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Home » Economia » “Il politicamente corretto cambia la pubblicità. Ma funziona solo se l’azienda ci crede davvero e agisce di conseguenza”

“Il politicamente corretto cambia la pubblicità. Ma funziona solo se l’azienda ci crede davvero e agisce di conseguenza”

Paolo Iabichino è uno dei principali creativi del settore: "La conversione risulta dannosa se abbracciata per consiglio o conformismo e magari il cda discrimina fra lavoratori". Il caso Usa dove schierarsi è una consuetudine. "In Italia stiamo riparando ai danni della corsa al perfezionismo del recente passato"

Giancarlo Ricci
22 Aprile 2021
Horizontal photo multiracial excited couple with adorable daughters sit in modern renovated kitchen on warm floor smile look at camera. New property owners, happy multicultural family portrait concept

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Paolo Iabichino è uno dei più importanti autori pubblicitari italiani

Definire Paolo Iabichino non è mai facile. Cominciamo dall’aspetto più semplice: è uno degli amici più intelligenti ed acuti che io possa vantare. Oltre a questo è una miriade di altre cose. Conosciuto come Iabicus, scrive pubblicità dal 1990 e ha trascorso gli ultimi anni ai vertici di WPP come direttore creativo esecutivo del Gruppo Ogilvy Italia. Oggi, per dar sfogo alla sua sincera necessità di comunicare, si dedica a nuovi progetti di comunicazione, al servizio di realtà che intendono voltare pagina. Ha inventato il concetto di “invertising” in un libro diventato manifesto per un messaggio pubblicitario rinnovato e consapevole.

Due volte giurato al Festival di Cannes, si occupa di creatività e nuovi linguaggi nella costruzione di contenuti fuori e dentro la Rete. È tra i Maestri della Scuola Holden di Alessandro Baricco per i corsi di Story Design e Holden Pro, ed è stato premiato dal Dipartimento di Comunicazione ed Economia dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia come Comunicatore dell’anno 2018. Il suo ultimo libro è Scripta Volant: un nuovo alfabeto per scrivere (e leggere) la pubblicità oggi (Codice Edizioni); Hoepli gli ha affidato la direzione editoriale della collana Tracce e con Ipsos Italia ha fondato l’Osservatorio Civic Brands, progetto editoriale e di ricerca che racconta l’impatto sociale di aziende e brand in Italia.

Capirete bene, che quando abbiamo deciso di parlare su Luce! di come diversità e inclusione stiano cambiando il mondo della comunicazione pubblicitaria, lui mi è subito sembrato l’’interlocutore più adatto per farlo.

Paolo, come hai visto evolvere l’approccio a queste tematiche in pubblicità?

“In realtà sono tematiche che erano in agenda, nei reparti marketing e comunicazione più illuminati già da qualche anno, soprattutto in quelle industrie più ‘di frontiera’ rivolte a fasce di pubblico più giovane. In particolare, alcune maison di moda che hanno iniziato a proporre collezioni fluide, rinunciando alla sessualizzazione, al genere della proposizione di alcune loro offerte.  Di recente la pandemia ha contribuito a sensibilizzare un po’ tutti sulla necessità di fare comunicazione di valore perché ci si era resi conto che un certo modo di fare mercato era ormai giunto al capolinea. Quindi anche diversità e inclusione sono diventate main stream anche su marchi che non avevano mai considerato questi temi. Ora siamo davanti ad un dilemma: possiamo gioire per tutto questo interesse per queste importanti e delicate tematiche ma allo stesso tempo, soprattutto i professionisti come me che guidano e controllano queste narrazioni hanno la responsabilità di evitare che queste tematiche siano sfruttate e manipolate in qualsiasi modo e per qualsiasi prodotto, anche quello in assoluto più distante dai temi della diversità e dell’inclusione. Perché diciamo la verità, non ha molto senso infarcire spot televisivi e pubblicitari di messaggi legati alla diversità e all’inclusione quando poi nei cda delle aziende che ci commissionano queste pubblicità non c’è la benché minima attenzione, ad esempio, alla parità di genere”.

Ma le aziende che hanno mostrato interesse per queste tematiche, sono state convinte a fare campagne sulla diversità e l’inclusione oppure credono veramente che questi valori debbano essere raccontati?

