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La pandemia fa crollare il lavoro femminile. Sabbadini (Istat): "Le donne pretendano ciò che meritano"

di ELISA CAPOBIANCO -
22 aprile 2021
GenderGap

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Lavoratori e lavoratrici sono uguali? In Italia no. La risposta nei numeri Istat. I dati drammatici di dicembre ci urlano in faccia quanto sia ancora profonda la voragine tra i due sessi (anche) quando si parla di lavoro. La pandemia è stata soltanto un altro, l’ennesimo, fattore scatenante. L’ultimo mese del 2020 lo dimostra: il tasso di occupazione femminile è sceso al 48,6% con la perdita di 1,4 punti percentuali, a fronte dei colleghi maschi che si sono fermati a 0,4 punti percentuali (67,5%). In quei trenta giorni, infatti, sono andati in fumo 101mila posti: 99mila di questi appartenevano a donne, soprattutto under 50. E gli uomini? Solo 2mila quelli caduti sotto i colpi della crisi economica da pandemia. In un anno l’occupazione è scesa complessivamente di 444mila unità: 312mila erano lavoratrici. In percentuale il 70%. Insomma, il dramma è rosa. Ma non è tutto. A crescere tra le donne è stato anche l’indice di inattività (più 42mila) in particolare nella fascia di età 15-24 e 35-49. Un indice che invece è addirittura diminuito tra gli uomini. Il peggio è passato? Forse no. Difficile essere ottimisti con il blocco dei licenziamenti prorogato ininterrottamente da metà marzo 2020 e la cassa integrazione Covid-19 estesa ormai praticamente a tutti. E dopo?

Donna in smartworking da casa mentre la figlia segue lezioni in dad

Smart working e didattica a distanza: il cocktail (esplosivo) è servito

Il crollo dell’occupazione femminile durante la pandemia ha dell’incredibile. Il verdetto Istat scatena una domanda che  bussa insistentemente alla nostra coscienza: perché? Perché tocca alle donne pagare il prezzo più alto? La ragione è a monte. Le donne in Italia hanno per definizione impieghi più precari, stagionali e in genere sottopagati ovvero retribuiti meno rispetto ai colleghi maschi: la differenza di salario medio si attesta sul 20 per cento. Il Covid, insomma, ha fatto soltanto esplodere un problema già ben noto. Il carico da novanta è arrivato, ebbene sì, con lo smart working. Molte donne si sono trovate all’improvviso a lavorare da remoto con i figli in didattica a distanza a cui badare. La loro giornata è diventata sempre più faticosa. Non farsi inghiottire dalle incombenze domestiche un gioco da equilibristi con gli spazi casa-lavoro cancellati. La nuova routine ha spinte molte di loro a un bivio. Et voilà! Le mamme ancora travolte dall’atavico dilemma: famiglia o carriera? Il dilemma, però, non sarebbe tale se le italiane potessero contare su un sistema di welfare più equo e robusto, capace di garantire loro la libertà di investire nella realizzazione professionale le stesse energie dei loro colleghi uomini. Una parità vera però.

La storia / La badante disoccupata "per colpa del Covid"

La sua storia è quella di tante donne che lavorano nel settore servizi e assistenza alla persona. Barbara Floris, 40 anni, quindici dei quali vissuti come badante tra Sestu e Cagliari. Una predisposizione naturale che è diventata professione.“A metà ottobre – racconta a Luce! – ho scoperto di aver contratto il virus. Febbre alta, olfatto scomparso… il tampone ha confermato i sospetti. Ho dovuto ovviamente sospendere la mia attività di supporto all’ottantenne che stavo seguendo da qualche mese. Sono serviti sessanta giorni per guarire. I familiari della signora non hanno potuto aspettare così tanto lasciando senza supporto specializzato l’anziana. Come biasimarli? Il percorso di riabilitazione è stato lungo e io da allora non ho più potuto lavorare. Il Covid mi ha fatto perdere tutto. Sono tuttora disoccupata e non so immaginare un futuro stabile per chi opera come me nel settore. Lo scenario professionale delle badanti è particolarmente instabile. Che cosa ne sarà di noi?”.

