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Home » Lifestyle » Ci molestate per strada? E noi scendiamo in piazza. Dalla ribellione di quattro ragazze nasce il movimento contro il catcalling

Ci molestate per strada? E noi scendiamo in piazza. Dalla ribellione di quattro ragazze nasce il movimento contro il catcalling

Da Aurora Ramazzotti a Vera Gheno fino alle giovani coraggiose di Break the silence: ecco chi combatte il catcalling. Le vittime sono donne, gay, transgender a cui vengono rivolti fischi, epiteti, insulti. In Francia è reato, in Italia la reazione è arrivata da quattro ragazze, che hanno creato un movimento di protesta

Elisa Capobianco
15 Aprile 2021
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L’attrice Vittoria Puccini ha espresso solidarietà alle donne vittime di catcalling

Che cos’è il catcalling?  Si chiama catcalling, ma i gatti non c’entrano. Qualcosa di animalesco però in questo gioco perverso c’è. È l’atteggiamento degli uomini che vorrebbero mascherare da complimento le molestie di strada. Fischi, apprezzamenti a sfondo sessuale, eleganti strombazzate dall’auto, commenti volgari, squallidi abbordaggi, proposte e perfino insulti. Una lunga lista di ‘attenzioni’ per le quali la preda prescelta dovrebbe – secondo qualcuno – addirittura ringraziare lo sconosciuto di turno, sentendosi lusingata da cotanta premura.

Succede da sempre, se ne parla da poco. Troppo poco. A rompere il silenzio nei giorni scorsi ha pensato Aurora Ramazzotti che ha denunciato su Instagram di esserne stata vittima facendo jogging al parco: “Appena mi metto una gonna o mi tolgo la giacca sportiva mentre sto correndo, sento fischi o commenti sessisti. Mi fate schifo”.

E giù messaggi di solidarietà e pure qualche critica addirittura offensiva, paradossalmente proprio dalle donne. 

Tra le prime a schierarsi con Aurora, l’attrice Vittoria Puccini che ha ricordato il senso di disagio provato da ragazzina quando qualcuno per strada le diceva “cose” o fischiava. Ma il fenomeno è assai più comune di quanto si possa immaginare e non importa certo essere dive del cinema… Stessa sorte è toccata anche a chi scrive. L’episodio più traumatico quando rientrando a piedi da scuola un tizio, dopo qualche battuta a vuoto, mi seguì costringendomi a trovare rifugio in un negozio. Avevo 11 anni. Non riuscii neppure a chiedere aiuto. Mi vergognavo: inconsciamente temevo che in qualche modo potesse essere colpa mia, della femminilità che stava plasmando le mie forme.

Secondo un sondaggio dell’organizzazione no profit Stop street harassment, le molestie di strada riguardano l’83 per cento delle donne. Il carico da novanta? Il rischio che dalle parole si possa passare ai fatti, ovvero all’aggressione fisica. “Del resto, l’uomo è predatore. L’italiano, e il maschio latino in generale, fischia. Anche le turiste lo sanno!”, chiosa qualcuno. Ma siamo proprio sicuri che funzioni così? Nel 2018 il governo francese ha reso illegali le molestie sessuali in strada e sui mezzi pubblici. Un reato e con multa salata.

 

 

Le fondatrici di “Break the silence” nella piazza torinese dove hanno lanciato il movimento: da sinistra Giulia Chinigò, Francesca Sapey, Francesca Valentina Penotti, Mariachiara Cataldo

“Noi vittime, adesso basta:  rompiamo il silenzio”

Torino, giugno 2020. È appena finito il primo lockdown. Tre amiche passeggiano festeggiando per quel briciolo di libertà ritrovata dopo mesi di privazione.  Un gruppo di ragazzi le abborda urlando frasi volgari a sfondo sessuale. “Guardate che fondoschiena (parafrasando, nda)! Belle, ci facciamo un giro?”. Scatta l’inseguimento. Le ragazze all’inizio reagiscono ignorandoli, poi rispondendo per le rime. Alla fine correndo via a perdifiato tremando. “Non era la prima volta che capitava, non è così raro che uno sconosciuto ci indirizzi frasi poco edificanti… Ma questo assalto ci ha spaventato talmente che ci siamo messe a correre fino alla macchina e scappare il più lontano possibile. Ho provato tanta rabbia”, ricorda Mariachiara Cataldo, studentessa 24enne.