“Entrambe le cose. Sicuramente alcune aziende hanno riposizionato brand e le relative modalità narrative solo perché il consulente di marketing di turno ha suggerito di farlo, in nome del business. Ecco questo credo sia un atteggiamento sciagurato. Ma se un’azienda ha deciso, spontaneamente e perché ne sentiva il bisogno, di abbracciare certe tematiche, raccontando questa trasformazione attraverso i suoi prodotti, allora il discorso è diverso. Se insomma alla base c’è un’onestà intellettuale rispetto a ciò che eri e ciò che vuoi diventare come azienda, allora il discorso è ben diverso e sicuramente più apprezzabile. Uno dei prerequisiti fondamentali, dove invece cadono la maggior parte degli attori di questo mondo della comunicazione pubblicitaria è che alla grande dichiarazione di intenti, in realtà non faccia quasi mai seguito una reale azione di cambiamento per generare impatto su queste tematiche. E qui la differenza la fanno i consulenti che come me devono molto chiaramente capire quali siano le reali intenzioni dell’azienda per poi tradurle in azioni concrete e coerenti sulle tematiche dell’integrazione e della diversità. tengo però a dire che non c’è niente di male a non volersi occupare di questi temi; non è obbligatorio. Se questa cosa, come azienda, non ti ha mai riguardato, continua a ignorarla: forse stai facendo la scelta migliore perché paventarla come tuo nuovo vessillo attivista nei confronti di questa tematica, può addirittura portare a risultati grotteschi”.

 

Paolo Iabichino

Vedi delle differenze nell’approccio a queste tematiche nella comunicazione pubblicitaria tra l’Italia e altri Paesi?

“Assolutamente sì. Se solo pensiamo al mondo anglosassone, gli Stati Uniti hanno recentemente incontrato tre enormi iceberg contro i quali si sono schiantati in maniera importante: Trump, il movimento Mee Too e il Black Lives Matter nato dopo l’omicidio di Floyd. Questi tre eventi hanno generato una sorta di tempesta perfetta rispetto a queste tematiche perché hanno fatto convergere tutto e tutto insieme in un momento storico importante pre-pandemico e la maggior parte delle marche si sono trovate a dover riflettere sul “costo del silenzio”, e sono state obbligate a prendere una posizione netta, precisa, polarizzando inevitabilmente l’opinione pubblica su questi temi. Quindi se un grande marchio si schiera contro il presidente degli Stati Uniti, chiunque entri in un negozio di quel brand ci entra come se entrasse in una cabina elettorale. Quindi negli Usa più o meno tutti, chi più e chi meno, si sono gettati su questi temi e solo il mercato potrà dire chi ha avuto ragione e chi no. In Italia, paese che da sempre fa del compromesso politico la propria cifra stilistica, polarizzare invece spaventa. Prendere posizioni chiare è un rischio, nessuno lo vuole correre e per dire a Pillon esattamente cosa penso delle sue affermazioni un po’ curiose, al massimo faccio un post su Instagram andando ad illudermi di aver preso posizione su questo tema. E non basta, nel giorno del gay pride, mettere i colori dell’arcobaleno sul profilo Facebook aziendale per poter dire di aver preso una posizione”.

Per concludere, secondo te, la comunicazione pubblicitaria, oggi, offre davvero strumenti per abbattere gli stereotipi?

“Assolutamente sì. E forse su queste tematiche di cui stiamo parlando in particolare, la pubblicità ha la responsabilità maggiore proprio perché alcuni clichè e stereotipi fanno parte di un immaginario che è stato costruito anche dalla pubblicità stessa. In particolare, in Italia. Non dimentichiamoci quanto le tv commerciali hanno contribuito a creare un immaginario collettivo “tossico” e che ha compromesso in maniera importante la bontà di questa tematica. Quindi noi oggi siamo i principali attori chiamati a risarcire e bonificare l’immaginario collettivo usando i nostri clienti e i brand che hanno voglia di impegnarsi davvero a sovvertire alcune errate convinzioni. Noi creativi dobbiamo diventare un po’ dei “netturbini dell’immaginario” ; siamo chiamati a ripulire dalle tossine che abbiamo in qualche modo messo in circolazione in passato con le nostre straordinarie storie pubblicitarie intrise di tutto ciò che nulla aveva a che fare, anzi, con i concetti di diversità e inclusione. Pensate a quanti danni hanno fatto l’industria della bellezza e quella dell’automotive nel diffondere dei canoni assolutamente sbagliati. Oggi possiamo risarcire quella corsa al perfezionismo che si vedeva allora nella comunicazione pubblicitaria, purché chi ci paga per scrivere queste nuove storie abbia voglia anche di impegnarsi attivamente e in maniera collaborativa”.