L’intervista / Linda Laura Sabbadini, direttrice Istat: "Donne risorsa rivoluzionaria. Pretendano ciò che meritano"

Dotoressa Sabbadini, come siamo arrivati ai numeri catastrofici rilevati dall’Istat sul crollo dell’occupazione femminile in Italia durante la pandemia? “Il problema non è solo quello che sta succedendo ora. Il problema è che tutto ciò avviene dopo che l’Italia ha vissuto in una condizione di permanente bassa occupazione femminile, a parte poche eccezioni. Un esempio? Indicativamente tra il 1995 e il 2008-2009, l’occupazione femminile è cresciuta in modo importante: si è toccata quota un milione e 300mila. Una crescita molto concentrata nel centro nord, al sud sostanzialmente le briciole”.

Un primo segnale positivo quindi c’è stato, almeno negli anni Novanta… “Sì, ma dopo quella fase ecco la crisi. Nel 2019, alla vigilia della pandemia, eravamo con solo metà delle donne occupate. Questo significa penultimi in Europa, davanti soltanto alla Grecia”.

E poi è esplosa l’emergenza sanitaria Covid. “Il trend dell’Italia sull’occupazione femminile non è cambiato, anzi invece del 50%; nel frattempo siamo scesi intorno al 48,5%. Meno della metà delle donne lavora e, addirittura, sulle giovani, tra 25 e 29 anni, siamo sei punti sotto la Grecia. Tra i 30 e i 34 anni lo stesso, siamo ultimi dopo la Grecia. Il problema reale è che questa situazione si trascina da anni, ma il nostro Paese non si è preoccupato di dotarsi di una strategia adeguata. Come Europa avevamo l’obiettivo di raggiungere nel 2010 il 60 per cento di tasso di donne occupate. Non l’abbiamo raggiunto e nessuno si è interrogato su come poter recuperare. Nessuno se n’è curato”.

Perché questo disinteresse? Forse all’Italia manca un terreno culturale adeguato? “Soffriamo di una lacuna culturale profonda. In più affrontare la questione femminile significherebbe sciogliere finalmente un nodo cruciale per il nostro Paese: quello del lavoro non retribuito delle donne. In Italia il lavoro non retribuito delle donne è elevato, più elevato che nel resto d’Europa. Le donne sono sovraccariche e poco sostenute dai partner, meno sostenute che altrove perché qui esiste minor condivisione, c'è una ripartizione dei ruoli più rigida. Inoltre non sono supportate quasi per nulla dai servizi: né da quelli per la prima infanzia e dal tempo pieno a scuola, che si è molto ridotto negli anni, diventando quasi inesistente al sud; né dai servizi per l’assistenza ad anziani e disabili. Non si è mai investito su questi ambiti, a differenza di altri Paesi. In Svezia si è cominciato a farlo addirittura negli anni Cinquanta con politiche di conciliazione dei tempi di vita, man mano che le donne si emancipavano. Lo stesso in Germania con Ursula von der Leyen, ministro per gli Affari della famiglia e della gioventù, che ha deciso di fare molto, ad esempio, sul fronte dei nidi pur scontrandosi con il proprio partito. La Germania investe tre volte tanto noi sull’assistenza. L’Italia resta fanalino di coda”.

Una rappresentazione della mancata parità uomo-donna nel mondo del lavoro

Servizi di supporto alle donne assenti: quali gli effetti? “Questa situazione ha penalizzato e penalizza in primis le donne per due, anzi tre motivi. Primo: tali servizi (per infanzia e assistenza, nda) faciliterebbero la vita alle donne lasciando loro più energie da impiegare nella propria realizzazione professionale. Secondo: in questi settori lavorano soprattutto le donne. Non potenziarli significa non creare opportunità. Terzo: investire sul sociale diminuirebbe le disuguaglianze sociali, le diseguaglianze tra bambini, anziani, disabili e le povertà in genere. Il reddito femminile è un reddito che si va ad aggiungere e quindi contribuisce a ‘proteggere’ la famiglia. In più mandare i piccoli al nido sorte effetti benefici anche sugli esiti scolastici successivi, è dimostrato. Adesso invece ai nidi vanno i figli di classe sociale medio-alta. I figli dei nuclei con reddito più basso non frequentano: del resto solo il 12 per cento dei bambini va al nido pubblico e le strutture private sono molto costose”.