Una rabbia che la porta a scrivere uno sfogo sui social. “Mi sono lamentata del fatto che le ragazze nel 2020 non siano ancora veramente libere di uscire senza sentirsi in pericolo”, racconta. Il post diventa virale con oltre duecento messaggi solidali e di condivisione in ventiquattro ore. “Non mi aspettavo una simile reazione, ho capito che il catcalling esiste e che bisogna parlarne. Intendiamoci, nessuno vuol abolire i rapporti sociali, il corteggiamento. Ma c’è una bella differenza tra l’approccio di chi ti vuol conoscere e di chi invece vuol metterti a disagio”.

 

Tutte in piazza, con i gessetti in mano

Ed ecco nascere il movimento social ‘Break the silence Ita’: un invito a rompere il silenzio raccolto da donne di tutta Italia che trovano il coraggio di raccontare la loro esperienza e chiedere consigli. Le pagine Facebook e Instagram di ‘Break the silence Ita’ si trasformano in pochi mesi in un manifesto sull’antiviolenza. Una piazza nella quale Mariachiara Cataldo e le amiche Francesca Valentina Penotti, Giulia Chinigò e Francesca Sapey danno voce a tutte le ragazze che non vogliono più stare zitte, allungando il passo per paura o vergogna davanti alle molestie.

Dal virtuale si passa al reale: flash mob nelle città con simpatizzanti armate di gessetto per scrivere sui marciapiedi i ‘complimenti’ non richiesti più frequenti; ma anche progetti in collaborazione con esperti e forze dell’ordine per sensibilizzare al problema, insegnando alle vittime di molestie come difendersi, supportandole psicologicamente e non solo.

“Il catcalling può sconvolgere la quotidianità e la serenità di chi, non necessariamente donna, vorrebbe soltanto andarsene in giro a farsi gli affari propri. In Italia il dibattito è ancora molto indietro, mentre altrove – vedi Francia – il catcalling è reato”, spiega Francesca Valentina Penotti. “Le cause del fenomeno sono da ricercare negli stereotipi, in una mentalità maschilista o comunque discriminatoria, che gioca talvolta addirittura sul senso di colpa stesso di chi subisce. Ricordiamocelo: una scollatura più profonda o un jeans più attillato non fanno sì che una donna meriti di esser molestata”, le fa eco Giulia Chinigò. 

 

 

Vera Gheno, sociolinguista esperta in comunicazione digitale

La sociolinguista Vera Gheno: “Termine nuovo per un fenomeno vecchio”

Per qualcuno il termine inglese catcalling è eccessivamente moderno per descrivere un fenomeno antico, per altri fa troppo chic e, rimandando all’immagine del gatto, rischia di sminuire la serietà del problema. Ma sarà davvero così? Vera Gheno è sociolinguista di vasta fama, specializzata in comunicazione digitale. Docente universitaria, vanta una collaborazione ventennale con l’Accademia della Crusca nonché spiccata sensibilità verso le tematiche di genere e attenzione speciale al linguaggio inclusivo.

Come nasce il termine catcalling?  

“Ritenere che faccia riferimento ai miagolii fastidiosi dei gatti o al richiamo per i gatti è un errore. Nel diciassettesimo secolo era un fischietto usato a teatro per criticare uno spettacolo o gli attori. Da qui, la definizione di fischio o urlo di disapprovazione verso un evento. Successivamente il termine catcalling è stato usato per indicare un apprezzamento a sfondo sessuale o un fischio indirizzato a una persona per strada. Simona Cresti e Licia Corbolante dedicano alla parola due analisi interessanti”.

