe Bonomi riconobbe il voto alle donne, su proposta di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi. 

Durante la prima guerra mondiale le donne avevano sostituito al lavoro gli uomini che erano al fronte. La consapevolezza di aver assunto un ruolo ancora più centrale all’interno società oltre che della famiglia, crebbe e con essa la volontà di rivendicare i propri diritti. Già nel 1922 un deputato socialista, Emanuele Modigliani aveva presentato una proposta di legge per il diritto di voto femminile, che però non arrivò a essere discussa, per la Marcia su Roma. Mussolini ammise le donne al voto amministrativo nel 1924, ma per pura propaganda, poiché in seguito all’emanazione delle cosiddette “leggi fascistissime” tra il 1925 ed il 1926, le elezioni comunali vennero, di fatto, soppresse. Bisognerà aspettare la fine della guerra perché l’Italia affronti concretamente la questione.

Costituito il governo di liberazione nazionale, le donne si attivarono per entrare a far parte del corpo elettorale: la prima richiesta dell’ottobre 1944, venne avanzata dalla Commissione per il voto alle donne dell’Unione Donne Italiane (Udi), che si mobilitò per ottenere anche il diritto di eleggibilità (sancito da un successivo decreto datato 10 marzo 1946). Si arrivò così, dopo anni di battaglie per il suffragio universale, al primo febbraio 1945, data storica per l’Italia. Il decreto prevedeva la compilazione di liste elettorali femminili distinte da quelle maschili, ed escludeva però dal diritto le prostitute schedate che esercitavano “il meretricio fuori dei locali autorizzati”.

Le elezioni dell’esordio furono le amministrative tra marzo e aprile del 1946 e l’affluenza femminile superò l’89%. 

#lucenews #lucelanazione #dirittodivoto #womenrights #1febbraio1945
  • La regina del pulito Marie Kondo ha dichiarato di aver “un po’ rinunciato” a riordinare casa dopo la nascita del suo terzo figlio. La 38enne giapponese, considerata una "Dea dell’ordine", con i suoi best seller sull’economia domestica negli ultimi anni ha incitato e sostenuto gli sforzi dei comuni mortali di rimettere in sesto case e armadi all’insegna del cosa “provoca dentro una scintilla di gioia”. Ma l’esperta di decluttering, famosa in tutto il mondo, ha ammesso che con tre figli da accudire, la sua casa è oggi “disordinata”, ma ora il riordino non è più una priorità. 

Da quando è diventata madre di tre bambini, ha dichiarato che il suo stile di vita è cambiato e che la sua attenzione si è spostata dall’organizzazione alla ricerca di modi semplici per rendere felici le abitudini di tutti i giorni: "Fino a oggi sono stata una organizzatrice di professione e ho dunque fatto il mio meglio per tenere in ordine la mia casa tutto il tempo”, e anche se adesso “ci ho rinunciato, il modo in cui trascorro il mio tempo è quello giusto per me in questo momento, in questa fase della mia vita”.

✍ Marianna Grazi 

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  • La second hand, ossia l’oggetto di seconda mano, è una moda che negli ultimi anni sta diventando sempre più un’abitudine dei consumatori. Accumulare roba negli armadi, nei cassetti, in cantina, non è più un disagio che riguarda soltanto chi soffre di disposofobia, ossia di chi è affetto da sindrome dell’accumulatore compulsivo. Se l’acquisto è l’unica azione che rende felice l’uomo moderno, non riuscire a liberarsene è la condanna di molti.

