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Home » Lifestyle » Michela e il suo calvario chiamato endometriosi: “Necessario informare per riconoscerla. Aiutiamo le ragazze”

Michela e il suo calvario chiamato endometriosi: “Necessario informare per riconoscerla. Aiutiamo le ragazze”

Marzo è il mese della consapevolezza: online e in tutto il mondo si moltiplicano le iniziative che puntano a far luce su una malattia che colpisce 3 milioni di donne solo in Italia. La 36enne veneta: "Non esiste una cura e per una diagnosi ci vogliono dai 5 ai 9 anni. E quando la si scopre per tante potrebbe essere tardi"

Marianna Grazi
17 Marzo 2022
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“Ho avuto un bel calvario con questa malattia”. Michela Masat ha 36 anni, è di Portogruaro, in Veneto. A 28 anni ha avuto dall’Inps un’invalidità al 75%, poche settimana fa la nuova valutazione le ha attribuito l’85%. La causa? Una e tante. In poche parole, l’endometriosi.
Per molti ancora una parola sconosciuta, anche se l’attenzione della società verso la questione cresce, anche grazie a onlus e testimonianze di persone più o meno note. Si tratta, in sostanza, della “presenza di endometrio, mucosa che normalmente riveste esclusivamente la cavità uterina, all’esterno dell’utero e può interessare la donna già alla prima mestruazione (menarca) e accompagnarla fino alla menopausa” (definizione da Ministero della Salute).

I sintomi dell’endometriosi: la malattia è causata dalla crescita del tessuto anomalo al di fuori della cavità uterina. Si tratta di una patologia molto dolorosa ed invalidante, che può colpire già dalla prima mestruazione.

“Abito con mia mamma, che è oncologica e invalida al 100%, quindi un contesto familiare abbastanza complesso – spiega Michela –. Se non avessi lei sarebbe terribile, ci facciamo forza a vicenda”. La donna si appoggia all’associazione “Endometriosi Friuli Venezia Giulia” perché fare gruppo con altre persone che soffrono, che ti comprendono, che sanno di cosa parli quando racconti il tuo dolore, è un sostegno importantissimo per non arrendersi.
A marzo, il mese della consapevolezza sull’endometriosi, si rinnova l’impegno a portare avanti una campagna di sensibilizzazione. Tante le iniziative in Italia e non solo, a partire dalla WorldWide Endomarch, che in Italia si svolge dal 2014 e anche quest’anno rinnova l’appuntamento (online a causa delle restrizioni per la pandemia) per portare ovunque il colore giallo dell’endometriosi e aprire gli occhi della società su questa malattia. Oltre alla marcia l’importante attività di tantissime donne che, in questo mese soprattutto, vogliono darne testimonianza da protagoniste e ‘vittime’: “Raccontiamo le nostre storie a chiunque voglia ascoltarci, almeno per informare la popolazione su questa malattia, sulla sua esistenza – aggiunge la veneta –E per aiutare coloro che soffrono senza sapere perché. È fondamentale, ad esempio, l’attività nelle scuole superiori durante tutto l’anno, per permettere alle giovani studentesse di dare un nome a quello che provano ed evitare loro il nostro calvario”.

Le stime sulle donne affette da endometriosi nel mondo

Le stime ufficiali parlano di una donna su dieci affetta di questa malattia, circa 3 milioni solo in Italia, 14 in Europa e 176 milioni nel mondo. Le diagnosi continuano però ad essere tardive, in media oscillano tra i 5 e i 9 anni di ritardo (e ci sono i casi come quelli di Michela ancora più gravi). “Qualche passo in avanti è stato fatto ma la ricerca è ancora molto indietro. E una cura non esiste”. Ma nella voce di Michela non c’è rassegnazione, quello che si percepisce è invece la sua combattività, la sua voglia di lottare: “Non per me, che ormai non c’è più niente da fare. Ma per dare una speranza alle generazioni più giovani”.

Michela, quando è arrivata la sua diagnosi?
“Allora l’endometriosi me l’hanno diagnosticata nel 2012, dopo 13 anni. Un ritardo diagnostico che, nel frattempo, ha fatto sì che venissi considerata una malata immaginaria, una che fingeva di stare male, che voleva attirare l’attenzione. Questo sia dai medici ma anche dagli insegnanti, perché pensavano che volessi saltare la scuola, i compiti in classe, l’ora di ginnastica… per loro ero una studentessa nullafacente”.