Esiste un sinonimo nella lingua italiana?

“Certo, andiamo dalle molestie o molestie verbali per strada al pappagallismo, ovvero il comportamento da ‘pappagalli della strada’. Quest’ultimo descrive, infatti, l’atteggiamento di chi, in maniera insistente, importuna le donne per la via. Si tratta, però, di un vocabolo subdolo e caduto in disuso. Tra gli anni Sessanta e Settanta veniva fondamentalmente associato al maschio latino, al playboy, nonché a una condotta tutto sommato socialmente accettabile”. 

Perché allora adottare un termine inglese?

“Il pubblico ha scoperto il catcalling perché termine inglese diffuso, breve e semplice da ricordare. Qualcuno ha criticato l’uso di un anglicismo, che dire… Molestie verbali per strada, pappagallismo, catcalling: per me, comunque lo si chiami, rimane un comportamento deprecabile. Un atto che può provocare una reazione che va dal semplice fastidio al disagio più grande, con conseguenze psicologiche anche pesanti. Dipende ovviamente dalle singole persone”.

Qual è la sua opinione sul catcalling? Anche lei ne è stata vittima.

“Molti ne parlano come di qualcosa quasi inevitabile, che rientra tra le pratiche un po’ sciocche ma ‘naturali’ della nostra società. Personalmente potendo scegliere preferirei scomparisse, assieme ad altre abitudini ‘sociali’ fastidiose e apparentemente accettabili. Non è che siccome ‘Si è sempre fatto così…’ occorra continuare ad andare avanti allo stesso modo, guai a intervenire sulla ‘tradizione’. Il punto è che il catcalling è un’esibizione di potere, un atteggiamento che mette a disagio il prossimo quindi è per definizione sbagliato. A me è capitato di esserne vittima e di reagire con gestacci, urlare cose irripetibili all’indirizzo dell’apostrofante, ma anche di accelerare il passo, cambiare strada, rifugiarmi in un negozio, tremare di frustrazione. Le mie reazioni dipendono da un sacco di variabili, come quelle, credo, di qualunque altra persona. In genere le donne si difendono preventivamente mettendosi le cuffie con la musica per non sentire…”.

Le vittime del catcaller sono soltanto ragazze e donne?

“Soprattutto ma non solo. Spesso la battuta può essere indirizzata, per esempio, a un omosessuale o a un transgender. In generale all’altro individuato come diverso e più vulnerabile. Come esibizione di potere, è esercitata verso qualcuno che in quel momento è visto in posizione di minoranza. Con il catcaller non c’è mai un rapporto alla pari, non è mai uno a uno. Il catcalling si basa su uno squilibrio”.

Qualcosa sta cambiando a livello culturale?

“Già il fatto che se ne parli di più coincide con una mutata sensibilità sociale, con il superamento dell’idea che le cose non si possano cambiare. In fondo, è questione di educazione al rispetto e all’empatia. Le nuove generazioni non sono più attente al problema perché nuove… È che nel frattempo stanno cambiando i modi di essere maschi e femmine. I giovani hanno fondamentalmente un approccio più fluido. Molto dipende anche da ciò che viene insegnato loro. Nei libri di testo per la scuola, per fortuna, stanno progressivamente scomparendo figure che rimandano agli stereotipi. La direzione insomma è quella giusta”.

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Instagram

  • Numerosi attori e musicisti di alto profilo si sono recati in Ucraina da quando è scoppiata la guerra con la Russia nel febbraio 2022. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’attore britannico Orlando Bloom, che ieri ha visitato un centro per bambini e ha incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Kiev.

