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Home » Lifestyle » “Discriminata per il mio nome e il velo che indosso”. La denuncia dell’influencer Tasnim Ali sul razzismo negli affitti

“Discriminata per il mio nome e il velo che indosso”. La denuncia dell’influencer Tasnim Ali sul razzismo negli affitti

Italiana, anzi romana, ma nata da genitori egiziani. La 22enne idolo dei social racconta la sua ricerca di una casa in cui andare a convivere col compagno: "Va tutto bene finche non dico il mio nome. Poi le cose cambiano". Una realtà comune a moltissimi stranieri - e non solo - alle prese con la ricerca di affitti preclusi per la loro origine o per il colore della loro pelle

Marianna Grazi
8 Ottobre 2021
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Trovare una casa in affitto può diventare una vera missione impossibile. No, non per i costi proibitivi, ma per la discriminazione attuata nei confronti di chi vorrebbe affittare l’immobile. “No stranieri e no animali” si legge negli annunci, o ancora “si affitta a soli italiani, no studenti universitari, no erasmus, no extracomunitari”. Una pratica sempre più comune, che ricorda i fatti già accaduti negli anni ’50, quando a Milano (ma in generale in tutto il nord Italia, motore della Penisola) apparivano cartelli con le scritte “non si affitta ai napoletani”. Poi, col passare dei decenni, la discriminazione è cambiata: prima è stato il turno degli albanesi, in seguito e ancora oggi gli “extracomunitari” provenienti dall’Africa e dall’America latina. Non solo riconosciuti e, di conseguenza, discriminati per il colore della pelle o per il nome che tradisce origini lontane, ma sempre più anche gli abiti (e in particolare il velo islamico), sono motivo di ‘selezione’ da parte degli affittuari.

 

Il caso dell’influencer Tasnim Ali

Tasnim Ali, 22 anni, è un idolo dei social con oltre mezzo milione di follower e 120mila persone che seguono i suoi video su TikTok. Ed è proprio dai social che lancia la sua denuncia, contro una pratica purtroppo molto comune in Italia. Qualche mese fa si è sposata (con un contratto matrimoniale islamico) con un ragazzo egiziano e i due, come ogni coppia, cercano una casa per andare a convivere. Ma il contratto pare essere un miraggio. “Funziona così – spiega la giovane -. Leggo un annuncio che mi interessa, chiamo l’agenzia immobiliare, chiedo informazioni. Parliamo tranquillamente fino a quando non mi presento con il mio nome“. Tasnim è nata ad Arezzo da genitori egiziani, vive a Roma e suo papà è l’Imam della Magliana. Chiudendo gli occhi e ascoltando soltanto la sua voce a colpirvi è il suo accento romanesco. E così, finché non rivela la sua identità, nemmeno gli agenti immobiliari possono distinguerla da qualsiasi altra ragazza della Capitale.
Tasnim con il marito alla firma del contratto matrimoniale islamico

“Dall’altra parte non si può sapere se sono straniera“, continua. I dettagli sull’immobile, le questioni tecniche, un appuntamento per visitare la casa. Poi la fatidica domanda dell’affittuario: “Mi può dire il suo nome?”. Ed ecco che tutto cambia: “Tasnim Ali”, risponde l’influencer. “Cosa?” si sente dall’altra parte della cornetta. “Tasnim Ali: Torino-Ancona-Savona-Napoli… ecc”, specifica la ragazza. “Ah… va bene…” si sente l’interlocutore titubante, dall’altro lato. “La voce inizia a cambiare, sempre così succede – spiega Ali – E poi dopo un’oretta o anche il giorno stesso dell’appuntamento, puntualmente, la casa è già stata affittata“. Possibile? All’inizio la 22enne attribuiva tutto alla casualità. “Ma poi gli episodi sono diventati troppo frequenti, era così per ogni appartamento, anche per quelli che avremmo voluto fermare, con caparra e mensilità in anticipo, senza averli visionati”.
“Capita che già dopo 10-15 minuti dalla chiamata ci richiamano per dirci “Ci dispiace, l’appartamento è stato affittato”, “Non è più disponibile”. Motivo per cui, da tre mesi, sono a caccia di un appartamento senza particolari pretese – precisa – una casa normale, siamo una giovane coppia”.

