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Giovani 'bamboccioni'? La realtà è diversa: in Italia è record di Neet ma la colpa non è loro

di DOMENICO GUARINO -
10 gennaio 2022
Bamboccioni-DX

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Qualcuno li definì, con un termine non particolarmente elegante, ‘bamboccioni’. Qualcun'altra ‘choosy’, viziati. Di certo sappiamo che i giovani italiani raggiungono più tardi l’autonomia dalla propria famiglia di origine rispetto al resto d’Europa: a fronte infatti di una media di 26,4 anni, la stima per l’Italia supera i 30 (30,2 nel 2020). Solo altri 4 paesi dell’Unione raggiungono tale soglia: Croazia (32,4 anni), Slovacchia (30,9), Malta (come l’Italia a 30,2) e Portogallo (30). In Francia e Germania l'età media stimata in cui i giovani lasciano la famiglia si colloca attorno ai 24 anni, 6 in meno rispetto al Belpaese. Inoltre, se nel 2019 viveva con i genitori circa la metà degli europei di età compresa tra 18 e 34 anni (50,4%), in Italia la quota sfiorava il 70%, contro il 40% in Francia e Germania. Nella fascia 16-29 anni, era addirittura dell’85,4% a fronte di una media europea del 69% (dati Eurostat). Di chi la colpa? È proprio vero che i nostri giovani sono dei comodoni, (‘gli sdraiati’ come li dipinse in un celebre libro Michele Serra), privi di risoluzione e di stimoli, perché in fondo se la passano troppo bene a casa e pertanto non hanno nessun motivo di uscirsene affrontando la vita reale? Indagare il motivo di tale attitudine senza scadere nelle facili psicologie del ‘mammismo’ atavico, che sarebbe insito nella nostra civiltà, rappresenta certamente un elemento di grande interesse perché ci permette di mettere in chiaro alcune tendenze molto radicate nel nostro Paese. E ci porta a scoprire che la realtà è molto più prosaica. Sono, infatti, per lo più le condizioni sociali ed economiche dei gruppi di provenienza e delle famiglie di appartenenza a determinare in maniera pesante la possibilità di uscire precocemente dal nucleo familiare affrontando in proprio la ‘sfida della vita’. Innanzitutto, sempre esaminando i dati Eurostat, appare evidente come siano soprattutto i Paesi dell'Europa orientale e meridionale a mostrare una maggiore permanenza dei giovani nel nucleo familiare di origine. Su questa dinamica possono incidere numerosi fattori, però l'accesso ai percorsi di istruzione e formazione, che è strettamente collegato alla quota di reddito individuale e familiare che può essere investita in questo specifico campo, riveste indubbiamente un ruolo fondamentale. Si rimane in famiglia il più delle volte perché non si vedono prospettive nel mondo esterno, ovvero quando ci si trova nella condizione che i sociologi identificano con l’acronimo NEET (Neither in Employment or in Education or Training), che sta ad indicare le persone, i giovani in particolare, che non studiano, non stanno seguendo alcun percorso di formazione e non lavorano. Tra questi la massima parte ha un livello di istruzione inferiore alla media, a conferma del fatto che l’abbandono precoce della scuola o la mancanza di formazione sono fattori decisivi nel compromettere l’autonomia futura delle giovani generazioni. Non è un caso che i Paesi con più giovani Neet siano generalmente anche quelli dove si abbandona più tardi il nucleo familiare. In questa speciale classifica l’Italia raggiunge addirittura la vetta. Nella fascia 15-29 anni, nel 2019, la quota di giovani italiani che non studiano e non lavorano è stata infatti del 22,2%, che è il dato più alto nell'Unione europea. Nel 2020 la percentuale è ulteriormente salita al 23,3%. Per avere un termine di paragone, si può pensare che in Grecia la percentuale è del 18,7%, in Bulgaria del 18,1%, in Spagna del 17,3% in e Romania del 16,6%. Ovviamente la media cela poi notevoli differenze territoriali, con le regioni meridionali a farla da padrone: in Sicilia la stima di giovani neet è del 37,5%, in Calabria del 34,6%, in Campania del 34,5%. Al vertice opposto della classifica troviamo Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Veneto. Parimenti l'incidenza dei giovani fuori dal mercato del lavoro e da qualsiasi percorso di formazione è più elevata tra le grandi città meridionali: Napoli (22,8%), Palermo (19,9%), Bari (15,2%), mentre di contro a Roma la quota è del 10,70%, Milano dell’8,10%, a Torino dell’11,20%. Nelle città poi sono i quartieri popolari, non a caso, a vedere una maggiore concentrazione di questa 'categoria' sociale. Ad esempio, nella Capitale, mentre nei quartieri Monte Sacro e Trieste la percentuale è del 6%, a Torre Angela, nella periferia orientale del comune, si raggiunge il 13,9%. A Milano si passa dal 12,2% di Quarto Oggiaro, al 5% di corso di Buenos Aires-Venezia.