“Non mi sarei mai aspettato che la guerra si sarebbe intensificata in tutto il Paese da quando sono stato lì”, ha detto Bloom su Instagram, “Ma oggi ho avuto la fortuna di ascoltare le risate dei bambini in un centro del programma Spilno sostenuto dall’Unicef, uno spazio sicuro, caldo e accogliente dove i bambini possono giocare, imparare e ricevere supporto psicosociale”.

Bloom è un ambasciatore di buona volontà per l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef). Il centro di Splino, che è uno dei tanti in Ucraina, offre sostegno ai bambini sfollati e alle loro famiglie, con più di mezzo milione di bambini che ne hanno visitato uno nell’ultimo anno.

La star hollywoodiana ha poi incontrato il presidente Zelensky, con cui ha trattato temi tra cui il ritorno dei bambini ucraini deportati in Russia, la creazione di rifugi antiatomici negli istituti scolastici e il supporto tecnico per l’apprendimento a distanza nelle aree in cui è impossibile studiare offline a causa della guerra. L’attore britannico aveva scritto ieri su Instagram, al suo arrivo a Kiev, che i «bambini in Ucraina hanno bisogno di riavere la loro infanzia».

#lucelanazione #lucenews #zelensky #orlandobloom
  • “La vita che stavo conducendo mi rendeva particolarmente infelice e se all’inizio ero entrata in terapia perché volevo accettare il fatto che mi dovessi nascondere, ho avuto poi un’evoluzione e questo percorso è diventato di accettazione di me stessa."

✨Un sorriso contagioso, la spensieratezza dei vent’anni e la bellezza di chi si piace e non può che riflettere quella luce anche al di fuori. La si potrebbe definire una Mulan nostrana Carlotta Bertotti, 23 anni, una ragazza torinese come tante, salvo che ha qualcosa di speciale. E non stiamo parlano del Nevo di Ota che occupa metà del suo volto. Ecco però spiegato un primo punto di contatto con Mulan: l’Oriente, dove è più diffusa (insieme all’Africa) quell’alterazione di natura benigna della pigmentazione della cute intorno alla zona degli occhi (spesso anche la sclera si presenta scura). Quella che appare come una chiazza grigio-bluastra su un lato del volto (rarissimi i casi bilaterali), colpisce prevalentemente persone di sesso femminile e le etnie asiatiche (1 su 200 persone in Giappone), può essere presente alla nascita o apparire durante la pubertà. E come la principessa Disney “fin da piccola ho sempre sentito la pressione di dover salvare tutto, ma forse in realtà dovevo solo salvare me stessa. Però non mi piace stare troppo alle regole, sono ribelle come lei”.

🗣Cosa diresti a una ragazza che ha una macchia come la tua e ti chiede come riuscire a conviverci?�
“Che sono profondamente fiera della persona che vedo riflessa allo specchio tutto i giorni e sono arrivata a questa fierezza dopo che ho scoperto e ho accettato tutti i miei lati, sia positivi che negativi. È molto autoreferenziale, quindi invece se dovessi dare un consiglio è quello che alla fine della fiera il giudizio altrui è momentaneo e tutto passa. L’unica persona che resta e con cui devi convivere tutta la vita sei tu, quindi le vere battaglie sono quelle con te stessa, quelle che vale la pena combattere”.

L’intervista a cura di Marianna Grazi �✍ 𝘓𝘪𝘯𝘬 𝘪𝘯 𝘣𝘪𝘰

#lucenews #lucelanazione #carlottabertotti #nevodiota
  • La salute mentale al centro del podcast di Alessia Lanza. Come si supera l’ansia sociale? Quanto è difficile fare coming out? Vado dallo psicologo? Come trovo la mia strada? La popolare influencer, una delle creator più note e amate del web con 1,4 milioni di followers su Instagram e 3,9 milioni su TikTok, Alessia Lanza debutta con “Mille Pare”, il suo primo podcast in cui affronta, in dieci puntate, una “para” diversa e cerca di esorcizzare le sue fragilità e, di riflesso, quelle dei suoi coetanei.