Per chi volesse approfondire i temi e le attività di Paolo Iabichino, questi sono i link da seguire:

Sito ufficiale di Paolo Iabichino

Summer School Urbino

Osservatorio Civic Brands

New Train Manifesto

 

 

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  • Era il 1° febbraio 1945, quando la lotta per la conquista di questo diritto, partita tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, sulla scorta dei movimenti degli altri Paesi europei, raggiunse il suo obiettivo. Con un decreto legislativo, il Consiglio dei Ministri presieduto da Ivanoe Bonomi riconobbe il voto alle donne, su proposta di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi. 

Durante la prima guerra mondiale le donne avevano sostituito al lavoro gli uomini che erano al fronte. La consapevolezza di aver assunto un ruolo ancora più centrale all’interno società oltre che della famiglia, crebbe e con essa la volontà di rivendicare i propri diritti. Già nel 1922 un deputato socialista, Emanuele Modigliani aveva presentato una proposta di legge per il diritto di voto femminile, che però non arrivò a essere discussa, per la Marcia su Roma. Mussolini ammise le donne al voto amministrativo nel 1924, ma per pura propaganda, poiché in seguito all’emanazione delle cosiddette “leggi fascistissime” tra il 1925 ed il 1926, le elezioni comunali vennero, di fatto, soppresse. Bisognerà aspettare la fine della guerra perché l’Italia affronti concretamente la questione.

Costituito il governo di liberazione nazionale, le donne si attivarono per entrare a far parte del corpo elettorale: la prima richiesta dell’ottobre 1944, venne avanzata dalla Commissione per il voto alle donne dell’Unione Donne Italiane (Udi), che si mobilitò per ottenere anche il diritto di eleggibilità (sancito da un successivo decreto datato 10 marzo 1946). Si arrivò così, dopo anni di battaglie per il suffragio universale, al primo febbraio 1945, data storica per l’Italia. Il decreto prevedeva la compilazione di liste elettorali femminili distinte da quelle maschili, ed escludeva però dal diritto le prostitute schedate che esercitavano “il meretricio fuori dei locali autorizzati”.

Le elezioni dell’esordio furono le amministrative tra marzo e aprile del 1946 e l’affluenza femminile superò l’89%. 

#lucenews #lucelanazione #dirittodivoto #womenrights #1febbraio1945
  • La regina del pulito Marie Kondo ha dichiarato di aver “un po’ rinunciato” a riordinare casa dopo la nascita del suo terzo figlio. La 38enne giapponese, considerata una "Dea dell’ordine", con i suoi best seller sull’economia domestica negli ultimi anni ha incitato e sostenuto gli sforzi dei comuni mortali di rimettere in sesto case e armadi all’insegna del cosa “provoca dentro una scintilla di gioia”. Ma l’esperta di decluttering, famosa in tutto il mondo, ha ammesso che con tre figli da accudire, la sua casa è oggi “disordinata”, ma ora il riordino non è più una priorità. 

Da quando è diventata madre di tre bambini, ha dichiarato che il suo stile di vita è cambiato e che la sua attenzione si è spostata dall’organizzazione alla ricerca di modi semplici per rendere felici le abitudini di tutti i giorni: "Fino a oggi sono stata una organizzatrice di professione e ho dunque fatto il mio meglio per tenere in ordine la mia casa tutto il tempo”, e anche se adesso “ci ho rinunciato, il modo in cui trascorro il mio tempo è quello giusto per me in questo momento, in questa fase della mia vita”.