 

Una prassi comune basata su stereotipi

Una prassi discriminatoria assurda, che la ragazza ha voluto denunciare in prima persona spiegando quanta fatica stia facendo per trovare una sistemazione insieme al suo compagno. “Addirittura su WhatsApp ho persino dovuto togliere l’immagine del profilo, perché è successo che dopo aver dato il numero, magari (l’affittuario o l’agente immobiliare, ndr) doveva scriverci o io dovevo mandargli un messaggio, non mi rispondevano più”. Il perché è presto detto: nell’immagine del profilo Tasnim appare con il velo islamico. 

 

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Un post condiviso da Tasnim Ali (@alitasnim)

Così trovare una dimora dove costruirsi una famiglia, per la giovane coppia sposata appena qualche mese fa, diventa una vera impresa: “Non troviamo casa per colpa dei nostri “nomi”: troppo stranieri. Infatti adesso mi chiamo Simona, mi faccio chiamare Simona. Per assicurare a chi sta al telefono con me che sono italiana”, dice amaramente. Il velo, il nome, le origini culturali e di sangue: quello che la identifica è quello che le impedisce di costruirsi una vita. “Come si chiama questo? Razzismo”.

Quella dell’influencer romana, tuttavia, non è una storia isolata. “Parlandone con altre persone straniere, mi hanno detto che anche a loro succede lo stesso. Mi hanno quindi confermato che è proprio questione di razzismo“. Tra i casi più noti, soprattutto sui social network, quello di Bellamy Okot (@darkchocolatecreature), influencer e attivista afro, nata in Italia da genitori ugandesi, che – ironicamente – ha voluto riprodurre in un reel quello che solitamente accade alle persone nere: “Quando ci presentiamo all’appuntamento per vedere un appartamento o una casa l’agente improvvisamente si dilegua e la casa è già stata presa“. Ma non solo, episodi come questi si ripetono quasi quotidianamente nei confronti di persone di cultura, religione, addirittura orientamento sessuale, ‘diverso dalla norma’.

“Le mie sorelle (tra le quali c’è Miriam Ali, candidata al consiglio comunale con Demos, all’interno della coalizione di centrosinistra, ndr) tra l’altro, mi hanno detto che in realtà da una parte hanno ragione – aggiunge Tasnim Ali -. Questo perché molti stranieri quando vengono qui o non pagano l’affitto, o lasciano la casa in condizioni pessime o quando prendono un mutuo iniziano a pagare per poi lasciare la casa così com’è e tornare al loro Paese – aggiunge Tasnim -. Solo che non la trovo una cosa tanto giusta: perché generalizzare?“. Che conclude: “L’origine non c’entra niente. E comunque il mio Paese è questo, sono nata in Italia“.

Italiani discriminati da italiani

Spesso, come è accaduto a Tasnim e a Bellamy, le vittime del pregiudizio degli affittuari sono italiani e italiane con origini straniere, che vivono, studiano, lavorano nel nostro Paese da decenni, magari da tutta la vita. Com’è successo, qualche mese fa, ad una coppia di cinquantenni residente a Pavia, che si è vista rifiutare l’affitto di un appartamento dopo che il proprietario, all’appuntamento per la firma del contratto, ha visto il colore della pelle dell’uomo. Scura. A quel punto non ha voluto sentire ragioni e ha fatto saltare l’accordo asserendo “Non affitto a stranieri”. E a nulla è valso il tentativo della moglie che ha provato, non senza imbarazzo, a spiegare all’affittuario che il marito, nato all’estero ma naturalizzato italiano, vive in Italia da 30 anni, si è laureato a Pavia ed è un professionista affermato. La stessa cosa è accaduta alla famiglia Barthe, sempre nella provincia pavese:  l’agenzia immobiliare trova al papà, due figli e il cane una casa da affittare, ma al momento di concludere l’accordo è emerso l’accento non italiano dell’uomo e tanto è bastato per sentirsi rispondere, anche in questo caso, “Non affitto a stranieri”. La vittima di discriminazione è Miguel Barthe Zavala, nato in Perù 57 anni fa e residente in Italia da 26, dove ha sempre lavorato ed è divenuto cittadino italiano. A raccontare la vicenda è la figlia dell’uomo, Lory Barthe, scossa e sconcertata per quanto accaduto. “Ho provato a spiegargli che siamo italiani ma il proprietario, come per giustificare la sua decisione, ha aggiunto che non affittano case nemmeno a studenti o proprietari di cani o a troppe persone insieme e così abbiamo chiuso la telefonata”.
Esempi di come la cultura dell’integrazione, nel nostro Paese, debba compiere ancora tanti, troppi passi in avanti.

