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Home » Lifestyle » A tu per tu con Stefano Ferri: “Tutti siamo un po’ maschi e un po’ femmine. Ci ho messo anni per diventare crossdresser. Poi sono rinato”

A tu per tu con Stefano Ferri: “Tutti siamo un po’ maschi e un po’ femmine. Ci ho messo anni per diventare crossdresser. Poi sono rinato”

Imprenditore milanese di 55 anni, è sposato e ha una figlia. Dal 2009 indossa solo abiti femminili. "Il crossdressing femminile una cosa sdoganata, per l'uomo invece è ancora legato al pregiudizio e all'omosessualità. Io sono etero, ma racconto la mia storia come Stefano e Stefania. Tutti abbiamo una parte femminile, accettiamola"

Ludovica Criscitiello
21 Maggio 2021
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Dal 30 marzo del 2009 non ha più indossato un abito maschile. “Quel giorno c’era il battesimo di mia figlia e il prete mi chiese vestirmi in modo consono. Quella è stata anche l’ultima volta che sono entrato in una chiesa”. Stefano Ferri, 55 anni, è un imprenditore milanese. Gestisce una società che offre consulenza strategica nel campo degli eventi a Milano, ma è anche un crossdresser. “Per spiegare cosa significa parto dal fatto che etichettare qualcuno come crossdresser nasce già da un pregiudizio. Il termine ‘crossdresser’ sta a indicare colui o colei che indossa abiti del sesso opposto. Quando parliamo di uomini che lo fanno però si ricollega subito tutto, erroneamente, all’omosessualità o alla transessualità. Invece non è così e io ne sono la prova visto che sono etero e felicemente sposato. Basta pensare a quanto sia normale vedere una donna in pantaloni ed è proprio la normalità a fare del crossdressing femminile una cosa sdoganata“. Stefano ricorda un convegno a cui era stato invitato per parlare di crossdressing. “Dopo aver risposto per un’ora alle domande della giornalista mi venne in mente di rivolgermi alle persone che ci ascoltavano e dire loro: ‘Ma ci rendiamo conto che stiamo parlando da un’ora come se io fossi l’unico crossdresser in questa sala?’. E invece c’erano anche donne, a cominciare dalla giornalista, che portavano giacca e pantaloni in quel momento”. Di uomini ‘crossdresser’ come lui ce ne sono pochissimi però ed è per questo che il fenomeno è poco conosciuto. “Ho incontrato solo un’altra persona come me. Capitò al Salone del Libro di Torino. Lui sapeva che ero lì e venne apposta per conoscermi”.

La scoperta

Diventare ‘crossdresser’ in realtà è frutto di un processo molto lungo. “Non è che uno va a dormire la sera dopo aver indossato fino a quel momento abiti maschili e si risveglia il giorno dopo decidendo di mettere una gonna – spiega Stefano – Io ci ho messo 14 anni. Ho iniziato nel 1995. Avevo 29 anni e cominciavo a sentire il bisogno di rendere più femminile il mio guardaroba. Mi aiutò un po’ la moda dell’epoca. Sulla passerella, grazie a Gucci e ad altri stilisti, si iniziavano a vedere i primi uomini un po’ più effeminati e io, sulla scia di questo, andavo ad acquistare prodotti e vestiti che sembravano da donna ma erano indossati anche da uomini, come camice in organza, giacche damascate, pantaloni in raso. Era questo che mi dicevo per giustificarmi. Nel 2002 poi ho visto un kilt nero in un negozio del centro e non ho resistito. L’ho comprato e da allora sono passati altri sette anni in cui il mio guardaroba è nuovamente cambiato. Ma questa volta andavo direttamente a scegliere i vestiti nei reparti femminili. Nel 2009, al termine di questi 14 anni di trasformazione, mi sono ritrovato il guardaroba al cento per cento femminile».