Secondo quanto emerge dall’Osservatorio Second-hand Economy 2021, realizzato da BVA Doxa per Subito.it, sono 23 milioni gli italiani che, nel 2021, hanno fatto ricorso alla compravendita di oggetti usati grazie alle piattaforme online. Il 52% degli italiani ha comprato e/o venduto oggetti usati, tra questi il 15% lo ha fatto per la prima volta. L’esperienza di compravendita online di second hand è quella preferita, quasi il 50% degli affari si conclude online anche perché il sistema di vendita è simile a un comune eCommerce: internet è il canale più veloce per quasi la metà dei rispondenti (49%), inoltre offre una scelta più ampia (43%) e si può gestire comodamente da casa (41%). Comprare second hand diventa una sana abitudine che attrae ogni anno nuove persone, è al terzo posto tra i comportamenti sostenibili più messi in atto dagli italiani (52%) – preceduto sempre dalla raccolta differenziata (94%) e l’acquisto di lampadine a LED (71%) –, con picchi ancora più alti di adozione nel 2021 da parte dei laureati (68%), di chi appartiene alla generazione Z (66%), di chi ha 35-44 anni (70%) e delle famiglie con bambini (68%). 

Ma perché concretamente si acquista l’usato? Nel 2021 le prime tre motivazioni che inducono a comprare beni usati sono: il risparmio (56%, in crescita di 6 punti percentuali rispetto al 2020), l’essere contrari agli sprechi e credere nel riuso (49%) e la convinzione che la second hand sia un modo intelligente di fare economia e che rende molti oggetti più accessibili (43%). 

✍E tu? Hai mai comprato accessori oppure oggetti di seconda mano? Cosa ne pensi?

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  • È iniziata come una sorta di sfida personale, come spesso accade tra i ragazzi della sua età, per testare le proprie capacità e resistenza in modo divertente. Poi però, per Isaac Ortman, adolescente del Minnesota, dormire nel cortile della sua casa è diventata una missione. 

“Non credo che la cosa finisca presto, potrei anche continuare fino all’università – ha detto il 14enne di Duluth -. È molto divertente e non sono pronto a smettere”. 

Tanto che ormai ha trascorso oltre 1.000 notti sotto le stelle. Il giovane, che fa il boy scout, come una specie di moderno Barone Rampante ha scoperto per caso il piacere di trascorrere le ore di sonno fuori dalle mura di casa, persino quando la temperatura è scesa a quadi 40 gradi sotto lo zero. Tutto è iniziato circa tre anni fa, nella baita della sua famiglia a 30 miglia da casa, diventando ben presto una routine notturna. Il giovane Ortman ricorda bene il giorno in cui ha abbandonato la sua camera da letto per un’amaca e un sacco a pelo, il 17 aprile 2020, quando era appena in prima media: “Stavo dormendo fuori dalla nostra baita e ho pensato: ‘Wow, potrei provare a dormire all’aperto per una settimana’. Così ho fatto e ho deciso di continuare”. 

“Non si stanca mai: ogni notte è una nuova avventura“, ha detto il padre Andrew Ortman, 48 anni e capo del suo gruppo scout. 

Sua mamma Melissa era un po’ preoccupata quella notte, lei e il padre gli hanno permesso di continuare la sua routine. “Sa che deve entrare in casa se qualcosa non va bene. Dopo 1.000 notti, ha la nostra fiducia. Da quando ha iniziato a farlo, è cresciuto sotto molti aspetti, e non solo in termini di statura”, dice orgogliosa. 

“Non lo sto facendo per nessun record o per una causa, mi sto solo divertendo. Ma con il ragazzo che dorme in Inghilterra, credo si possa dire che si tratta di una gara non ufficiale”, ha detto Isaac riferendosi all’adolescente inglese Max Woosey, che ha iniziato la sua maratona di sonno all’aperto il 29 marzo 2020, con l’obiettivo di raccogliere fondi per un ospedale che cura un suo anziano amico.