✍ Marianna Grazi 

#lucenews #lucelanazione #mariekondo
  • La second hand, ossia l’oggetto di seconda mano, è una moda che negli ultimi anni sta diventando sempre più un’abitudine dei consumatori. Accumulare roba negli armadi, nei cassetti, in cantina, non è più un disagio che riguarda soltanto chi soffre di disposofobia, ossia di chi è affetto da sindrome dell’accumulatore compulsivo. Se l’acquisto è l’unica azione che rende felice l’uomo moderno, non riuscire a liberarsene è la condanna di molti.

Secondo quanto emerge dall’Osservatorio Second-hand Economy 2021, realizzato da BVA Doxa per Subito.it, sono 23 milioni gli italiani che, nel 2021, hanno fatto ricorso alla compravendita di oggetti usati grazie alle piattaforme online. Il 52% degli italiani ha comprato e/o venduto oggetti usati, tra questi il 15% lo ha fatto per la prima volta. L’esperienza di compravendita online di second hand è quella preferita, quasi il 50% degli affari si conclude online anche perché il sistema di vendita è simile a un comune eCommerce: internet è il canale più veloce per quasi la metà dei rispondenti (49%), inoltre offre una scelta più ampia (43%) e si può gestire comodamente da casa (41%). Comprare second hand diventa una sana abitudine che attrae ogni anno nuove persone, è al terzo posto tra i comportamenti sostenibili più messi in atto dagli italiani (52%) – preceduto sempre dalla raccolta differenziata (94%) e l’acquisto di lampadine a LED (71%) –, con picchi ancora più alti di adozione nel 2021 da parte dei laureati (68%), di chi appartiene alla generazione Z (66%), di chi ha 35-44 anni (70%) e delle famiglie con bambini (68%). 

Ma perché concretamente si acquista l’usato? Nel 2021 le prime tre motivazioni che inducono a comprare beni usati sono: il risparmio (56%, in crescita di 6 punti percentuali rispetto al 2020), l’essere contrari agli sprechi e credere nel riuso (49%) e la convinzione che la second hand sia un modo intelligente di fare economia e che rende molti oggetti più accessibili (43%). 

✍E tu? Hai mai comprato accessori oppure oggetti di seconda mano? Cosa ne pensi?

#lucenews #lucelanazione #secondhand #vintage
  • È iniziata come una sorta di sfida personale, come spesso accade tra i ragazzi della sua età, per testare le proprie capacità e resistenza in modo divertente. Poi però, per Isaac Ortman, adolescente del Minnesota, dormire nel cortile della sua casa è diventata una missione. 

“Non credo che la cosa finisca presto, potrei anche continuare fino all’università – ha detto il 14enne di Duluth -. È molto divertente e non sono pronto a smettere”. 

Tanto che ormai ha trascorso oltre 1.000 notti sotto le stelle. Il giovane, che fa il boy scout, come una specie di moderno Barone Rampante ha scoperto per caso il piacere di trascorrere le ore di sonno fuori dalle mura di casa, persino quando la temperatura è scesa a quadi 40 gradi sotto lo zero. Tutto è iniziato circa tre anni fa, nella baita della sua famiglia a 30 miglia da casa, diventando ben presto una routine notturna. Il giovane Ortman ricorda bene il giorno in cui ha abbandonato la sua camera da letto per un’amaca e un sacco a pelo, il 17 aprile 2020, quando era appena in prima media: “Stavo dormendo fuori dalla nostra baita e ho pensato: ‘Wow, potrei provare a dormire all’aperto per una settimana’. Così ho fatto e ho deciso di continuare”. 

“Non si stanca mai: ogni notte è una nuova avventura“, ha detto il padre Andrew Ortman, 48 anni e capo del suo gruppo scout. 

Sua mamma Melissa era un po’ preoccupata quella notte, lei e il padre gli hanno permesso di continuare la sua routine. “Sa che deve entrare in casa se qualcosa non va bene. Dopo 1.000 notti, ha la nostra fiducia. Da quando ha iniziato a farlo, è cresciuto sotto molti aspetti, e non solo in termini di statura”, dice orgogliosa. 

“Non lo sto facendo per nessun record o per una causa, mi sto solo divertendo. Ma con il ragazzo che dorme in Inghilterra, credo si possa dire che si tratta di una gara non ufficiale”, ha detto Isaac riferendosi all’adolescente inglese Max Woosey, che ha iniziato la sua maratona di sonno all’aperto il 29 marzo 2020, con l’obiettivo di raccogliere fondi per un ospedale che cura un suo anziano amico.