Le difficoltà

Un percorso che non ha risparmiato a Stefano momenti bui e anche i soliti pregiudizi.
“Quando questa cosa è ‘esplosa’ dentro di me non capivo cosa mi stesse succedendo. Di tutto ciò che non si conosce si ha paura e quindi io stavo male. E per paura ho iniziato a fare una cosa che non si dovrebbe mai fare. Chiedevo il permesso. A quell’epoca lavoravo come pubblicitario ed ero anche un giornalista. Gestivo una rivista del settore turistico e degli eventi. E chiedevo il permesso al mio capo, ai miei clienti, a tutti, di potermi presentare nelle varie occasioni vestito con abiti femminili. Mettere le mani avanti fomenta sessismo e razzismo laddove già ci sono. Bisogna essere orgogliosi di chi si è e di cosa si indossa, in questo caso. C’è differenza tra un uomo fiero che ti stringe la mano e uno che ha paura e ha la coda tra le gambe. E si nota. Cominciai a riflettere sulla improponibilità della mia domanda per il fatto che spesso chi mi rispondeva mi diceva: “ma che razza di domanda mi fai?”. È chiaro che per avere il coraggio di non farla ho dovuto fare un lungo cammino di psicoterapia“. I momenti bui capitano a tutti, ma sta alla persona affrontarli nel modo giusto. “Ho lasciato il lavoro precedente e mi sono buttato in un’attività del tutto nuova, che è quella che porto avanti ora. Sono rinato“.

Il crossdressing

Affrontare quello che gli stava succedendo, inquadrare la situazione e dare un senso a tutto è servito a Stefano semplicemente per fare pace con se stesso. “Sulla materia c’è ancora poca chiarezza. Ci sono sette tipi di crossdresser. C’è chi lo fa per scelta professionale. Mi viene in mente Maurizio Ferrini che impersonava la signora Coriandoli. Ci sono quelli che lo fanno per protestare contro le convenzioni. C’è chi lo fa di nascosto perché in questa maniera si eccita e raggiunge l’orgasmo. Poi ovviamente ci sono quelli che si vestono da donna perché sono omosessuali, e questo riguarda sia uomini che donne, e coloro che stanno iniziando una transizione verso l’altro sesso. Poi c’è ancora chi sta attraversando una scissione interiore: quindi la mattina va al lavoro vestito in un modo e la sera magari si veste con abiti femminili e va nei locali appositi. Infine arriviamo al settimo tipo che è quello a cui appartengo io e dove siamo in pochissimi. In questo caso il bisogno di indossare abiti femminili scaturisce da una mancata integrazione, nell’intimo, tra la parte maschile e la parte femminile. Tutti noi siamo un po’ maschi un po’ femmine, ma nella stragrande maggioranza dei casi queste due parti si integrano spontaneamente, prima quando si è piccoli e poi anche durante l’adolescenza. In me questa cosa non è successa per varie ragioni legate alla mia infanzia. Ebbene, dal momento in cui ho capito questo durante la psicoterapia, il mio crossdressing ha cessato di essere l’ignoto”.
Per dieci anni Stefano è stato nervoso e pieno di paure. “Ero aggressivo e provavo risentimento, quando ho risolto con me stesso è cambiato tutto”.

In famiglia

“Nel 2000 mi sono sposato e nel frattempo questa cosa si è evoluta. Con mia moglie non è stato facile superare la tempesta. Immagina che sposi un uomo in giacca e cravatta e poi ti ritrovi accanto qualcuno che veste in abiti femminili. Non è stato facile ma l’abbiamo superata. Per quanto riguarda mia figlia posso dire che è stato l’unico essere umano ad avermi visto dal principio con una gonna. E così è stato anche dopo, per scongiurare che crescesse con un pregiudizio. Però per evitare che a scuola potessero bullizzarla ho smesso di andare a prenderla per un be po’. Tra l’altro fu lei stessa a chiedermelo in terza elementare e io per il suo bene l’ho fatto. Ora ho risolto il problema – scherza –, perché a 12 anni nessun figlio vuole i genitori fuori dalla scuola. In realtà con i suoi amici più stretti non c’è alcun problema, tutti mi conoscono e nessuno si scandalizza”.