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Si parla tanto di Gender Pay Gap, ma i numeri non tornano mai. Per l'ufficio statistico dell'Unione europea, meglio conosciuto come Eurostat, il differenziale retributivo tra uomini e donne in Italia è al 5%. Per l'Osservatorio Jobpricing, invece, all'11,5%. Con il suo dato Eurostat, che basa i calcoli sulla media delle paghe orarie nette dei lavoratori italiani, ci dice che l’Italia – in Europa – si colloca tra i Paesi migliori per quanto riguarda il Gender pay gap, dato che i peggiori attestano il differenziale al 20%. Mentre, se si considera il divario del 11,5% di Jobpriciping, che sceglie come parametro la retribuzione annuale lorda full time, l’Italia arranca in classifica. La distanza, di circa 7 punti percentuali, che fa schizzare il nostro Paese su e giù tra le classifiche europee e mondiali descrive però un'unica realtà: una sistematica discriminazione femminile sul posto di lavoro.   Come ci spiega la professoressa di economia Maria Laura Di Tommaso del dipartimento di Economia e Statistica "Cognetti de Martiis" dell'università di Torino: "Questi risultati così distanti tra di loro nascono essenzialmente da due modi diversi di calcolare il Gender pay gap: guardando gli stipendi al netto delle tasse o al lordo e distinguendo tra retribuzione oraria, mensile o annuale". Di Tommaso, che da anni si occupa di economia di genere spendendosi attualmente nel divario retributivo che esiste nelle discipline matematiche (dove le donne sono particolarmente sottorappresentate), afferma di ritenere migliore il parametro del salario orario, come quello scelto da Eurostat, "perché mostra il differenziale retributivo spogliato da tanti fattori". Detto questo – prosegue la professoressa – "seppur basso, in Italia il Gender pay gap resta: meno nel settore pubblico, perché c’è maggiore monitoraggio e tendenzialmente si applica il contratto del lavoro nazionale; più elevato nel settore privato”.  

"In Italia il Gender Pay Gap si spiega solo con la discriminazione"

A fronte di questi dati, sorge spontanea una domanda: In Italia le lavoratrici sono pagate di meno perché lavorano meno, sono meno produttive o perché sono vittime di discriminazione? Sulla risposta Jobpricing, Eurostat e la professoressa Di Tommaso concordano: il pay gap fra i generi – che sia più o meno basso – è frutto esclusivamente di scelte discriminanti. "Quel 5% – afferma Di Tommaso – è spiegato soltanto dalla discriminazione perché, anche a parità di caratteristiche fra i lavoratori, il differenziale fra i salari resta. Anzi, dato che le donne sono più istruite degli uomini, dovrebbe esserci un gap a nostro favore". Dal canto suo, l'Osservatorio conferma: "Stimando il gender pay gap a parità di caratteristiche fra i lavoratori (livelli di istruzione, esperienza, tipologia di impresa in cui si lavora, etc.) è possibile provare a vedere quanto il differenziale di genere sia giustificato dalle diverse caratteristiche tra uomini e donne o sia riconducibile a una vera e propria discriminazione. Utilizzando il metodo statistico della scomposizione di Oaxaca-Blinder emerge che, le lavoratrici, pur avendo in media caratteristiche migliori di quelle degli uomini, sono comunque pagate sensibilmente di meno dei colleghi. Il differenziale salariale di genere medio, quindi, è dovuto interamente a discriminazione", concludono. Sul fatto che le donne siano in media più istruite degli uomini, Almalaurea conferma: "Nell'ultimo anno le laureate sono state il 58,7% del totale e, secondo gli ultimi dati ufficiali del Miur, il fenomeno dell'abbandono scolastico investe maggiormente i ragazzi (il 3% delle ragazze contro il 4,6% dei ragazzi)". Sempre secondo il Consorzio Interuniversitario pubblico, le donne ottengono, in media, valutazioni migliori degli uomini (voti superiori a 9 per il 43% delle ragazze contro il 31,7% dei ragazzi) e le percentuali di donne con titoli inferiori alla laurea sono andate progressivamente in diminuzione. Tuttavia, le donne laureate sono maggiormente concentrate nelle discipline umanistiche (80% di presenze nell’insegnamento, negli ambiti linguistico e psicologico) autoescludendosi, di fatto, dai percorsi Stem (scienze, tecnologie, ingegneria e matematica), che sono quelli che offrono migliore probabilità di impiego e le migliori prospettive di retribuzione.