Cosa dice la legge

Ma la nostra Costituzione non dovrebbe tutelare il principio di uguaglianza (art.3)? Il nostro ordinamento, tuttavia, riconosce anche il principio di “autonomia negoziale”,  che lascia ai privati la facoltà di scegliere come, quando, con chi e se contrarre un accordo. Nel nostro caso di affitto. Quindi nessuno può essere obbligato a scegliere la propria controparte contrattuale, neanche dallo Stato o dalla Costituzione, perché violerebbe un altro dei cardini di ogni stato moderno, ossia l’autonomia economica privata. Perciò il proprietario di un appartamento è libero di dare (o non dare) in affitto l’immobile a una o più categorie determinate di persone. L’obbligo di contrarre accordi con tutti, indistintamente, esiste solo per la pubblica amministrazione o per i servizi pubblici o di pubblico interesse.
Questo a livello normativo. La libertà contrattuale del privato, però, nasconde sempre più spesso preconcetti e discriminazioni. E anche se questo, a onor del vero, è legale, non vuol dire che sia “giusto”. Il resto lo fa un sistema abitativo con una cronica carenza di alloggi pubblici e con un mercato immobiliare che – specie al nord – mantiene gli affitti a livelli troppo elevati rispetto alle retribuzioni medie. Un mix che comporta, soprattutto per i cittadini stranieri, una sempre maggiore difficoltà nel reperire una casa, con enormi conseguenze in termini di inserimento sociale, vita dignitosa, tutela dell’unità familiare (spesso la ricerca della casa è il presupposto per la richiesta di ricongiungimento familiare).
Una questione complessa insomma. Certo è che chi esercita una attività commerciale non può diffondere messaggi discriminatori: lo vieta in primo luogo l’art. 43, comma 2, lett. b) e c) del Testo unico per l’Immigrazione, che vieta di impedire allo straniero, in quanto tale,  l’accesso a un servizio offerto al pubblico e qualifica come discriminante l’atteggiamento di chi si rifiuta “di fornire l’alloggio allo straniero, soltanto in ragione della sua condizione di straniero. In questo caso, l’attenzione va rivolta alle agenzie, piuttosto che al privato che affitta, ma la sostanza rimane la stessa: se anche la legge lo permette sarebbe un atteggiamento civile, democratico e soprattutto rispettoso di uno dei più essenziali diritti umani quello di non discriminare per la sua carnagione, origine, lingua, orientamento religioso o sessuale chi cerca una casa ed ha tutte le carte in regola per averla.

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Instagram

  • Numerosi attori e musicisti di alto profilo si sono recati in Ucraina da quando è scoppiata la guerra con la Russia nel febbraio 2022. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’attore britannico Orlando Bloom, che ieri ha visitato un centro per bambini e ha incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Kiev.

“Non mi sarei mai aspettato che la guerra si sarebbe intensificata in tutto il Paese da quando sono stato lì”, ha detto Bloom su Instagram, “Ma oggi ho avuto la fortuna di ascoltare le risate dei bambini in un centro del programma Spilno sostenuto dall’Unicef, uno spazio sicuro, caldo e accogliente dove i bambini possono giocare, imparare e ricevere supporto psicosociale”.

Bloom è un ambasciatore di buona volontà per l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef). Il centro di Splino, che è uno dei tanti in Ucraina, offre sostegno ai bambini sfollati e alle loro famiglie, con più di mezzo milione di bambini che ne hanno visitato uno nell’ultimo anno.