La campagna su crossdressing

“Mi hanno scritto in tanti da quando ho iniziato a fare la mia campagna sul crossdressing. Mi capita spesso di dare consigli a chi decide di iniziare questo percorso”. Da un po’ di anni Stefano ha iniziato a raccontare la sua storia per far conoscere meglio la realtà del crossdressing. “Oggi per comunicare la diversità dobbiamo cambiare il nostro modo di vedere le cose.  A cominciare dal fatto che siamo prima di tutto persone, uomini, donne, lesbiche, trans, crossdresser. Biologicamente parlando, siamo maschi o femmine anche se non è una regola assoluta (pensiamo agli ermafroditi). A monte della fascia inguinale però abbiamo un cervello che è il nostro centro direzionale e anni di psicologia ci hanno fatto capire che in ognuno di noi c’è un mix di maschile e femminile che va individuato e vissuto. Anche nei libri che ho scritto viene fuori questo. Sono romanzi scissi in due parti, al loro interno, e ogni parte è distanziata dall’altra di anni. Come Stefano e Stefania. Io sono e sarò sempre questo in tutto ciò che esprimo. Una volta che uno inizia a vedere la realtà attraverso questa cartina di tornasole la diversità non c’è più. Io valgo quello che vale un uomo in giacca e cravatta, come marito, padre e uomo”.

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Instagram

  • Numerosi attori e musicisti di alto profilo si sono recati in Ucraina da quando è scoppiata la guerra con la Russia nel febbraio 2022. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’attore britannico Orlando Bloom, che ieri ha visitato un centro per bambini e ha incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Kiev.

“Non mi sarei mai aspettato che la guerra si sarebbe intensificata in tutto il Paese da quando sono stato lì”, ha detto Bloom su Instagram, “Ma oggi ho avuto la fortuna di ascoltare le risate dei bambini in un centro del programma Spilno sostenuto dall’Unicef, uno spazio sicuro, caldo e accogliente dove i bambini possono giocare, imparare e ricevere supporto psicosociale”.

Bloom è un ambasciatore di buona volontà per l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef). Il centro di Splino, che è uno dei tanti in Ucraina, offre sostegno ai bambini sfollati e alle loro famiglie, con più di mezzo milione di bambini che ne hanno visitato uno nell’ultimo anno.

La star hollywoodiana ha poi incontrato il presidente Zelensky, con cui ha trattato temi tra cui il ritorno dei bambini ucraini deportati in Russia, la creazione di rifugi antiatomici negli istituti scolastici e il supporto tecnico per l’apprendimento a distanza nelle aree in cui è impossibile studiare offline a causa della guerra. L’attore britannico aveva scritto ieri su Instagram, al suo arrivo a Kiev, che i «bambini in Ucraina hanno bisogno di riavere la loro infanzia».

#lucelanazione #lucenews #zelensky #orlandobloom
  • “La vita che stavo conducendo mi rendeva particolarmente infelice e se all’inizio ero entrata in terapia perché volevo accettare il fatto che mi dovessi nascondere, ho avuto poi un’evoluzione e questo percorso è diventato di accettazione di me stessa."

✨Un sorriso contagioso, la spensieratezza dei vent’anni e la bellezza di chi si piace e non può che riflettere quella luce anche al di fuori. La si potrebbe definire una Mulan nostrana Carlotta Bertotti, 23 anni, una ragazza torinese come tante, salvo che ha qualcosa di speciale. E non stiamo parlano del Nevo di Ota che occupa metà del suo volto. Ecco però spiegato un primo punto di contatto con Mulan: l’Oriente, dove è più diffusa (insieme all’Africa) quell’alterazione di natura benigna della pigmentazione della cute intorno alla zona degli occhi (spesso anche la sclera si presenta scura). Quella che appare come una chiazza grigio-bluastra su un lato del volto (rarissimi i casi bilaterali), colpisce prevalentemente persone di sesso femminile e le etnie asiatiche (1 su 200 persone in Giappone), può essere presente alla nascita o apparire durante la pubertà. E come la principessa Disney “fin da piccola ho sempre sentito la pressione di dover salvare tutto, ma forse in realtà dovevo solo salvare me stessa. Però non mi piace stare troppo alle regole, sono ribelle come lei”.