Più studi più sei discriminata

Altra caratteristica del Gender pay gap italiano? È proporzionale al livello d'istruzione delle lavoratrici: più sei istruita, più sei discriminata in busta paga rispetto al tuo collega uomo. Guardando infatti il pay gap con lente dell’istruzione, osserviamo che per il gruppo delle non laureate il differenziale si attesta al 10,4%, mentre per quello delle laureate è al 30,4%: con la corona d'alloro la distanza risulta triplicata. Ai due estremi, infatti, vediamo che il gender pay gap minore riguarda chi ha un diploma di scuola professionale (5,4%) mentre il più alto chi ha un master di II livello (46,7%).

Laureate di serie B: il divario attraverso la lente dell'istruzione

Andando più nel dettaglio, secondo un'altra analisi, stavolta prodotta da LabItalia: "Tra le lauree triennali, il pay gap minore lo si osserva per il gruppo dei laureati in educazione fisica (4,7%), mentre quello maggiore tra i laureati del gruppo geo-biologico (26,9%). Passando alle lauree magistrali biennali: il pay gap minore rimane quello del gruppo dei laureati in educazione fisica (3%), mentre il più alto quello del gruppo di psicologia (16,2 %). Infine, tra le magistrali a ciclo unico, il pay gap inferiore è quello del gruppo medico (8,7%), mentre il più ampio è quello dei laureati in agraria e veterinaria (16,6%). Nelle professioni stupisce il dato che fornisce Sabrina Santaniello, presidentessa dell’Associazione nazionale dentisti italiani: "Nella nostra professione il gender pay gap sta aumentando sempre di più. In generale, una giovane collega guadagna il 58% in meno di un collega uomo". Dal 2018, in Islanda, pagare uomini e donne in maniera diversa in base al genere è considerato illegale. La legge – approvata in Parlamento dopo numerosi scioperi in cui le donne concludevano la giornata lavorativa con circa due ore e mezzo di anticipo ogni giorno, non lavorando le ore che rispetto ad un uomo non venivano effettivamente retribuite – obbliga le aziende a documentare come uomini e donne, a parità di caratteristiche, vengano pagati ugualmente e ad ottenere una certificazione che attesti la parità di trattamento in azienda. Un’iniziativa che, lo chiediamo alla professoressa Di Tommaso, in Italia potrebbe funzionare? "In Italia bisogna iniziare a rendere pubblici i dati sulle differenze salariali all’interno di ciascuna azienda, pubblica o privata, come in Inghilterra, dove ogni azienda a fine anno deve pubblicare e rendere accessibile a tutti il salario medio delle donne e degli uomini per ogni qualifica lavorativa. Una politica di questo tipo, di monitoraggio, finirebbe per essere anche un incentivo, perché rende più trasparente quello che avviene dentro le aziende". "Dai nostri studi – conclude la professoressa Di Tommaso – abbiamo osservato che nella crisi economica del 2008 fino 2012 nel nostro Paese c’è stato un aumento del Gender pay gap, perché era stato approvato il cosiddetto congelamento del salario nel settore pubblico. Questo, a livello di differenziale di genere nella retribuzione, aveva avuto effetto perché da una parte nel settore pubblico ci sono per la maggior parte donne; dall’altra perché quel congelamento aveva delle ricadute particolarmente accentuate sul settore dell’istruzione, dove le donne sono più numerose. Quella misura, che voleva fronteggiare i problemi del bilancio pubblico, ha avuto una conseguenza molto negativa per il gender pay gap. Questo per dire che bisogna fare attenzione a quali politiche si applicano". Dunque, arrivando al presente: "Mi aspetto che ci sarà un aumento del Gender pay gap in Italia, perché durante la pandemia molte più donne che uomini hanno dovuto prestare lavoro domestico e lavoro di cura, investendo di meno sul mercato del loro impiego".
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