“Ho deciso di fare questo podcast per svariati motivi: io sono arrivata fin qui anche grazie alla mia immagine, ma questa volta vorrei che le persone mi ascoltassero e basta. Quando ho cominciato a raccontare le mie fragilità un sacco di persone mi hanno detto ‘Anche io ho quella para lì!’. Perciò dico parliamone, perché in un mondo in cui sembra che dobbiamo farcela da soli, io credo nel potere della condivisione”.

#lucenews #lucelanazione #millepare #alessialanza #podcast
  • Si è laureata in Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali indossando un abito tradizionale Crow, tribù della sua famiglia adottiva in Montana. Eppure Raffaella Milandri è italianissima e ha conseguito il titolo nella storica università Alma Mater di Bologna, lo scorso 17 marzo. 

La scrittrice e giornalista nel 2010 è diventata membro adottivo della famiglia di nativi americani Black Eagle. Da quel momento quella che era una semplice passione per i popoli indigeni si è focalizzata sullo studio degli aborigeni Usa e sulla divulgazione della loro cultura.

Un titolo di studio specifico, quello conseguito dalla Milandri, “Che ho ritenuto oltremodo necessario per coronare la mia attività di studiosa e attivista per i diritti dei Nativi Americani e per i Popoli Indigeni. La prima forma pacifica di attivismo è divulgare la cultura nativa”. L’abito indossato durante cerimonia di laurea appartiene alla tribù della sua famiglia adottiva. Usanza che è stata istituzionalizzata solo dal 2017 in Montana, Stato d’origine del suo popolo, quando è stata approvata una legge (la SB 319) che permette ai nativi e loro familiari di laurearsi con il “tribal regalia“. 

In virtù di questa norma, il Segretario della Crow Nation, Levi Black Eagle, a maggio 2022 ha ricordato la possibilità di indossare l’abito tradizionale Crow in queste occasioni e così Milandri ha chiesto alla famiglia d’adozione se anche lei, in quanto membro acquisito della tribù, avrebbe potuto indossarlo in occasione della sua discussione.

La scrittrice, ricordando il momento della laurea a Bologna, racconta che è stata “Una grandissima emozione e un onore poter rappresentare la Crow Nation e la mia famiglia adottiva. Ho dedicato la mia laurea in primis alle vittime dei collegi indiani, istituti scolastici, perlopiù a gestione cattolica, di stampo assimilazionista. Le stesse vittime per le quali Papa Francesco, lo scorso luglio, si è recato in Canada in viaggio penitenziale a chiedere scusa  Ho molto approfondito questo tema controverso e presto sarà pubblicato un mio studio sull’argomento dalla Mauna Kea Edizioni”.