#lucenews #isaacortman #minnesota #boyscout
Paolo Iabichino è uno dei più importanti autori pubblicitari italiani
Definire Paolo Iabichino non è mai facile. Cominciamo dall’aspetto più semplice: è uno degli amici più intelligenti ed acuti che io possa vantare. Oltre a questo è una miriade di altre cose. Conosciuto come Iabicus, scrive pubblicità dal 1990 e ha trascorso gli ultimi anni ai vertici di WPP come direttore creativo esecutivo del Gruppo Ogilvy Italia. Oggi, per dar sfogo alla sua sincera necessità di comunicare, si dedica a nuovi progetti di comunicazione, al servizio di realtà che intendono voltare pagina. Ha inventato il concetto di “invertising” in un libro diventato manifesto per un messaggio pubblicitario rinnovato e consapevole. Due volte giurato al Festival di Cannes, si occupa di creatività e nuovi linguaggi nella costruzione di contenuti fuori e dentro la Rete. È tra i Maestri della Scuola Holden di Alessandro Baricco per i corsi di Story Design e Holden Pro, ed è stato premiato dal Dipartimento di Comunicazione ed Economia dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia come Comunicatore dell’anno 2018. Il suo ultimo libro è Scripta Volant: un nuovo alfabeto per scrivere (e leggere) la pubblicità oggi (Codice Edizioni); Hoepli gli ha affidato la direzione editoriale della collana Tracce e con Ipsos Italia ha fondato l’Osservatorio Civic Brands, progetto editoriale e di ricerca che racconta l’impatto sociale di aziende e brand in Italia. Capirete bene, che quando abbiamo deciso di parlare su Luce! di come diversità e inclusione stiano cambiando il mondo della comunicazione pubblicitaria, lui mi è subito sembrato l’’interlocutore più adatto per farlo. Paolo, come hai visto evolvere l’approccio a queste tematiche in pubblicità? "In realtà sono tematiche che erano in agenda, nei reparti marketing e comunicazione più illuminati già da qualche anno, soprattutto in quelle industrie più 'di frontiera' rivolte a fasce di pubblico più giovane. In particolare, alcune maison di moda che hanno iniziato a proporre collezioni fluide, rinunciando alla sessualizzazione, al genere della proposizione di alcune loro offerte.  Di recente la pandemia ha contribuito a sensibilizzare un po’ tutti sulla necessità di fare comunicazione di valore perché ci si era resi conto che un certo modo di fare mercato era ormai giunto al capolinea. Quindi anche diversità e inclusione sono diventate main stream anche su marchi che non avevano mai considerato questi temi. Ora siamo davanti ad un dilemma: possiamo gioire per tutto questo interesse per queste importanti e delicate tematiche ma allo stesso tempo, soprattutto i professionisti come me che guidano e controllano queste narrazioni hanno la responsabilità di evitare che queste tematiche siano sfruttate e manipolate in qualsiasi modo e per qualsiasi prodotto, anche quello in assoluto più distante dai temi della diversità e dell’inclusione. Perché diciamo la verità, non ha molto senso infarcire spot televisivi e pubblicitari di messaggi legati alla diversità e all’inclusione quando poi nei cda delle aziende che ci commissionano queste pubblicità non c’è la benché minima attenzione, ad esempio, alla parità di genere". Ma le aziende che hanno mostrato interesse per queste tematiche, sono state convinte a fare campagne sulla diversità e l’inclusione oppure credono veramente che questi valori debbano essere raccontati? "Entrambe le cose. Sicuramente alcune aziende hanno riposizionato brand e le relative modalità narrative solo perché il consulente di marketing di turno ha suggerito di farlo, in nome del business. Ecco questo credo sia un atteggiamento sciagurato. Ma se un’azienda ha deciso, spontaneamente e perché ne sentiva il bisogno, di abbracciare certe tematiche, raccontando questa trasformazione attraverso i suoi prodotti, allora il discorso è diverso. Se insomma alla base c’è un’onestà intellettuale rispetto a ciò che eri e ciò che vuoi diventare come azienda, allora il discorso è ben diverso e sicuramente più apprezzabile. Uno dei prerequisiti fondamentali, dove invece cadono la maggior parte degli attori di questo mondo della