La star hollywoodiana ha poi incontrato il presidente Zelensky, con cui ha trattato temi tra cui il ritorno dei bambini ucraini deportati in Russia, la creazione di rifugi antiatomici negli istituti scolastici e il supporto tecnico per l’apprendimento a distanza nelle aree in cui è impossibile studiare offline a causa della guerra. L’attore britannico aveva scritto ieri su Instagram, al suo arrivo a Kiev, che i «bambini in Ucraina hanno bisogno di riavere la loro infanzia».

#lucelanazione #lucenews #zelensky #orlandobloom
  • “La vita che stavo conducendo mi rendeva particolarmente infelice e se all’inizio ero entrata in terapia perché volevo accettare il fatto che mi dovessi nascondere, ho avuto poi un’evoluzione e questo percorso è diventato di accettazione di me stessa."

✨Un sorriso contagioso, la spensieratezza dei vent’anni e la bellezza di chi si piace e non può che riflettere quella luce anche al di fuori. La si potrebbe definire una Mulan nostrana Carlotta Bertotti, 23 anni, una ragazza torinese come tante, salvo che ha qualcosa di speciale. E non stiamo parlano del Nevo di Ota che occupa metà del suo volto. Ecco però spiegato un primo punto di contatto con Mulan: l’Oriente, dove è più diffusa (insieme all’Africa) quell’alterazione di natura benigna della pigmentazione della cute intorno alla zona degli occhi (spesso anche la sclera si presenta scura). Quella che appare come una chiazza grigio-bluastra su un lato del volto (rarissimi i casi bilaterali), colpisce prevalentemente persone di sesso femminile e le etnie asiatiche (1 su 200 persone in Giappone), può essere presente alla nascita o apparire durante la pubertà. E come la principessa Disney “fin da piccola ho sempre sentito la pressione di dover salvare tutto, ma forse in realtà dovevo solo salvare me stessa. Però non mi piace stare troppo alle regole, sono ribelle come lei”.

🗣Cosa diresti a una ragazza che ha una macchia come la tua e ti chiede come riuscire a conviverci?�
“Che sono profondamente fiera della persona che vedo riflessa allo specchio tutto i giorni e sono arrivata a questa fierezza dopo che ho scoperto e ho accettato tutti i miei lati, sia positivi che negativi. È molto autoreferenziale, quindi invece se dovessi dare un consiglio è quello che alla fine della fiera il giudizio altrui è momentaneo e tutto passa. L’unica persona che resta e con cui devi convivere tutta la vita sei tu, quindi le vere battaglie sono quelle con te stessa, quelle che vale la pena combattere”.

L’intervista a cura di Marianna Grazi �✍ 𝘓𝘪𝘯𝘬 𝘪𝘯 𝘣𝘪𝘰

#lucenews #lucelanazione #carlottabertotti #nevodiota
  • La salute mentale al centro del podcast di Alessia Lanza. Come si supera l’ansia sociale? Quanto è difficile fare coming out? Vado dallo psicologo? Come trovo la mia strada? La popolare influencer, una delle creator più note e amate del web con 1,4 milioni di followers su Instagram e 3,9 milioni su TikTok, Alessia Lanza debutta con “Mille Pare”, il suo primo podcast in cui affronta, in dieci puntate, una “para” diversa e cerca di esorcizzare le sue fragilità e, di riflesso, quelle dei suoi coetanei.

“Ho deciso di fare questo podcast per svariati motivi: io sono arrivata fin qui anche grazie alla mia immagine, ma questa volta vorrei che le persone mi ascoltassero e basta. Quando ho cominciato a raccontare le mie fragilità un sacco di persone mi hanno detto ‘Anche io ho quella para lì!’. Perciò dico parliamone, perché in un mondo in cui sembra che dobbiamo farcela da soli, io credo nel potere della condivisione”.

#lucenews #lucelanazione #millepare #alessialanza #podcast
  • Si è laureata in Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali indossando un abito tradizionale Crow, tribù della sua famiglia adottiva in Montana. Eppure Raffaella Milandri è italianissima e ha conseguito il titolo nella storica università Alma Mater di Bologna, lo scorso 17 marzo. 

