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Home » Lifestyle » La boxe come metafora di vita: il riscatto di Mirko Chiari col progetto “Pugni Chiusi”

La boxe come metafora di vita: il riscatto di Mirko Chiari col progetto “Pugni Chiusi”

Dopo trascorsi da malvivente quando non era nemmeno ventenne, oggi fa il volontario nel carcere di Bollate insegnando ai detenuti il pugilato

Giovanni Bogani
9 Febbraio 2023
Mirko Chiari

Mirko Chiari

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C’è chi al pugilato deve tutto. E cerca, adesso, di dare tutto. Mirko Chiari è un pugile con più di cento match di boxe alle spalle. E con una vita difficile, che ha sfiorato anche il carcere. Ma da qualche anno Mirko è tornato dietro le sbarre per insegnare pugilato ai detenuti. È stata la sua strada per la redenzione. Insieme alla letteratura e alla poesia. Che, imprevedibilmente, si porta tatuata addosso. Con il progetto “Pugni chiusi”, Mirko dal 2016 lavora come volontario al carcere di Bollate, coinvolgendo i detenuti in un corso che è anche un percorso di vita.

La stessa vita che a Mirko, a 19 anni, aveva anche presentato il conto: un motorino rubato, l’ingresso nei cancelli di San Vittore. Ma lì, un carcerato gli ha spiegato che “tutti abbiamo un tempo, e se siamo abbastanza fortunati possiamo decidere che cosa farne”. Chiari ha deciso: chiuso con i furti, inizia a lavorare, entra in palestra. Affronta 104 incontri, affronta la sofferenza inevitabile del pugno che arriva. Poi, nel 2016, entra nel carcere di Bollate. “Il pugile diventa tale quando comprende che la sua grande qualità è quella di saper soffrire. Deve imparare ad accettare il dolore, per arrivare a sentire che non c’è sconfitta in chi lotta”. Mirko adesso ha 45 anni. Per anni ha portato la boxe ai minorenni in difficoltà nei centri diurni del milanese, e poi è riuscito a portare il suo progetto nelle carceri. “A ogni lezione e a ogni colpo che insegniamo associo la storia particolare di un pugile. Per esempio, mentre spiego il colpo tipico del campione Micky Ward, distribuisco fotocopie col racconto della sua vita. Era cresciuto con una madre alcolizzata, il fratello tossicodipendente: vicende nelle quali molti miei allievi possono riconoscersi”.

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Alex Supertramp Diaz (@mirko.chiari)

Abbiamo incontrato Mirko Chiari qualche anno fa, casualmente, in un ostello sperduto nell’Appennino. “Guido il camion della nettezza urbana dalle sei la mattina fino a mezzogiorno – ci diceva -. E alle due sono già ad allenarmi”. Prima dei combattimenti, raccontava, ascoltava Chet Baker o Miles Davis. Due jazzisti. Mirko ama Francesco Guccini, Fabrizio De André e Bob Dylan. Sul corpo, ha tatuato l’Infinito di Leopardi, un canto dell’Inferno di Dante, un brano del Paradiso perduto di Milton. Su un braccio, ha una poesia di Emily Dickinson. E sull’avambraccio destro ha una preghiera. “Che io abbia la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, e il coraggio di cambiare quelle che posso”. La sua grande passione, però, confessa – e pensi a qualcosa di violento – è William Shakespeare. Ha letto dieci volte “Il mercante di Venezia” e “Giulio Cesare”. Non riesci a credere che un ragazzo cresciuto a Quarto Oggiaro, figlio di un camionista, sappia citare Shakespeare a memoria, che conosca le terzine di Dante e gli assoli di Miles Davis alla tromba.

Uno scatto dopo un allenamento di box all’università Bocconi (Instagram)

Adesso ha raccontato la sua storia ad Antiniska Pozzi, nel libro “Per essere Chiari“, per Milieu edizioni. “Il pugilato può sembrare un ambiente dove si dà sfogo alle frustrazioni personali picchiando qualcun altro, e questa talvolta è la scintilla che fa cominciare alcuni”, dice Mirko. “Ma dal primo allenamento ci si accorge che la boxe non è fatta di furia e di sfogo, tutt’altro: occorre disciplina. Perché sul ring il dolore è inevitabile, e bisogna imparare a gestirlo. Ma è qui che comincia il percorso di crescita. E prende forma un nuovo rispetto per se stessi”. “Quando si parla di carceri, c’è sempre la paura del mostro, ma mostri qui non ne incontro. Invece ci sono tante persone consapevoli di avere commesso un reato che scontano la loro pena con dignità. Anche in quest’ottica la boxe è una buona metafora della vita. Farsi portare all’angolo di un ring, contro le corde, non è diverso dal trovarsi sovrastati da un problema più grosso di noi. Cresciamo quando troviamo la capacità di affrontarlo”.

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Abbiamo incontrato Mirko Chiari qualche anno fa, casualmente, in un ostello sperduto nell’Appennino. "Guido il camion della nettezza urbana dalle sei la mattina fino a mezzogiorno - ci diceva -. E alle due sono già ad allenarmi". Prima dei combattimenti, raccontava, ascoltava Chet Baker o Miles Davis. Due jazzisti. Mirko ama Francesco Guccini, Fabrizio De André e Bob Dylan. Sul corpo, ha tatuato l’Infinito di Leopardi, un canto dell’Inferno di Dante, un brano del Paradiso perduto di Milton. Su un braccio, ha una poesia di Emily Dickinson. E sull’avambraccio destro ha una preghiera. "Che io abbia la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, e il coraggio di cambiare quelle che posso". La sua grande passione, però, confessa – e pensi a qualcosa di violento – è William Shakespeare. Ha letto dieci volte "Il mercante di Venezia" e "Giulio Cesare". Non riesci a credere che un ragazzo cresciuto a Quarto Oggiaro, figlio di un camionista, sappia citare Shakespeare a memoria, che conosca le terzine di Dante e gli assoli di Miles Davis alla tromba.
Uno scatto dopo un allenamento di box all'università Bocconi (Instagram)
Adesso ha raccontato la sua storia ad Antiniska Pozzi, nel libro "Per essere Chiari", per Milieu edizioni. "Il pugilato può sembrare un ambiente dove si dà sfogo alle frustrazioni personali picchiando qualcun altro, e questa talvolta è la scintilla che fa cominciare alcuni", dice Mirko. "Ma dal primo allenamento ci si accorge che la boxe non è fatta di furia e di sfogo, tutt’altro: occorre disciplina. Perché sul ring il dolore è inevitabile, e bisogna imparare a gestirlo. Ma è qui che comincia il percorso di crescita. E prende forma un nuovo rispetto per se stessi". "Quando si parla di carceri, c’è sempre la paura del mostro, ma mostri qui non ne incontro. Invece ci sono tante persone consapevoli di avere commesso un reato che scontano la loro pena con dignità. Anche in quest’ottica la boxe è una buona metafora della vita. Farsi portare all’angolo di un ring, contro le corde, non è diverso dal trovarsi sovrastati da un problema più grosso di noi. Cresciamo quando troviamo la capacità di affrontarlo".
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