Michela, 36 anni, vive con la madre, anche lei invalida. I genitori, sin da piccola, non le hanno mai fatto mancare il loro sostegno

Prima c’erano state avvisaglie?
“A 15 anni sono stata operata d’urgenza per l’appendicite, pensavano fosse quello il mio problema, invece non era neanche così infiammata da togliere. Dopo mi hanno detto che ero piena di aderenze ma non hanno approfondito la cosa. Se lo avessero fatto magari avrei avuto una diagnosi precoce: comunque già a 15/16 anni è molto importante per noi, in modo da evitare un peggioramento della qualità di vita e conseguenze permanenti. Poi sono andata avanti ancora qualche anno così, che nessuno mi capiva, tranne i miei genitori. Su questo sono stata fortunata, perché molte donne non hanno il sostegno dalla famiglia, mentre i miei non hanno mai dubitato del mio dolore e hanno tanto lottato per me”.

La non comprensione, il non essere creduta, che effetto ha avuto sulla sua vita sociale da adolescente?
“È stato molto difficile perché vedevo che le mie amiche avevano le mestruazioni ma non soffrivano come me, riuscivano ad uscire, a divertirsi, mentre io stavo chiusa in casa imbottita di antidolorifici. Non ho mai avuto un’adolescenza normale. Non ho proseguito nemmeno con lo studio, mi sono fermata alla quinta superiore. Ma facevo moltissima fatica”.

A Michela Masat è stata diagnosticata l’endometriosi nel 2012, dopo 13 anni dai primi sintomi

C’è qualche episodio che ricorda in particolare?
“Verso i 17 anni, ricordo, un medico mi disse di smettere di fare la bambina, di essere una donna perché un giorno avrei partorito. Un mese prima della diagnosi, più o meno, sono capitata di nuovo in ospedale che stavo male e ho trovato due medici e, siccome avevo fatto una ricerca su internet in base ai miei sintomi e mi era venuto fuori endometriosi, io chiesi se si poteva trattare di questa. Uno mi rispose che poteva essere ma essendo seguita dal primario se fosse stata me l’avrebbe diagnosticata. Un. Mese dopo il primario è andato in pensione, torno in ospedale, trovo lo stesso medico che mi aveva detto così e guarda casa mi ha diagnosticato l’endometriosi”.

Dopo la diagnosi cosa è successo?
“È iniziato il mio calvario. Intanto mi sono sottoposta a tre interventi per l’endometriosi: in quello del 2014 ho subito dei danni ai nervi e quindi ho perso la totale funzionalità della vescica e dell’intestino e ho iniziato ad usare i cateteri e i rilassativi. E poi sono venute fuori tutte le altre diagnosi: quindi oltre a vescica e intestino neurologici, l’adenomiosi, la neuropatia bilaterale del pudendo, la vulvodinia poi anche la fibromialgia”.

Per trattare l’endometriosi servono centri specializzati?
“Prima di ricevere la diagnosi mi sono sempre rivolta a medici del posto, perché non sapevo di cosa si trattasse. Poi mi sono rivolta a un ginecologo specializzato, che è sempre vicino a casa mia, per il primo intervento. Solo che non c’è un centro specializzato, c’era solo lui, ma a noi donne con l’endometriosi serve un’equipe multidisciplinare. Quindi anche in quel caso il ginecologo è andato a operare fino a un certo punto, senza toccare altri organi, dove però la malattia è rimasta”.

A causa del ritardo e degli interventi si asportazione delle cisti la donna ha sviluppato altre gravi patologie, tra cui la neuropatia bilaterale del pudendo, la vulvodinia e la fibromialgia

Sfatiamo un mito: l’endometriosi non riguarda solo l’apparato riproduttivo.
“Molti pensano riguardi solo utero, ovaie, tube e le mestruazioni, che sia solo un ciclo doloroso, ma non è solo quello. È molto di più. Questo tessuto anomalo attacca l’intestino, la vescica, gli ureteri, i nervi, diaframma, polmoni”.