La scrittrice e giornalista nel 2010 è diventata membro adottivo della famiglia di nativi americani Black Eagle. Da quel momento quella che era una semplice passione per i popoli indigeni si è focalizzata sullo studio degli aborigeni Usa e sulla divulgazione della loro cultura.

Un titolo di studio specifico, quello conseguito dalla Milandri, “Che ho ritenuto oltremodo necessario per coronare la mia attività di studiosa e attivista per i diritti dei Nativi Americani e per i Popoli Indigeni. La prima forma pacifica di attivismo è divulgare la cultura nativa”. L’abito indossato durante cerimonia di laurea appartiene alla tribù della sua famiglia adottiva. Usanza che è stata istituzionalizzata solo dal 2017 in Montana, Stato d’origine del suo popolo, quando è stata approvata una legge (la SB 319) che permette ai nativi e loro familiari di laurearsi con il “tribal regalia“. 

In virtù di questa norma, il Segretario della Crow Nation, Levi Black Eagle, a maggio 2022 ha ricordato la possibilità di indossare l’abito tradizionale Crow in queste occasioni e così Milandri ha chiesto alla famiglia d’adozione se anche lei, in quanto membro acquisito della tribù, avrebbe potuto indossarlo in occasione della sua discussione.

La scrittrice, ricordando il momento della laurea a Bologna, racconta che è stata “Una grandissima emozione e un onore poter rappresentare la Crow Nation e la mia famiglia adottiva. Ho dedicato la mia laurea in primis alle vittime dei collegi indiani, istituti scolastici, perlopiù a gestione cattolica, di stampo assimilazionista. Le stesse vittime per le quali Papa Francesco, lo scorso luglio, si è recato in Canada in viaggio penitenziale a chiedere scusa  Ho molto approfondito questo tema controverso e presto sarà pubblicato un mio studio sull’argomento dalla Mauna Kea Edizioni”.

#lucenews #raffaellamilandri #antropologia

Trovare una casa in affitto può diventare una vera missione impossibile. No, non per i costi proibitivi, ma per la discriminazione attuata nei confronti di chi vorrebbe affittare l'immobile. "No stranieri e no animali" si legge negli annunci, o ancora "si affitta a soli italiani, no studenti universitari, no erasmus, no extracomunitari". Una pratica sempre più comune, che ricorda i fatti già accaduti negli anni '50, quando a Milano (ma in generale in tutto il nord Italia, motore della Penisola) apparivano cartelli con le scritte "non si affitta ai napoletani". Poi, col passare dei decenni, la discriminazione è cambiata: prima è stato il turno degli albanesi, in seguito e ancora oggi gli "extracomunitari" provenienti dall'Africa e dall'America latina. Non solo riconosciuti e, di conseguenza, discriminati per il colore della pelle o per il nome che tradisce origini lontane, ma sempre più anche gli abiti (e in particolare il velo islamico), sono motivo di 'selezione' da parte degli affittuari.

 

Il caso dell'influencer Tasnim Ali

Tasnim Ali, 22 anni, è un idolo dei social con oltre mezzo milione di follower e 120mila persone che seguono i suoi video su TikTok. Ed è proprio dai social che lancia la sua denuncia, contro una pratica purtroppo molto comune in Italia. Qualche mese fa si è sposata (con un contratto matrimoniale islamico) con un ragazzo egiziano e i due, come ogni coppia, cercano una casa per andare a convivere. Ma il contratto pare essere un miraggio. "Funziona così - spiega la giovane -. Leggo un annuncio che mi interessa, chiamo l'agenzia immobiliare, chiedo informazioni. Parliamo tranquillamente fino a quando non mi presento con il mio nome". Tasnim è nata ad Arezzo da genitori egiziani, vive a Roma e suo papà è l’Imam della Magliana. Chiudendo gli occhi e ascoltando soltanto la sua voce a colpirvi è il suo accento romanesco. E così, finché non rivela la sua identità, nemmeno gli agenti immobiliari possono distinguerla da qualsiasi altra ragazza della Capitale.
Tasnim con il marito alla firma del contratto matrimoniale islamico
"Dall'altra parte non si può sapere se sono straniera", continua. I dettagli sull'immobile, le questioni tecniche, un appuntamento per visitare la casa. Poi la fatidica domanda dell'affittuario: "Mi può dire il suo nome?". Ed ecco che tutto cambia: "Tasnim Ali", risponde l'influencer. "Cosa?" si sente dall'altra parte della cornetta. "Tasnim Ali: Torino-Ancona-Savona-Napoli... ecc", specifica la ragazza. "Ah... va bene..." si sente l'interlocutore titubante, dall'altro lato. "La voce inizia a cambiare, sempre così succede - spiega Ali - E poi dopo un'oretta o anche il giorno stesso dell'appuntamento, puntualmente, la casa è già stata affittata". Possibile? All'inizio la 22enne attribuiva tutto alla casualità. "Ma poi gli episodi sono diventati troppo frequenti, era così per ogni appartamento, anche per quelli che avremmo voluto fermare, con caparra e mensilità in anticipo, senza averli visionati". "Capita che già dopo 10-15 minuti dalla chiamata ci richiamano per dirci "Ci dispiace, l'appartamento è stato affittato", "Non è più disponibile". Motivo per cui, da tre mesi, sono a caccia di un appartamento senza particolari pretese - precisa - una casa normale, siamo una giovane coppia".  