🗣Cosa diresti a una ragazza che ha una macchia come la tua e ti chiede come riuscire a conviverci?�
“Che sono profondamente fiera della persona che vedo riflessa allo specchio tutto i giorni e sono arrivata a questa fierezza dopo che ho scoperto e ho accettato tutti i miei lati, sia positivi che negativi. È molto autoreferenziale, quindi invece se dovessi dare un consiglio è quello che alla fine della fiera il giudizio altrui è momentaneo e tutto passa. L’unica persona che resta e con cui devi convivere tutta la vita sei tu, quindi le vere battaglie sono quelle con te stessa, quelle che vale la pena combattere”.

L’intervista a cura di Marianna Grazi �✍ 𝘓𝘪𝘯𝘬 𝘪𝘯 𝘣𝘪𝘰

#lucenews #lucelanazione #carlottabertotti #nevodiota
  • La salute mentale al centro del podcast di Alessia Lanza. Come si supera l’ansia sociale? Quanto è difficile fare coming out? Vado dallo psicologo? Come trovo la mia strada? La popolare influencer, una delle creator più note e amate del web con 1,4 milioni di followers su Instagram e 3,9 milioni su TikTok, Alessia Lanza debutta con “Mille Pare”, il suo primo podcast in cui affronta, in dieci puntate, una “para” diversa e cerca di esorcizzare le sue fragilità e, di riflesso, quelle dei suoi coetanei.

“Ho deciso di fare questo podcast per svariati motivi: io sono arrivata fin qui anche grazie alla mia immagine, ma questa volta vorrei che le persone mi ascoltassero e basta. Quando ho cominciato a raccontare le mie fragilità un sacco di persone mi hanno detto ‘Anche io ho quella para lì!’. Perciò dico parliamone, perché in un mondo in cui sembra che dobbiamo farcela da soli, io credo nel potere della condivisione”.

#lucenews #lucelanazione #millepare #alessialanza #podcast
  • Si è laureata in Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali indossando un abito tradizionale Crow, tribù della sua famiglia adottiva in Montana. Eppure Raffaella Milandri è italianissima e ha conseguito il titolo nella storica università Alma Mater di Bologna, lo scorso 17 marzo. 

La scrittrice e giornalista nel 2010 è diventata membro adottivo della famiglia di nativi americani Black Eagle. Da quel momento quella che era una semplice passione per i popoli indigeni si è focalizzata sullo studio degli aborigeni Usa e sulla divulgazione della loro cultura.

Un titolo di studio specifico, quello conseguito dalla Milandri, “Che ho ritenuto oltremodo necessario per coronare la mia attività di studiosa e attivista per i diritti dei Nativi Americani e per i Popoli Indigeni. La prima forma pacifica di attivismo è divulgare la cultura nativa”. L’abito indossato durante cerimonia di laurea appartiene alla tribù della sua famiglia adottiva. Usanza che è stata istituzionalizzata solo dal 2017 in Montana, Stato d’origine del suo popolo, quando è stata approvata una legge (la SB 319) che permette ai nativi e loro familiari di laurearsi con il “tribal regalia“. 

In virtù di questa norma, il Segretario della Crow Nation, Levi Black Eagle, a maggio 2022 ha ricordato la possibilità di indossare l’abito tradizionale Crow in queste occasioni e così Milandri ha chiesto alla famiglia d’adozione se anche lei, in quanto membro acquisito della tribù, avrebbe potuto indossarlo in occasione della sua discussione.

La scrittrice, ricordando il momento della laurea a Bologna, racconta che è stata “Una grandissima emozione e un onore poter rappresentare la Crow Nation e la mia famiglia adottiva. Ho dedicato la mia laurea in primis alle vittime dei collegi indiani, istituti scolastici, perlopiù a gestione cattolica, di stampo assimilazionista. Le stesse vittime per le quali Papa Francesco, lo scorso luglio, si è recato in Canada in viaggio penitenziale a chiedere scusa  Ho molto approfondito questo tema controverso e presto sarà pubblicato un mio studio sull’argomento dalla Mauna Kea Edizioni”.