#lucenews #raffaellamilandri #antropologia
L'attrice Vittoria Puccini ha espresso solidarietà alle donne vittime di catcalling
Che cos’è il catcalling?  Si chiama catcalling, ma i gatti non c’entrano. Qualcosa di animalesco però in questo gioco perverso c’è. È l’atteggiamento degli uomini che vorrebbero mascherare da complimento le molestie di strada. Fischi, apprezzamenti a sfondo sessuale, eleganti strombazzate dall’auto, commenti volgari, squallidi abbordaggi, proposte e perfino insulti. Una lunga lista di ‘attenzioni’ per le quali la preda prescelta dovrebbe – secondo qualcuno – addirittura ringraziare lo sconosciuto di turno, sentendosi lusingata da cotanta premura. Succede da sempre, se ne parla da poco. Troppo poco. A rompere il silenzio nei giorni scorsi ha pensato Aurora Ramazzotti che ha denunciato su Instagram di esserne stata vittima facendo jogging al parco: “Appena mi metto una gonna o mi tolgo la giacca sportiva mentre sto correndo, sento fischi o commenti sessisti. Mi fate schifo”. E giù messaggi di solidarietà e pure qualche critica addirittura offensiva, paradossalmente proprio dalle donne.  Tra le prime a schierarsi con Aurora, l’attrice Vittoria Puccini che ha ricordato il senso di disagio provato da ragazzina quando qualcuno per strada le diceva “cose” o fischiava. Ma il fenomeno è assai più comune di quanto si possa immaginare e non importa certo essere dive del cinema… Stessa sorte è toccata anche a chi scrive. L’episodio più traumatico quando rientrando a piedi da scuola un tizio, dopo qualche battuta a vuoto, mi seguì costringendomi a trovare rifugio in un negozio. Avevo 11 anni. Non riuscii neppure a chiedere aiuto. Mi vergognavo: inconsciamente temevo che in qualche modo potesse essere colpa mia, della femminilità che stava plasmando le mie forme. Secondo un sondaggio dell’organizzazione no profit Stop street harassment, le molestie di strada riguardano l’83 per cento delle donne. Il carico da novanta? Il rischio che dalle parole si possa passare ai fatti, ovvero all’aggressione fisica. “Del resto, l’uomo è predatore. L’italiano, e il maschio latino in generale, fischia. Anche le turiste lo sanno!”, chiosa qualcuno. Ma siamo proprio sicuri che funzioni così? Nel 2018 il governo francese ha reso illegali le molestie sessuali in strada e sui mezzi pubblici. Un reato e con multa salata.    
Le fondatrici di "Break the silence" nella piazza torinese dove hanno lanciato il movimento: da sinistra Giulia Chinigò, Francesca Sapey, Francesca Valentina Penotti, Mariachiara Cataldo

"Noi vittime, adesso basta:  rompiamo il silenzio"

Torino, giugno 2020. È appena finito il primo lockdown. Tre amiche passeggiano festeggiando per quel briciolo di libertà ritrovata dopo mesi di privazione.  Un gruppo di ragazzi le abborda urlando frasi volgari a sfondo sessuale. “Guardate che fondoschiena (parafrasando, nda)! Belle, ci facciamo un giro?”. Scatta l’inseguimento. Le ragazze all’inizio reagiscono ignorandoli, poi rispondendo per le rime. Alla fine correndo via a perdifiato tremando. “Non era la prima volta che capitava, non è così raro che uno sconosciuto ci indirizzi frasi poco edificanti… Ma questo assalto ci ha spaventato talmente che ci siamo messe a correre fino alla macchina e scappare il più lontano possibile. Ho provato tanta rabbia”, ricorda Mariachiara Cataldo, studentessa 24enne. Una rabbia che la porta a scrivere uno sfogo sui social. “Mi sono lamentata del fatto che le ragazze nel 2020 non siano ancora veramente libere di uscire senza sentirsi in pericolo”, racconta. Il post diventa virale con oltre duecento messaggi solidali e di condivisione in ventiquattro ore. “Non mi aspettavo una simile reazione, ho capito che il catcalling esiste e che bisogna parlarne. Intendiamoci, nessuno vuol abolire i rapporti sociali, il corteggiamento. Ma c’è una bella differenza tra l’approccio di chi ti vuol conoscere e di chi invece vuol metterti a disagio”.  