Cosa ha comportato questa diagnosi e le conseguenti nella sua vita quotidiana, privata e lavorativa?
“Mi ha limitato moltissimo, mi ha compromesso la qualità di vita. Io dal 2013 non lavoro più, prima facevo le stagioni estive al mare in un parco divertimenti per bambini. Anche se sono stata inserita nelle categorie protette (nel 2016). Il problema anche lì è che sì, vogliono persone disabili ma che siano un po’ tuttofare. Un paio di settimane fa ho fatto un colloquio per segretaria part time per una piscina: al colloquio mi hanno spiegato che, oltre alla segreteria, la persona doveva pulire gli spogliatoi e la mattina e la sera aprire e chiudere le vasche coi teli. Sul mio verbale di invalidità c’è scritto che non posso alzare pesi, che non posso stare tanto in piedi, ho delle limitazioni importanti. Al centro per l’impiego però sapevano solo che la piscina cercava una segretaria”.

Nel 2020 le è stato impiantato un neuromodulatore sacrale per controllare, tra le altre cose, il dolore pelvico cronico

Lei ha anche un neuromodulatore sacrale. Di che si tratta e a cosa serve?
“Serve per la vescica neurologica, la neuropatia del pudendo e per il dolore pelvico cronico. È uno strumento che mi ha aiutato tantissimo, permettendomi di eliminare del tutto la terapia del dolore (a marzo 2020). Sono stata la prima paziente italiana ad impiantarlo con la tecnica LION, una metodica che fa parte della Neuropelveologia e arriva dalla Svizzera, il pioniere italiano è il professor Vito Chiantera (ginecologo specializzato in endometriosi e unico neuropelveologo in Italia). A differenza della tecnica classica che si utilizza in Italia, il neuromodulatore sacrale viene messo sulla pancia e gli elettrodi direttamente sui nervi pelvici. Mi avevano dato il 20% di riuscita dell’impianto, invece è stato un grande successo”.

Ma se l’endometriosi non è una malattia riconosciuta come si ottiene l’invalidità?
“La visita dell’INPS per il certificato di invalidità si svolge di fronte a una commissione di medici dell’Asl, che valutano soltanto i casi in cui le donne hanno subito danni, conseguenze permanenti, organi asportati. Se va una donna che ha soltanto dolore mestruale, una ciste ovarica, ma non ha subito degli interventi demolitivi non la calcolano neanche. Io avevo provato a fare domanda nel 2012 dopo il primo intervento, su insistenza dei miei, perché immaginavo che non sarebbe andata bene: infatti la commissione allora non mi dette nessun punto, dicendo che l’endometriosi non era una malattia invalidante. Nel 2016, quando sono tornata dopo i danni e le asportazioni subite negli altri interventi mi hanno dato il 75%. L’invalidità è data sulle conseguenze della malattia”.

Nonostante l’ancora scarsa comprensione a livello sociale Michela si batte perché l’endometriosi venga riconosciuta come malattia invalidante

 

Ora però le è stato dato l’85%…
“Ho fatto l’aggravamento, aggiungendo alla mia scheda tutte le diagnosi ricevute negli ultimi anni, il neuromodulatore sacrale e il farmaco che uso come rilassativi per l’intestino neurologico. Ma in commissione l’unica cosa che hanno considerato come aggravante è stata la depressione. E mi hanno dato quei 10 punti in più, senza considerare tutto il resto. Non posso fare ricorso perché costa parecchio, quindi mi hanno consigliato di aspettare 6 mesi, che decade, e poi tentare di nuovo l’aggravamento. È assurdo che non abbiano riconosciuto tutto il resto. Ma io non mollo!”.  

C’è stato però qualche passo avanti?  
“Sì, nel 2017 l’endometriosi (3 e 4 stadio, quelli più gravi) è stata inserita nei Lea e le donne hanno diritto all’esenzione per alcuni esami: visita ginecologica, ecografia transvaginale, ecografia transrettale, ecografia addome e clisma opaco. Un passo in avanti è stato fatto, ma mancano i farmaci, altre visite ed esami necessari. E un’altra mancanza importante è l’esclusione del 1° e 2° stadio: le donne che non hanno uno stadio avanzato non hanno esenzione e questo non è giusto, perché anche loro soffrono come noi. Il dolore ce l’abbiamo tutte”.