#lucenews #raffaellamilandri #antropologia

Dal 30 marzo del 2009 non ha più indossato un abito maschile. "Quel giorno c'era il battesimo di mia figlia e il prete mi chiese vestirmi in modo consono. Quella è stata anche l'ultima volta che sono entrato in una chiesa". Stefano Ferri, 55 anni, è un imprenditore milanese. Gestisce una società che offre consulenza strategica nel campo degli eventi a Milano, ma è anche un crossdresser. "Per spiegare cosa significa parto dal fatto che etichettare qualcuno come crossdresser nasce già da un pregiudizio. Il termine 'crossdresser' sta a indicare colui o colei che indossa abiti del sesso opposto. Quando parliamo di uomini che lo fanno però si ricollega subito tutto, erroneamente, all’omosessualità o alla transessualità. Invece non è così e io ne sono la prova visto che sono etero e felicemente sposato. Basta pensare a quanto sia normale vedere una donna in pantaloni ed è proprio la normalità a fare del crossdressing femminile una cosa sdoganata". Stefano ricorda un convegno a cui era stato invitato per parlare di crossdressing. "Dopo aver risposto per un'ora alle domande della giornalista mi venne in mente di rivolgermi alle persone che ci ascoltavano e dire loro: 'Ma ci rendiamo conto che stiamo parlando da un'ora come se io fossi l’unico crossdresser in questa sala?'. E invece c'erano anche donne, a cominciare dalla giornalista, che portavano giacca e pantaloni in quel momento". Di uomini 'crossdresser' come lui ce ne sono pochissimi però ed è per questo che il fenomeno è poco conosciuto. "Ho incontrato solo un'altra persona come me. Capitò al Salone del Libro di Torino. Lui sapeva che ero lì e venne apposta per conoscermi".

La scoperta

Diventare 'crossdresser' in realtà è frutto di un processo molto lungo. "Non è che uno va a dormire la sera dopo aver indossato fino a quel momento abiti maschili e si risveglia il giorno dopo decidendo di mettere una gonna – spiega Stefano – Io ci ho messo 14 anni. Ho iniziato nel 1995. Avevo 29 anni e cominciavo a sentire il bisogno di rendere più femminile il mio guardaroba. Mi aiutò un po' la moda dell'epoca. Sulla passerella, grazie a Gucci e ad altri stilisti, si iniziavano a vedere i primi uomini un po' più effeminati e io, sulla scia di questo, andavo ad acquistare prodotti e vestiti che sembravano da donna ma erano indossati anche da uomini, come camice in organza, giacche damascate, pantaloni in raso. Era questo che mi dicevo per giustificarmi. Nel 2002 poi ho visto un kilt nero in un negozio del centro e non ho resistito. L’ho comprato e da allora sono passati altri sette anni in cui il mio guardaroba è nuovamente cambiato. Ma questa volta andavo direttamente a scegliere i vestiti nei reparti femminili. Nel 2009, al termine di questi 14 anni di trasformazione, mi sono ritrovato il guardaroba al cento per cento femminile».

Le difficoltà

Un percorso che non ha risparmiato a Stefano momenti bui e anche i soliti pregiudizi. "Quando questa cosa è 'esplosa' dentro di me non capivo cosa mi stesse succedendo. Di tutto ciò che non si conosce si ha paura e quindi io stavo male. E per paura ho iniziato a fare una cosa che non si dovrebbe mai fare. Chiedevo il permesso. A quell’epoca lavoravo come pubblicitario ed ero anche un giornalista. Gestivo una rivista del settore turistico e degli eventi. E chiedevo il permesso al mio capo, ai miei clienti, a tutti, di potermi presentare nelle varie occasioni vestito con abiti femminili. Mettere le mani avanti fomenta sessismo e razzismo laddove già ci sono. Bisogna essere orgogliosi di chi si è e di cosa si indossa, in questo caso. C’è differenza tra un uomo fiero che ti stringe la mano e uno che ha paura e ha la coda tra le gambe. E si nota. Cominciai a riflettere sulla improponibilità della mia domanda per il fatto che spesso chi mi rispondeva mi diceva: "ma che razza di domanda mi fai?". È chiaro che per avere il coraggio di non farla ho dovuto fare un lungo cammino di psicoterapia". I momenti bui capitano a tutti, ma sta alla persona affrontarli nel modo giusto. "Ho lasciato il lavoro precedente e mi sono buttato in un'attività del tutto nuova, che è quella che porto avanti ora. Sono rinato".