Ma a che punto è l’Italia? “Indietro. Questi investimenti sociali porterebbero a una svolta strategica. Ma la questione non è ancora ben centrata nel Pnrr-Piano nazionale di ripresa e resilienza, non si stanno mettendo abbastanza soldi. Con il Recovery, ad esempio, bisognerebbe estendere l’offerta dei nidi raggiungendo il 60% dei bambini, così come stabilito dal piano Colao. Sarebbe un bel balzo. Invece siamo fermi al 25%, assolutamente lontani dal target anche perché lo stanziamento previsto al momento può coprire il 38% di posti nido. Si spera che il nuovo governo agisca per raggiungere davvero il 60%. Diciamocelo: o lo facciamo adesso con i fondi a disposizione o non lo facciamo più. Stessa cosa per anziani e disabili. Bisogna darsi un obiettivo chiaro, sciogliere questi nodi, non solo in termini sanitari ma anche di cura, intesa come assistenza sociale”.

Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale dell'Istat e componente del comiatto scoientifico Colao

Le donne sarebbero pronte al cambiamento? “Sicuramente. Ecco perché, tra l’altro, bisognerebbe investire molto sull’imprenditoria femminile, puntare sulla formazione, facilitare l’accesso al credito. Adottare poi una strategia per potenziare la loro presenza negli ambiti scientifici: ci si può arrivare anche attraverso l’abbattimento degli stereotipi, sin dalla scuola, con libri di testo che non descrivano più le bambine come future casalinghe. Le donne sono già pronte al cambiamento, ma al momento sono costrette a rinunciare a tante cose. Il 20%, ad esempio, lascia il lavoro alla nascita del figlio, tantissime invece rinviano la gravidanza semplicemente perché non ce la fanno".

Che fare?

"Diciamo basta: rompiamo il meccanismo che ingabbia, che blocca la possibilità di realizzarsi. Bisogna premere, combattere, bisogna ottenere: questo è il momento. Se non otteniamo ora sarà molto più difficile farlo in futuro. Adesso c’è un tesoretto che è una grande opportunità per tutti, anche per le donne. Dobbiamo finalmente imparare a capire che se vanno avanti le donne va avanti tutto il Paese. Siamo molto arretrati, invece, e c’è il rischio che il grosso degli investimenti non tocchi alle donne. Basti pensare che il 57% andrà a digital e green, due settori in cui lavorano soprattutto gli uomini. Servono paletti per garantire che si compensi sul mondo femminile oppure la crescita sarà sbilanciata”.

Se ne discute molto soprattutto in politica, le quote rose rappresentano una soluzione? “Quote rosa? (sorride, nda). Non bisogna parlare del problema in termini di quote rosa. In economia siamo contro il monopolio, giusto? Abbiamo addirittura una authority che combatte il monopolio. Dunque ora dobbiamo essere contro il monopolio maschile in politica, in tutti i luoghi decisionali. Non ci si riesce? Ebbene si usano norme, transitorie, ma si usano norme. Lo abbiamo fatto con la legge Golfo-Mosca, lo abbiamo fatto nei consigli di amministrazione. Che cosa ha portato? Che dal 2% di donne siamo passati al 38%. E queste donne sono arrivate dove sono con curricula molto elevati: la loro competenza ha spinto anche i maschi a migliorarsi. La presenza femminile, insomma, ha ritorni positivi per tutti. Non bisogna vergognarsi quindi di chiedere norme anti-monopolistiche anche per la società. Il monopolio è deleterio economicamente, per le politiche, per l’azione delle imprese. Non ci dobbiamo vergognare, le donne devono esigere. E dobbiamo esigere transitoriamente, sfruttiamo la situazione e basta. Non c’è nessuna quota rosa qua, non c’è nessuna riserva… parliamo semmai di uno strumento anti-monopolio. Bisogna capire che le donne sono andate avanti, sono piene di energie e di potenzialità, di innovazione, hanno una capacità relazionale spaventosa. Sono una grandissima risorsa per il Paese: è giusto che ottengano il ruolo che meritano”.