 

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  • Nino Gennaro cresce in un paese complesso, difficile, famigerato per essere stato il regno del boss Liggio, impegnandosi attivamente in politica; nel 1975 è infatti responsabile dell’organizzazione della prima Festa della Donna, figura tra gli animatori del circolo Placido Rizzotto, presto chiuso e, sempre più emarginato dalla collettività, si trova poi coinvolto direttamente nel caso di una sua amica, percossa dal padre perché lo frequentava e che sporse denuncia contro il genitore, fatto che ebbe grande risonanza sui media. Con lei si trasferì poi a Palermo e qui comincia la sua attività pubblica come scrittore; si tratta di una creatività onnivora, che si confronta in diretta con la cronaca, lasciando però spazio alla definizione di mitologie del corpo e del desiderio, in una dimensione che vuole comunque sempre essere civile, di testimonianza.

Nel 1980 a Palermo si avviano le attività del suo gruppo teatrale “Teatro Madre”, che sceglie una dimensione urbana, andando in scena nei luoghi più diversi e spesso con attori non professionisti (i testi si intitolano “Bocca viziosa”, “La faccia è erotica”, “Il tardo mafioso Impero”), all’inseguimento di un cortocircuito scena/vita. Già il logo della compagnia colpisce l’attenzione: un cuore trafitto da una svastica, che vuole alludere alla pesantezza dei legami familiari, delle tradizioni vissute come gabbia. Le sue attività si inscrivono, quindi, in uno dei periodi più complessi della storia della città siciliana, quando una sequenza di delitti efferati ne sconvolge la quotidianità e Gennaro non è mai venuto meno al suo impegno, fondando nel 1986 il Comitato Cittadino di Informazione e Partecipazione e legandosi al gruppo che gestiva il centro sociale San Saverio, dedicandosi quindi a numerosi progetti sociali fino alla morte per Aids nel 1995.

La sua drammaturgia si alimenta di una poetica del frammento, del remix, con brani che spesso vengono montati in modo diverso rispetto alla loro prima stesura.

Luca Scarlini ✍

#lucenews #lucelanazione #ninogennaro #queer
  • -6 a Sanremo 2023!

Questo Festival ha però un sapore dolceamaro per l
  • Era il 1° febbraio 1945, quando la lotta per la conquista di questo diritto, partita tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, sulla scorta dei movimenti degli altri Paesi europei, raggiunse il suo obiettivo. Con un decreto legislativo, il Consiglio dei Ministri presieduto da Ivanoe Bonomi riconobbe il voto alle donne, su proposta di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi. 

Durante la prima guerra mondiale le donne avevano sostituito al lavoro gli uomini che erano al fronte. La consapevolezza di aver assunto un ruolo ancora più centrale all’interno società oltre che della famiglia, crebbe e con essa la volontà di rivendicare i propri diritti. Già nel 1922 un deputato socialista, Emanuele Modigliani aveva presentato una proposta di legge per il diritto di voto femminile, che però non arrivò a essere discussa, per la Marcia su Roma. Mussolini ammise le donne al voto amministrativo nel 1924, ma per pura propaganda, poiché in seguito all’emanazione delle cosiddette “leggi fascistissime” tra il 1925 ed il 1926, le elezioni comunali vennero, di fatto, soppresse. Bisognerà aspettare la fine della guerra perché l’Italia affronti concretamente la questione.

Costituito il governo di liberazione nazionale, le donne si attivarono per entrare a far parte del corpo elettorale: la prima richiesta dell’ottobre 1944, venne avanzata dalla Commissione per il voto alle donne dell’Unione Donne Italiane (Udi), che si mobilitò per ottenere anche il diritto di eleggibilità (sancito da un successivo decreto datato 10 marzo 1946). Si arrivò così, dopo anni di battaglie per il suffragio universale, al primo febbraio 1945, data storica per l’Italia. Il decreto prevedeva la compilazione di liste elettorali femminili distinte da quelle maschili, ed escludeva però dal diritto le prostitute schedate che esercitavano “il meretricio fuori dei locali autorizzati”.

Le elezioni dell’esordio furono le amministrative tra marzo e aprile del 1946 e l’affluenza femminile superò l’89%. 

#lucenews #lucelanazione #dirittodivoto #womenrights #1febbraio1945
  • La regina del pulito Marie Kondo ha dichiarato di aver “un po’ rinunciato” a riordinare casa dopo la nascita del suo terzo figlio. La 38enne giapponese, considerata una "Dea dell’ordine", con i suoi best seller sull’economia domestica negli ultimi anni ha incitato e sostenuto gli sforzi dei comuni mortali di rimettere in sesto case e armadi all’insegna del cosa “provoca dentro una scintilla di gioia”. Ma l’esperta di decluttering, famosa in tutto il mondo, ha ammesso che con tre figli da accudire, la sua casa è oggi “disordinata”, ma ora il riordino non è più una priorità. 

