Main Partner
Partner
Luce
  • Attualità
  • Politica
  • Economia
  • Sport
  • Lifestyle
  • Scienze e culture
  • Spettacolo
  • Evento 2022
Nessun risultato
Vedi tutti i risultati
Luce
  • Attualità
  • Politica
  • Economia
  • Sport
  • Lifestyle
  • Scienze e culture
  • Spettacolo
  • Evento 2022
Nessun risultato
Vedi tutti i risultati
Luce

Home » Lifestyle » Quanto “costa” all’ambiente la fast fashion? Il risvolto oscuro dello scintillio da passerella

Quanto “costa” all’ambiente la fast fashion? Il risvolto oscuro dello scintillio da passerella

Sfruttamento della manodopera a basso costo, iper produzione e, spesso, lavoro minorile. Ma l'industria della moda produce anche il 10% delle emissioni globali di carbonio

Domenico Guarino
8 Ottobre 2022
fast fashion

Il rovescio della medaglia della fast fashion

Share on FacebookShare on Twitter

Cambiarsi d’abito più volte al giorno, seguire mode e modi, imitare le passerelle glamour, cercare il proprio stile ed adattarlo agli stati d’animo: la fast fashion è la risposta alla scatola magica dei desideri. Peccato che, dentro quella scatola, ci sia anche tanto altro. E il più delle volte non si tratta di sorprese piacevoli. L’altra faccia della medaglia luccicante, fatta di abiti e scarpe da indossare una volta e via, parla infatti di sfruttamento della manodopera a basso costo, lavoro minorile, discriminazioni, consumo energetico e delle risorse naturali e ovviamente inquinamento.

Cos’è la fast fashion

Mettiamo ordine innanzitutto. Il termine Fast Fashion (dall’inglese letteralmente “moda veloce“), è stato utilizzato per la prima volta all’inizio degli anni Novanta, quando Zara sbarcò a New York e il New York Times sottolineò subito come il marchio avesse come obiettivo dichiarato quello di impiegare solo 15 giorni per progettare, produrre, distribuire, allestire e vendere i suoi capi. Da Zara agli altri brand il passo è stato veloce, tanto quanto la diffusione del concetto. E oggi con fast fashion si fa riferimento a tutto quell’abbigliamento che passa attraverso grandi catene di distribuzione, dove si vendono capi a basso costo che solitamente, stagione dopo stagione, copiano gli ultimi stili delle passerelle, riproponendoli a condizioni accessibili per il grande pubblico che altrimenti non potrebbe permetterseli. Un’idea geniale di marketing, con conseguenze non di poco conto: dall’iper produzione, allo sfruttamento di manodopera a bassissimo costo e senza diritti, a volte del lavoro minorile. E c’è soprattutto la questione ambientale.

fast fashion
Capi a basso costo, venduti da grandi catene di distribuzione, che imitano le novità stagionali delle passerelle di alta moda

L’impatto della moda “veloce” sull’ambiente

I tre principali fattori di impatto del settore della moda sull’inquinamento globale sono la tintura (36%), la preparazione del filato (28%) e la produzione di fibre (15%) (rapporto Quantis International del 2018). Stando ai dati di Business Insider la catena produttiva dell’industria della moda causa il 10% del totale delle emissioni globali di carbonio, tanto quanto l’intera Unione Europea, più di tutti i voli internazionali e di tutti i trasporti via mare messi insieme (UNEP, 2018). Basti pensare che ogni secondo di ogni giorno e ogni notte viene bruciato o gettato in una discarica l’equivalente di un camion della spazzatura pieno di vestiti (UNEP, 2018), e che circa il 60% dei materiali utilizzati dall’industria della moda sono in plastica (UNEP, 2019), con la conseguenza che ogni anno vengono rilasciate nei mari 500 mila tonnellate di microfibre, ovvero l’equivalente di 50 miliardi di bottiglie di plastica (Ellen MacArthur Foundation, 2017). Senza contare che circa il 20% dell’inquinamento delle acque reflue industriali di tutto il mondo proviene dall’industria della moda (WRI, 2017), e che il settore della fast fashion consuma circa 93 miliardi di metri cubi d’acqua – sufficienti per soddisfare i bisogni di cinque milioni di persone (UNCTAD, 2020).

deserto atacama cile
Nel deserto di Atacama, in Cile, una distesa di milioni di tonnellate di abiti

Infine, secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, le emissioni della sola industria tessile saliranno del 60% entro il 2030. Ce n’è d’avanzo per avviare una seria riflessione, che parta dal concetto che quello che indossiamo oggi, insieme con quello che mangiamo, è la determinante del nostro futuro. Un capo in meno, un albero in più. Saremo magari meno alla moda ma la nostra salute e il nostro benessere se ne gioverà, e non poco.

