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Da Kabul all’Italia, la storia del videomaker Arif: profugo per aver dato voce alle donne afghane

È dovuto fuggire dall’Afghanistan per aver raccontato la condizione femminile nel suo Paese: ora è accolto in una struttura Sai gestita da Fondazione Solidarietà Caritas e sogna un futuro e un lavoro che gli permetta di continuare a raccontare il suo Stato attraverso le immagini

di MAURIZIO COSTANZO -
4 settembre 2022
Afghanistan

Afghanistan

Un anno fa Arif Takveen era all'aeroporto di Kabul, la salvezza e la libertà erano a un passo e affidate a un volo: prenderlo significava lasciare a malincuore il suo Paese e la sua famiglia, ma anche lasciarsi alle spalle il regime e la persecuzione. In Afghanistan, fino a quel momento, aveva coltivato le sue passioni, il cinema e la fotografia, ed era riuscito a farne un lavoro. Come fotografo e videomaker ha organizzato festival, spettacoli teatrali e realizzato documentari con un preciso obiettivo: dare voce alle donne afghane raccontando la condizione femminile nel Paese. Quando i talebani, però, hanno (ri)preso il potere, la sua stessa vita, oltre a quella della popolazione femminile, è stata in pericolo. E così, dopo 48 lunghissime ore Arif, 32 anni, è riuscito a salire su quell’aereo. Ora è in salvo, ma non ha mai dimenticato chi era con lui e non ha potuto andare incontro alla sua stessa libertà: "Io sono riuscito a varcare la porta dell'aeroporto – ricorda - ma dietro di me una folla di persone invece non ce l'ha fatta".
Arif

Arif Takveen, fotografo e videomaker afghano fuggito ad agosto 2021 da Kabul

Una volta arrivato in Italia è stato a Roma per alcune settimane, poi ha trascorso qualche mese nel Centro di Accoglienza Straordinaria di Perugia e infine a maggio è stato accolto in Toscana, a Tavarnuzze, in una struttura di Villa Monticini che fa parte della rete Sai-Sistema Accoglienza Integrazione, gestita dalla Fondazione Solidarietà Caritas Onlus di Firenze. Nel suo Paese, pur essendo giovanissimo, si era già costruito un’importante carriera: aveva collaborato con l'associazione Bamiyan Culture and Art House, lavorato con molti gruppi artistici nazionali e internazionali, e anche con l'Afghan Film Directorate, che è un dipartimento del governo. Aveva portato anche in scena le leggende tradizionali afghane, un patrimonio culturale tramandato solo oralmente, e dopo essersi trasferito a Kabul ha collaborato con Aga Khan Foundation Afghanistan. Ha vinto numerosi premi e non solo nel suo Paese, ma proprio per quel suo lavoro, per i temi trattati e per la sua appartenenza a una minoranza etnica, non appena i talebani sono saliti al potere, è stato costretto a fuggire: era l'estate del 2021. Quando era arrivato a Firenze, Arif Takveen non conosceva una parola di italiano, mentre ora lo comprende e continua a studiarlo giorno e notte. Vorrebbe continuare a lavorare anche qui da noi nel mondo del cinema, della fotografia e del teatro, spera di trovare al più presto un impiego che gli consenta di uscire dalla struttura Sai e crearsi una nuova vita e costruirsi un futuro. Da parte loro, gli operatori di Fondazione Solidarietà Caritas lo stanno aiutando a trovare anche in Italia la sua strada. E recentemente gli è stata anche data la possibilità di farsi conoscere raccontando il suo Afghanistan, quello che si porta nel cuore, fatto di donne e uomini e di paesaggi unici. Lo ha fatto a Firenze, a Casa Corelli, dove ha presentato un suo reportage fotografico e due documentari nella serata “Raccontando Arif... percorsi di libertà artistica nell’oppressione”, promossa da Fondazione Solidarietà Caritas Onlus, Comune di Firenze e Sai.
afghanistan condizione femminile

Il videomaker racconta, dall'Italia, il suo Paese, attraverso il linguaggio universale dell'arte

“L'obiettivo del Sistema Accoglienza Integrazione - afferma Vincenzo Lucchetti, presidente della Fondazione Solidarietà Caritas - è il raggiungimento dell’autonomia individuale dei beneficiari accolti, intesa come una loro effettiva emancipazione dal bisogno di ricevere assistenza. Ogni ospite viene assistito da un'equipe multidisciplinare, e segue un percorso personalizzato, diventando protagonista attivo del proprio progetto di accoglienza e di inclusione sociale”. “Non era più l'Afghanistan che conoscevo – racconta Arif -. Quando i talebani sono arrivati a Bamiyan ero lì per attività teatrali e ho visto con i miei occhi quando hanno sparato ai Buddha. Era impossibile abituarmi a vedere giovani di 16 anni girare armati di fucile e compiere reati in nome della religione: i talebani conoscono solo la lingua della violenza, non il dialogo”. Subito dopo la presa del potere, i Talebani hanno fatto piombare la scure sui diritti delle donne afghane, azzerando le loro libertà e quelle di chi, come Arif, aveva dalla sua l’arma più potente del mondo: l’arte.