Da quando è diventata madre di tre bambini, ha dichiarato che il suo stile di vita è cambiato e che la sua attenzione si è spostata dall’organizzazione alla ricerca di modi semplici per rendere felici le abitudini di tutti i giorni: "Fino a oggi sono stata una organizzatrice di professione e ho dunque fatto il mio meglio per tenere in ordine la mia casa tutto il tempo”, e anche se adesso “ci ho rinunciato, il modo in cui trascorro il mio tempo è quello giusto per me in questo momento, in questa fase della mia vita”.

✍ Marianna Grazi 

#lucenews #lucelanazione #mariekondo
“Ho avuto un bel calvario con questa malattia”. Michela Masat ha 36 anni, è di Portogruaro, in Veneto. A 28 anni ha avuto dall’Inps un’invalidità al 75%, poche settimana fa la nuova valutazione le ha attribuito l’85%. La causa? Una e tante. In poche parole, l’endometriosi. Per molti ancora una parola sconosciuta, anche se l'attenzione della società verso la questione cresce, anche grazie a onlus e testimonianze di persone più o meno note. Si tratta, in sostanza, della "presenza di endometrio, mucosa che normalmente riveste esclusivamente la cavità uterina, all'esterno dell'utero e può interessare la donna già alla prima mestruazione (menarca) e accompagnarla fino alla menopausa" (definizione da Ministero della Salute).
I sintomi dell'endometriosi: la malattia è causata dalla crescita del tessuto anomalo al di fuori della cavità uterina. Si tratta di una patologia molto dolorosa ed invalidante, che può colpire già dalla prima mestruazione.
“Abito con mia mamma, che è oncologica e invalida al 100%, quindi un contesto familiare abbastanza complesso – spiega Michela –. Se non avessi lei sarebbe terribile, ci facciamo forza a vicenda”. La donna si appoggia all’associazione “Endometriosi Friuli Venezia Giulia” perché fare gruppo con altre persone che soffrono, che ti comprendono, che sanno di cosa parli quando racconti il tuo dolore, è un sostegno importantissimo per non arrendersi. A marzo, il mese della consapevolezza sull’endometriosi, si rinnova l’impegno a portare avanti una campagna di sensibilizzazione. Tante le iniziative in Italia e non solo, a partire dalla WorldWide Endomarch, che in Italia si svolge dal 2014 e anche quest'anno rinnova l'appuntamento (online a causa delle restrizioni per la pandemia) per portare ovunque il colore giallo dell'endometriosi e aprire gli occhi della società su questa malattia. Oltre alla marcia l'importante attività di tantissime donne che, in questo mese soprattutto, vogliono darne testimonianza da protagoniste e 'vittime': “Raccontiamo le nostre storie a chiunque voglia ascoltarci, almeno per informare la popolazione su questa malattia, sulla sua esistenza – aggiunge la veneta –E per aiutare coloro che soffrono senza sapere perché. È fondamentale, ad esempio, l’attività nelle scuole superiori durante tutto l’anno, per permettere alle giovani studentesse di dare un nome a quello che provano ed evitare loro il nostro calvario”.
Le stime sulle donne affette da endometriosi nel mondo
Le stime ufficiali parlano di una donna su dieci affetta di questa malattia, circa 3 milioni solo in Italia, 14 in Europa e 176 milioni nel mondo. Le diagnosi continuano però ad essere tardive, in media oscillano tra i 5 e i 9 anni di ritardo (e ci sono i casi come quelli di Michela ancora più gravi). “Qualche passo in avanti è stato fatto ma la ricerca è ancora molto indietro. E una cura non esiste”. Ma nella voce di Michela non c'è rassegnazione, quello che si percepisce è invece la sua combattività, la sua voglia di lottare: “Non per me, che ormai non c'è più niente da fare. Ma per dare una speranza alle generazioni più giovani”. Michela, quando è arrivata la sua diagnosi? “Allora l’endometriosi me l’hanno diagnosticata nel 2012, dopo 13 anni. Un ritardo diagnostico che, nel frattempo, ha fatto sì che venissi considerata una malata immaginaria, una che fingeva di stare male, che voleva attirare l’attenzione. Questo sia dai medici ma anche dagli insegnanti, perché pensavano che volessi saltare la scuola, i compiti in classe, l’ora di ginnastica… per loro ero una studentessa nullafacente”.
Michela, 36 anni, vive con la madre, anche lei invalida. I genitori, sin da piccola, non le hanno mai fatto mancare il loro sostegno