Potrebbe interessarti anche

I 140 studenti sul parquet del Forum di Assago con i campioni dell’Olimpia Milano
Sport

“One Team!”: 140 studenti sul parquet del Forum di Assago con i campioni dell’Olimpia Milano

20 Gennaio 2023
Harpreet Chandi
Lifestyle

Fino al Polo Sud da sola: il nuovo record di Harpreet Chandi. “Credete sempre in voi stessi”

26 Gennaio 2023
Francesco Cannadoro con la moglie Valentina e il figlio Tommaso
Lifestyle

Francesco Cannadoro: rivoluzionare il concetto di disabilità con la semplicità “a prova di bambino”

21 Gennaio 2023

Instagram

  • Messaggi osceni, allusioni, avances in ufficio e ricatti sessuali. La forma più classica del sopruso in azienda, unita ai nuovi strumenti tecnologici nelle mani dei molestatori. Il movimento Me Too, nel 2017, squarciò il velo di silenzio sulle molestie sessuali subite dalle donne nel mondo del cinema e poi negli altri luoghi di lavoro. Cinque anni dopo, con in mezzo la pandemia che ha terremotato il mondo del lavoro, le donne continuano a subire abusi, che nella maggior parte dei casi restano nell’ombra.

«Sono pochissime le donne che denunciano – spiega Roberta Vaia, della segreteria milanese della Cisl – e nei casi più gravi preferiscono lasciare il lavoro. Il molestatore andrebbe allontanato dalla vittima ma nei contratti collettivi dei vari settori non è ancora prevista una sanzione disciplinare per chi si rende responsabile di molestie o di mobbing».

Un quadro sconfortante che emerge anche da una rilevazione realizzata dalla Cisl Lombardia, nel corso del 2022, su lavoratrici di diversi settori, attraverso un sondaggio distribuito in fabbriche, negozi e uffici della regione. Sono seimila le donne che hanno partecipato all’indagine, e il 44% ha dichiarato di aver subìto molestie o di «esserne stata testimone» nel corso della sua vita lavorativa.

A livello nazionale, secondo gli ultimi dati Istat, sono 1.404.000 le donne che nel corso della loro vita lavorativa hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro. Quando una donna subisce un ricatto sessuale, nell’80,9% dei casi non ne parla con nessuno sul posto di lavoro. Quasi nessuna ha denunciato il fatto alle forze dell’ordine: appena lo 0,7% delle vittime.

✍🏻di Andrea Gianni

#lucenews #istat #donne #molestie #lavoro #diritti
  • II problema è che sei sola. Arrivi lì persino convinta: è la cosa più naturale che tu, donna, sia mai stata chiamata a fare: partorire. 

Te lo hanno ripetuto per 9 mesi nei corsi preparto, e te l’hanno ripetuto ancora prima che tu venissi al mondo: non c’è niente che sia più naturale, per una donna, nei secoli dei secoli. E il bello è che aver ottenuto la possibilità di scegliere che il tuo parto non sia "medicalizzato", che il tuo neonato non ti sia strappato subito dalle braccia e che resti, subito dopo, al tuo fianco nella tua stanza, e non nella nursery, è il risultato di una lunga battaglia, intrapresa oltre 30 anni fa. 

Una battaglia vinta? No, se si è passati dal troppo medicalizzato all’abbandono. 

Il problema è che c’è un’altra verità – nei secoli dei secoli – ed è il paradosso: nell’esatto momento in cui vieni pervasa dalla furiosa coscienza che sei onnipotente perché sei come Dio e hai dato la vita, vieni pure annientata dalla furiosa consapevolezza che la sopravvivenza di quella vita dipende da te, dipende da te tutto, la sua felicità o la sua infelicità, e non sai se sarai in grado di accudirla, quella nuova vita, come devi, e hai paura, la paura più pura e cristallina e terribile che tu abbia mai provato, e altro che Dio, sei l’ultimo dei miserabili. 

È stata la cultura patriarcale ad aver tramandato la maternità come destino ineluttabile della femminilità: la paura della donna non è mai stata né contemplata, né tanto meno accettata. È stata condivisa tra le donne, quando vi era un tessuto sociale che lo permetteva. È stata omessa dalla contemporaneità anche dalle donne stesse perché ammetterla comporta arretrare dall’emancipazione, dalla rivendicazione della parità: partorisci naturalmente, allatti naturalmente, naturalmente performi due giorni dopo come nulla fosse. 

Ma non c’è nulla di naturale in questo. È un’altra storia di prevaricazione. E una nuova storia di solitudine. Tra le più feroci.

di Chiara Di Clemente✍🏻

#lucenews #editoriale #allattamento #maternita #ospedalepertini
  • Theodore (Teddy) Hobbs vive a Portishead, nella contea inglese del Somerset, insieme ai genitori, mamma Beth, 31 anni, e il padre Will Hobbs, 41 anni. Il piccolo, che ora ha quasi quattro anni, è entrato nel Mensa (l’associazione internazionale fondata nel 1947 per chi ha il Quoziente Intellettivo almeno 1,5 volte quello regolare, ndr) a tre anni dopo aver superato un test del QI e ottenendo un punteggio di 139 su 160 nel test di Stanford Binet, scioccando i suoi genitori, che non avevano idea di quanto fosse intelligente. 

Ma il bambino dei segnali li aveva già dati visto che ha imparato a leggere da autodidatta all’età di soli due anni e quattro mesi e ora è persino in grado di leggere i libri di Harry Potter, quando i genitori glielo permettono, ed è in grado di contare in sei lingue diverse, mandarino compreso. I suoi passatempi preferiti? Le ricerche su Google e recitare le tabelline.