comunicazione pubblicitaria è che alla grande dichiarazione di intenti, in realtà non faccia quasi mai seguito una reale azione di cambiamento per generare impatto su queste tematiche. E qui la differenza la fanno i consulenti che come me devono molto chiaramente capire quali siano le reali intenzioni dell’azienda per poi tradurle in azioni concrete e coerenti sulle tematiche dell’integrazione e della diversità. tengo però a dire che non c’è niente di male a non volersi occupare di questi temi; non è obbligatorio. Se questa cosa, come azienda, non ti ha mai riguardato, continua a ignorarla: forse stai facendo la scelta migliore perché paventarla come tuo nuovo vessillo attivista nei confronti di questa tematica, può addirittura portare a risultati grotteschi".  
Paolo Iabichino
Vedi delle differenze nell’approccio a queste tematiche nella comunicazione pubblicitaria tra l’Italia e altri Paesi? "Assolutamente sì. Se solo pensiamo al mondo anglosassone, gli Stati Uniti hanno recentemente incontrato tre enormi iceberg contro i quali si sono schiantati in maniera importante: Trump, il movimento Mee Too e il Black Lives Matter nato dopo l’omicidio di Floyd. Questi tre eventi hanno generato una sorta di tempesta perfetta rispetto a queste tematiche perché hanno fatto convergere tutto e tutto insieme in un momento storico importante pre-pandemico e la maggior parte delle marche si sono trovate a dover riflettere sul “costo del silenzio”, e sono state obbligate a prendere una posizione netta, precisa, polarizzando inevitabilmente l’opinione pubblica su questi temi. Quindi se un grande marchio si schiera contro il presidente degli Stati Uniti, chiunque entri in un negozio di quel brand ci entra come se entrasse in una cabina elettorale. Quindi negli Usa più o meno tutti, chi più e chi meno, si sono gettati su questi temi e solo il mercato potrà dire chi ha avuto ragione e chi no. In Italia, paese che da sempre fa del compromesso politico la propria cifra stilistica, polarizzare invece spaventa. Prendere posizioni chiare è un rischio, nessuno lo vuole correre e per dire a Pillon esattamente cosa penso delle sue affermazioni un po’ curiose, al massimo faccio un post su Instagram andando ad illudermi di aver preso posizione su questo tema. E non basta, nel giorno del gay pride, mettere i colori dell’arcobaleno sul profilo Facebook aziendale per poter dire di aver preso una posizione". Per concludere, secondo te, la comunicazione pubblicitaria, oggi, offre davvero strumenti per abbattere gli stereotipi? "Assolutamente sì. E forse su queste tematiche di cui stiamo parlando in particolare, la pubblicità ha la responsabilità maggiore proprio perché alcuni clichè e stereotipi fanno parte di un immaginario che è stato costruito anche dalla pubblicità stessa. In particolare, in Italia. Non dimentichiamoci quanto le tv commerciali hanno contribuito a creare un immaginario collettivo “tossico” e che ha compromesso in maniera importante la bontà di questa tematica. Quindi noi oggi siamo i principali attori chiamati a risarcire e bonificare l’immaginario collettivo usando i nostri clienti e i brand che hanno voglia di impegnarsi davvero a sovvertire alcune errate convinzioni. Noi creativi dobbiamo diventare un po’ dei “netturbini dell’immaginario” ; siamo chiamati a ripulire dalle tossine che abbiamo in qualche modo messo in circolazione in passato con le nostre straordinarie storie pubblicitarie intrise di tutto ciò che nulla aveva a che fare, anzi, con i concetti di diversità e inclusione. Pensate a quanti danni hanno fatto l’industria della bellezza e quella dell’automotive nel diffondere dei canoni assolutamente sbagliati. Oggi possiamo risarcire quella corsa al perfezionismo che si vedeva allora nella comunicazione pubblicitaria, purché chi ci paga per scrivere queste nuove storie abbia voglia anche di impegnarsi attivamente e in maniera collaborativa". Per chi volesse approfondire i temi e le attività di Paolo Iabichino, questi sono i link da seguire: Sito ufficiale di Paolo Iabichino Summer School Urbino Osservatorio Civic Brands New Train Manifesto    
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