Una prassi comune basata su stereotipi

Una prassi discriminatoria assurda, che la ragazza ha voluto denunciare in prima persona spiegando quanta fatica stia facendo per trovare una sistemazione insieme al suo compagno. "Addirittura su WhatsApp ho persino dovuto togliere l’immagine del profilo, perché è successo che dopo aver dato il numero, magari (l'affittuario o l'agente immobiliare, ndr) doveva scriverci o io dovevo mandargli un messaggio, non mi rispondevano più". Il perché è presto detto: nell'immagine del profilo Tasnim appare con il velo islamico. 
 
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Un post condiviso da Tasnim Ali (@alitasnim)

Così trovare una dimora dove costruirsi una famiglia, per la giovane coppia sposata appena qualche mese fa, diventa una vera impresa: "Non troviamo casa per colpa dei nostri "nomi": troppo stranieri. Infatti adesso mi chiamo Simona, mi faccio chiamare Simona. Per assicurare a chi sta al telefono con me che sono italiana", dice amaramente. Il velo, il nome, le origini culturali e di sangue: quello che la identifica è quello che le impedisce di costruirsi una vita. "Come si chiama questo? Razzismo". Quella dell'influencer romana, tuttavia, non è una storia isolata. "Parlandone con altre persone straniere, mi hanno detto che anche a loro succede lo stesso. Mi hanno quindi confermato che è proprio questione di razzismo". Tra i casi più noti, soprattutto sui social network, quello di Bellamy Okot (@darkchocolatecreature), influencer e attivista afro, nata in Italia da genitori ugandesi, che - ironicamente - ha voluto riprodurre in un reel quello che solitamente accade alle persone nere: "Quando ci presentiamo all'appuntamento per vedere un appartamento o una casa l'agente improvvisamente si dilegua e la casa è già stata presa". Ma non solo, episodi come questi si ripetono quasi quotidianamente nei confronti di persone di cultura, religione, addirittura orientamento sessuale, 'diverso dalla norma'. "Le mie sorelle (tra le quali c'è Miriam Ali, candidata al consiglio comunale con Demos, all'interno della coalizione di centrosinistra, ndr) tra l’altro, mi hanno detto che in realtà da una parte hanno ragione - aggiunge Tasnim Ali -. Questo perché molti stranieri quando vengono qui o non pagano l’affitto, o lasciano la casa in condizioni pessime o quando prendono un mutuo iniziano a pagare per poi lasciare la casa così com'è e tornare al loro Paese - aggiunge Tasnim -. Solo che non la trovo una cosa tanto giusta: perché generalizzare?". Che conclude: "L'origine non c'entra niente. E comunque il mio Paese è questo, sono nata in Italia".