Prima c’erano state avvisaglie? “A 15 anni sono stata operata d’urgenza per l’appendicite, pensavano fosse quello il mio problema, invece non era neanche così infiammata da togliere. Dopo mi hanno detto che ero piena di aderenze ma non hanno approfondito la cosa. Se lo avessero fatto magari avrei avuto una diagnosi precoce: comunque già a 15/16 anni è molto importante per noi, in modo da evitare un peggioramento della qualità di vita e conseguenze permanenti. Poi sono andata avanti ancora qualche anno così, che nessuno mi capiva, tranne i miei genitori. Su questo sono stata fortunata, perché molte donne non hanno il sostegno dalla famiglia, mentre i miei non hanno mai dubitato del mio dolore e hanno tanto lottato per me”. La non comprensione, il non essere creduta, che effetto ha avuto sulla sua vita sociale da adolescente? “È stato molto difficile perché vedevo che le mie amiche avevano le mestruazioni ma non soffrivano come me, riuscivano ad uscire, a divertirsi, mentre io stavo chiusa in casa imbottita di antidolorifici. Non ho mai avuto un’adolescenza normale. Non ho proseguito nemmeno con lo studio, mi sono fermata alla quinta superiore. Ma facevo moltissima fatica”.
A Michela Masat è stata diagnosticata l'endometriosi nel 2012, dopo 13 anni dai primi sintomi
C’è qualche episodio che ricorda in particolare? “Verso i 17 anni, ricordo, un medico mi disse di smettere di fare la bambina, di essere una donna perché un giorno avrei partorito. Un mese prima della diagnosi, più o meno, sono capitata di nuovo in ospedale che stavo male e ho trovato due medici e, siccome avevo fatto una ricerca su internet in base ai miei sintomi e mi era venuto fuori endometriosi, io chiesi se si poteva trattare di questa. Uno mi rispose che poteva essere ma essendo seguita dal primario se fosse stata me l’avrebbe diagnosticata. Un. Mese dopo il primario è andato in pensione, torno in ospedale, trovo lo stesso medico che mi aveva detto così e guarda casa mi ha diagnosticato l’endometriosi”. Dopo la diagnosi cosa è successo? “È iniziato il mio calvario. Intanto mi sono sottoposta a tre interventi per l’endometriosi: in quello del 2014 ho subito dei danni ai nervi e quindi ho perso la totale funzionalità della vescica e dell’intestino e ho iniziato ad usare i cateteri e i rilassativi. E poi sono venute fuori tutte le altre diagnosi: quindi oltre a vescica e intestino neurologici, l’adenomiosi, la neuropatia bilaterale del pudendo, la vulvodinia poi anche la fibromialgia”. Per trattare l’endometriosi servono centri specializzati? “Prima di ricevere la diagnosi mi sono sempre rivolta a medici del posto, perché non sapevo di cosa si trattasse. Poi mi sono rivolta a un ginecologo specializzato, che è sempre vicino a casa mia, per il primo intervento. Solo che non c’è un centro specializzato, c’era solo lui, ma a noi donne con l’endometriosi serve un’equipe multidisciplinare. Quindi anche in quel caso il ginecologo è andato a operare fino a un certo punto, senza toccare altri organi, dove però la malattia è rimasta”.
A causa del ritardo e degli interventi si asportazione delle cisti la donna ha sviluppato altre gravi patologie, tra cui la neuropatia bilaterale del pudendo, la vulvodinia e la fibromialgia
Sfatiamo un mito: l’endometriosi non riguarda solo l’apparato riproduttivo. “Molti pensano riguardi solo utero, ovaie, tube e le mestruazioni, che sia solo un ciclo doloroso, ma non è solo quello. È molto di più. Questo tessuto anomalo attacca l’intestino, la vescica, gli ureteri, i nervi, diaframma, polmoni”. Cosa ha comportato questa diagnosi e le conseguenti nella sua vita quotidiana, privata e lavorativa? “Mi ha limitato moltissimo, mi ha compromesso la qualità di vita. Io dal 2013 non lavoro più, prima facevo le stagioni estive al mare in un parco divertimenti per bambini. Anche se sono stata inserita nelle categorie protette (nel 2016). Il problema anche lì è che sì, vogliono persone disabili ma che siano un po’ tuttofare. Un paio di settimane fa ho fatto un colloquio per segretaria part time per una piscina: al colloquio mi hanno spiegato che, oltre alla segreteria, la persona doveva pulire gli spogliatoi e la mattina e la sera aprire e chiudere le vasche coi teli. Sul mio verbale di invalidità c’è scritto che non posso alzare pesi, che non posso stare tanto in piedi, ho delle limitazioni importanti. Al centro per l’impiego però sapevano solo che la piscina cercava una segretaria”.
Nel 2020 le è stato impiantato un neuromodulatore sacrale per controllare, tra le altre cose, il dolore pelvico cronico