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La sociolinguista Vera Gheno: “Termine nuovo per un fenomeno vecchio”

Per qualcuno il termine inglese catcalling è eccessivamente moderno per descrivere un fenomeno antico, per altri fa troppo chic e, rimandando all’immagine del gatto, rischia di sminuire la serietà del problema. Ma sarà davvero così? Vera Gheno è sociolinguista di vasta fama, specializzata in comunicazione digitale. Docente universitaria, vanta una collaborazione ventennale con l’Accademia della Crusca nonché spiccata sensibilità verso le tematiche di genere e attenzione speciale al linguaggio inclusivo. Come nasce il termine catcalling?   “Ritenere che faccia riferimento ai miagolii fastidiosi dei gatti o al richiamo per i gatti è un errore. Nel diciassettesimo secolo era un fischietto usato a teatro per criticare uno spettacolo o gli attori. Da qui, la definizione di fischio o urlo di disapprovazione verso un evento. Successivamente il termine catcalling è stato usato per indicare un apprezzamento a sfondo sessuale o un fischio indirizzato a una persona per strada. Simona Cresti e Licia Corbolante dedicano alla parola due analisi interessanti”. Esiste un sinonimo nella lingua italiana? “Certo, andiamo dalle molestie o molestie verbali per strada al pappagallismo, ovvero il comportamento da ‘pappagalli della strada’. Quest’ultimo descrive, infatti, l’atteggiamento di chi, in maniera insistente, importuna le donne per la via. Si tratta, però, di un vocabolo subdolo e caduto in disuso. Tra gli anni Sessanta e Settanta veniva fondamentalmente associato al maschio latino, al playboy, nonché a una condotta tutto sommato socialmente accettabile”.  Perché allora adottare un termine inglese? “Il pubblico ha scoperto il catcalling perché termine inglese diffuso, breve e semplice da ricordare. Qualcuno ha criticato l’uso di un anglicismo, che dire… Molestie verbali per strada, pappagallismo, catcalling: per me, comunque lo si chiami, rimane un comportamento deprecabile. Un atto che può provocare una reazione che va dal semplice fastidio al disagio più grande, con conseguenze psicologiche anche pesanti. Dipende ovviamente dalle singole persone”. Qual è la sua opinione sul catcalling? Anche lei ne è stata vittima. “Molti ne parlano come di qualcosa quasi inevitabile, che rientra tra le pratiche un po' sciocche ma ‘naturali’ della nostra società. Personalmente potendo scegliere preferirei scomparisse, assieme ad altre abitudini ‘sociali’ fastidiose e apparentemente accettabili. Non è che siccome ‘Si è sempre fatto così…’ occorra continuare ad andare avanti allo stesso modo, guai a intervenire sulla ‘tradizione’. Il punto è che il catcalling è un’esibizione di potere, un atteggiamento che mette a disagio il prossimo quindi è per definizione sbagliato. A me è capitato di esserne vittima e di reagire con gestacci, urlare cose irripetibili all'indirizzo dell'apostrofante, ma anche di accelerare il passo, cambiare strada, rifugiarmi in un negozio, tremare di frustrazione. Le mie reazioni dipendono da un sacco di variabili, come quelle, credo, di qualunque altra persona. In genere le donne si difendono preventivamente mettendosi le cuffie con la musica per non sentire…”. Le vittime del catcaller sono soltanto ragazze e donne? “Soprattutto ma non solo. Spesso la battuta può essere indirizzata, per esempio, a un omosessuale o a un transgender. In generale all’altro individuato come diverso e più vulnerabile. Come esibizione di potere, è esercitata verso qualcuno che in quel momento è visto in posizione di minoranza. Con il catcaller non c’è mai un rapporto alla pari, non è mai uno a uno. Il catcalling si basa su uno squilibrio”. Qualcosa sta cambiando a livello culturale? “Già il fatto che se ne parli di più coincide con una mutata sensibilità sociale, con il superamento dell'idea che le cose non si possano cambiare. In fondo, è questione di educazione al rispetto e all’empatia. Le nuove generazioni non sono più attente al problema perché nuove… È che nel frattempo stanno cambiando i modi di essere maschi e femmine. I giovani hanno fondamentalmente un approccio più fluido. Molto dipende anche da ciò che viene insegnato loro. Nei libri di testo per la scuola, per fortuna, stanno progressivamente scomparendo figure che rimandano agli stereotipi. La direzione insomma è quella giusta”.
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