Italiani discriminati da italiani

Spesso, come è accaduto a Tasnim e a Bellamy, le vittime del pregiudizio degli affittuari sono italiani e italiane con origini straniere, che vivono, studiano, lavorano nel nostro Paese da decenni, magari da tutta la vita. Com'è successo, qualche mese fa, ad una coppia di cinquantenni residente a Pavia, che si è vista rifiutare l'affitto di un appartamento dopo che il proprietario, all'appuntamento per la firma del contratto, ha visto il colore della pelle dell'uomo. Scura. A quel punto non ha voluto sentire ragioni e ha fatto saltare l'accordo asserendo "Non affitto a stranieri". E a nulla è valso il tentativo della moglie che ha provato, non senza imbarazzo, a spiegare all'affittuario che il marito, nato all'estero ma naturalizzato italiano, vive in Italia da 30 anni, si è laureato a Pavia ed è un professionista affermato. La stessa cosa è accaduta alla famiglia Barthe, sempre nella provincia pavese:  l'agenzia immobiliare trova al papà, due figli e il cane una casa da affittare, ma al momento di concludere l'accordo è emerso l'accento non italiano dell'uomo e tanto è bastato per sentirsi rispondere, anche in questo caso, "Non affitto a stranieri". La vittima di discriminazione è Miguel Barthe Zavala, nato in Perù 57 anni fa e residente in Italia da 26, dove ha sempre lavorato ed è divenuto cittadino italiano. A raccontare la vicenda è la figlia dell’uomo, Lory Barthe, scossa e sconcertata per quanto accaduto. "Ho provato a spiegargli che siamo italiani ma il proprietario, come per giustificare la sua decisione, ha aggiunto che non affittano case nemmeno a studenti o proprietari di cani o a troppe persone insieme e così abbiamo chiuso la telefonata". Esempi di come la cultura dell'integrazione, nel nostro Paese, debba compiere ancora tanti, troppi passi in avanti.

Cosa dice la legge

Ma la nostra Costituzione non dovrebbe tutelare il principio di uguaglianza (art.3)? Il nostro ordinamento, tuttavia, riconosce anche il principio di "autonomia negoziale",  che lascia ai privati la facoltà di scegliere come, quando, con chi e se contrarre un accordo. Nel nostro caso di affitto. Quindi nessuno può essere obbligato a scegliere la propria controparte contrattuale, neanche dallo Stato o dalla Costituzione, perché violerebbe un altro dei cardini di ogni stato moderno, ossia l'autonomia economica privata. Perciò il proprietario di un appartamento è libero di dare (o non dare) in affitto l'immobile a una o più categorie determinate di persone. L'obbligo di contrarre accordi con tutti, indistintamente, esiste solo per la pubblica amministrazione o per i servizi pubblici o di pubblico interesse. Questo a livello normativo. La libertà contrattuale del privato, però, nasconde sempre più spesso preconcetti e discriminazioni. E anche se questo, a onor del vero, è legale, non vuol dire che sia "giusto". Il resto lo fa un sistema abitativo con una cronica carenza di alloggi pubblici e con un mercato immobiliare che – specie al nord – mantiene gli affitti a livelli troppo elevati rispetto alle retribuzioni medie. Un mix che comporta, soprattutto per i cittadini stranieri, una sempre maggiore difficoltà nel reperire una casa, con enormi conseguenze in termini di inserimento sociale, vita dignitosa, tutela dell'unità familiare (spesso la ricerca della casa è il presupposto per la richiesta di ricongiungimento familiare). Una questione complessa insomma. Certo è che chi esercita una attività commerciale non può diffondere messaggi discriminatori: lo vieta in primo luogo l'art. 43, comma 2, lett. b) e c) del Testo unico per l'Immigrazione, che vieta di impedire allo straniero, in quanto tale,  l’accesso a un servizio offerto al pubblico e qualifica come discriminante l'atteggiamento di chi si rifiuta "di fornire l'alloggio allo straniero, soltanto in ragione della sua condizione di straniero. In questo caso, l'attenzione va rivolta alle agenzie, piuttosto che al privato che affitta, ma la sostanza rimane la stessa: se anche la legge lo permette sarebbe un atteggiamento civile, democratico e soprattutto rispettoso di uno dei più essenziali diritti umani quello di non discriminare per la sua carnagione, origine, lingua, orientamento religioso o sessuale chi cerca una casa ed ha tutte le carte in regola per averla.
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