Lei ha anche un neuromodulatore sacrale. Di che si tratta e a cosa serve? “Serve per la vescica neurologica, la neuropatia del pudendo e per il dolore pelvico cronico. È uno strumento che mi ha aiutato tantissimo, permettendomi di eliminare del tutto la terapia del dolore (a marzo 2020). Sono stata la prima paziente italiana ad impiantarlo con la tecnica LION, una metodica che fa parte della Neuropelveologia e arriva dalla Svizzera, il pioniere italiano è il professor Vito Chiantera (ginecologo specializzato in endometriosi e unico neuropelveologo in Italia). A differenza della tecnica classica che si utilizza in Italia, il neuromodulatore sacrale viene messo sulla pancia e gli elettrodi direttamente sui nervi pelvici. Mi avevano dato il 20% di riuscita dell’impianto, invece è stato un grande successo”.

Ma se l’endometriosi non è una malattia riconosciuta come si ottiene l’invalidità? “La visita dell’INPS per il certificato di invalidità si svolge di fronte a una commissione di medici dell’Asl, che valutano soltanto i casi in cui le donne hanno subito danni, conseguenze permanenti, organi asportati. Se va una donna che ha soltanto dolore mestruale, una ciste ovarica, ma non ha subito degli interventi demolitivi non la calcolano neanche. Io avevo provato a fare domanda nel 2012 dopo il primo intervento, su insistenza dei miei, perché immaginavo che non sarebbe andata bene: infatti la commissione allora non mi dette nessun punto, dicendo che l’endometriosi non era una malattia invalidante. Nel 2016, quando sono tornata dopo i danni e le asportazioni subite negli altri interventi mi hanno dato il 75%. L’invalidità è data sulle conseguenze della malattia”.
Nonostante l'ancora scarsa comprensione a livello sociale Michela si batte perché l'endometriosi venga riconosciuta come malattia invalidante
 

Ora però le è stato dato l’85%… “Ho fatto l’aggravamento, aggiungendo alla mia scheda tutte le diagnosi ricevute negli ultimi anni, il neuromodulatore sacrale e il farmaco che uso come rilassativi per l’intestino neurologico. Ma in commissione l’unica cosa che hanno considerato come aggravante è stata la depressione. E mi hanno dato quei 10 punti in più, senza considerare tutto il resto. Non posso fare ricorso perché costa parecchio, quindi mi hanno consigliato di aspettare 6 mesi, che decade, e poi tentare di nuovo l’aggravamento. È assurdo che non abbiano riconosciuto tutto il resto. Ma io non mollo!”.  

C’è stato però qualche passo avanti?   “Sì, nel 2017 l’endometriosi (3 e 4 stadio, quelli più gravi) è stata inserita nei Lea e le donne hanno diritto all'esenzione per alcuni esami: visita ginecologica, ecografia transvaginale, ecografia transrettale, ecografia addome e clisma opaco. Un passo in avanti è stato fatto, ma mancano i farmaci, altre visite ed esami necessari. E un’altra mancanza importante è l’esclusione del 1° e 2° stadio: le donne che non hanno uno stadio avanzato non hanno esenzione e questo non è giusto, perché anche loro soffrono come noi. Il dolore ce l’abbiamo tutte”.  
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