Il crossdressing

Affrontare quello che gli stava succedendo, inquadrare la situazione e dare un senso a tutto è servito a Stefano semplicemente per fare pace con se stesso. "Sulla materia c’è ancora poca chiarezza. Ci sono sette tipi di crossdresser. C'è chi lo fa per scelta professionale. Mi viene in mente Maurizio Ferrini che impersonava la signora Coriandoli. Ci sono quelli che lo fanno per protestare contro le convenzioni. C'è chi lo fa di nascosto perché in questa maniera si eccita e raggiunge l’orgasmo. Poi ovviamente ci sono quelli che si vestono da donna perché sono omosessuali, e questo riguarda sia uomini che donne, e coloro che stanno iniziando una transizione verso l’altro sesso. Poi c’è ancora chi sta attraversando una scissione interiore: quindi la mattina va al lavoro vestito in un modo e la sera magari si veste con abiti femminili e va nei locali appositi. Infine arriviamo al settimo tipo che è quello a cui appartengo io e dove siamo in pochissimi. In questo caso il bisogno di indossare abiti femminili scaturisce da una mancata integrazione, nell’intimo, tra la parte maschile e la parte femminile. Tutti noi siamo un po' maschi un po' femmine, ma nella stragrande maggioranza dei casi queste due parti si integrano spontaneamente, prima quando si è piccoli e poi anche durante l’adolescenza. In me questa cosa non è successa per varie ragioni legate alla mia infanzia. Ebbene, dal momento in cui ho capito questo durante la psicoterapia, il mio crossdressing ha cessato di essere l’ignoto". Per dieci anni Stefano è stato nervoso e pieno di paure. "Ero aggressivo e provavo risentimento, quando ho risolto con me stesso è cambiato tutto".

In famiglia

"Nel 2000 mi sono sposato e nel frattempo questa cosa si è evoluta. Con mia moglie non è stato facile superare la tempesta. Immagina che sposi un uomo in giacca e cravatta e poi ti ritrovi accanto qualcuno che veste in abiti femminili. Non è stato facile ma l’abbiamo superata. Per quanto riguarda mia figlia posso dire che è stato l’unico essere umano ad avermi visto dal principio con una gonna. E così è stato anche dopo, per scongiurare che crescesse con un pregiudizio. Però per evitare che a scuola potessero bullizzarla ho smesso di andare a prenderla per un be po'. Tra l’altro fu lei stessa a chiedermelo in terza elementare e io per il suo bene l’ho fatto. Ora ho risolto il problema – scherza –, perché a 12 anni nessun figlio vuole i genitori fuori dalla scuola. In realtà con i suoi amici più stretti non c'è alcun problema, tutti mi conoscono e nessuno si scandalizza".

La campagna su crossdressing

"Mi hanno scritto in tanti da quando ho iniziato a fare la mia campagna sul crossdressing. Mi capita spesso di dare consigli a chi decide di iniziare questo percorso". Da un po' di anni Stefano ha iniziato a raccontare la sua storia per far conoscere meglio la realtà del crossdressing. "Oggi per comunicare la diversità dobbiamo cambiare il nostro modo di vedere le cose.  A cominciare dal fatto che siamo prima di tutto persone, uomini, donne, lesbiche, trans, crossdresser. Biologicamente parlando, siamo maschi o femmine anche se non è una regola assoluta (pensiamo agli ermafroditi). A monte della fascia inguinale però abbiamo un cervello che è il nostro centro direzionale e anni di psicologia ci hanno fatto capire che in ognuno di noi c'è un mix di maschile e femminile che va individuato e vissuto. Anche nei libri che ho scritto viene fuori questo. Sono romanzi scissi in due parti, al loro interno, e ogni parte è distanziata dall’altra di anni. Come Stefano e Stefania. Io sono e sarò sempre questo in tutto ciò che esprimo. Una volta che uno inizia a vedere la realtà attraverso questa cartina di tornasole la diversità non c’è più. Io valgo quello che vale un uomo in giacca e cravatta, come marito, padre e uomo".

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