I genitori ammettono di non essersi mai aspettati che il figlio entrasse nel gruppo e non avevano nemmeno pianificato di fare domanda per l’adesione. “Ci è stato detto che non era mai entrato un membro dell’età di tre anni. A essere onesti, è davvero un colpo di fortuna che sia entrato” sono le parole di mamma Beth che spiega: “Non avevamo intenzione di farlo entrare nella società. Volevamo solo fargli fare un test prima di mandarlo a scuola per capire quale scegliere”. Ad ogni modo, continua la madre, “prima del test gli abbiamo detto che avrebbe dovuto risolvere qualche puzzle con una signora che lo guardava per un’oretta, e lui ne è rimasto felicissimo”.

I genitori del bimbo, che si sono sottoposti alla fecondazione in vitro per concepire il figlio e la sorella minore di Teddy, scherzano persino sul fatto che potrebbe esserci stato un pasticcio alla clinica della fertilità. “Non sappiamo come ha fatto a venire fuori così. Si sta rendendo conto di essere più dotato degli altri bambini. Io e mio marito scherziamo sempre dicendo che al dottore dev’essere sfuggita un’iniezione di qualche tipo. Da grande vuole fare il dottore perché gioca sempre a guarire i suoi giocattoli con il suo amico all’asilo”.

#lucenews #mensa #piccoligeni
  • “La lotta per garantire il diritto fondamentale delle donne all’assistenza sanitaria riproduttiva è tutt’altro che conclusa“.

In occasione del 50° anniversario della Roe v. Wade, lo scorso 22 gennaio, la storica sentenza della Corte Suprema che ha sancito il diritto costituzionale all’aborto, annullata la scorsa estate, la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris è stata in Florida per tenere un discorso di commemorazione.

#lucenews #roevwade #usa #abortionrights
Cambiarsi d'abito più volte al giorno, seguire mode e modi, imitare le passerelle glamour, cercare il proprio stile ed adattarlo agli stati d'animo: la fast fashion è la risposta alla scatola magica dei desideri. Peccato che, dentro quella scatola, ci sia anche tanto altro. E il più delle volte non si tratta di sorprese piacevoli. L'altra faccia della medaglia luccicante, fatta di abiti e scarpe da indossare una volta e via, parla infatti di sfruttamento della manodopera a basso costo, lavoro minorile, discriminazioni, consumo energetico e delle risorse naturali e ovviamente inquinamento.

Cos'è la fast fashion

Mettiamo ordine innanzitutto. Il termine Fast Fashion (dall'inglese letteralmente "moda veloce"), è stato utilizzato per la prima volta all'inizio degli anni Novanta, quando Zara sbarcò a New York e il New York Times sottolineò subito come il marchio avesse come obiettivo dichiarato quello di impiegare solo 15 giorni per progettare, produrre, distribuire, allestire e vendere i suoi capi. Da Zara agli altri brand il passo è stato veloce, tanto quanto la diffusione del concetto. E oggi con fast fashion si fa riferimento a tutto quell’abbigliamento che passa attraverso grandi catene di distribuzione, dove si vendono capi a basso costo che solitamente, stagione dopo stagione, copiano gli ultimi stili delle passerelle, riproponendoli a condizioni accessibili per il grande pubblico che altrimenti non potrebbe permetterseli. Un’idea geniale di marketing, con conseguenze non di poco conto: dall’iper produzione, allo sfruttamento di manodopera a bassissimo costo e senza diritti, a volte del lavoro minorile. E c'è soprattutto la questione ambientale.
fast fashion
Capi a basso costo, venduti da grandi catene di distribuzione, che imitano le novità stagionali delle passerelle di alta moda

L'impatto della moda "veloce" sull'ambiente

I tre principali fattori di impatto del settore della moda sull'inquinamento globale sono la tintura (36%), la preparazione del filato (28%) e la produzione di fibre (15%) (rapporto Quantis International del 2018). Stando ai dati di Business Insider la catena produttiva dell'industria della moda causa il 10% del totale delle emissioni globali di carbonio, tanto quanto l'intera Unione Europea, più di tutti i voli internazionali e di tutti i trasporti via mare messi insieme (UNEP, 2018). Basti pensare che ogni secondo di ogni giorno e ogni notte viene bruciato o gettato in una discarica l'equivalente di un camion della spazzatura pieno di vestiti (UNEP, 2018), e che circa il 60% dei materiali utilizzati dall'industria della moda sono in plastica (UNEP, 2019), con la conseguenza che ogni anno vengono rilasciate nei mari 500 mila tonnellate di microfibre, ovvero l'equivalente di 50 miliardi di bottiglie di plastica (Ellen MacArthur Foundation, 2017). Senza contare che circa il 20% dell'inquinamento delle acque reflue industriali di tutto il mondo proviene dall'industria della moda (WRI, 2017), e che il settore della fast fashion consuma circa 93 miliardi di metri cubi d'acqua - sufficienti per soddisfare i bisogni di cinque milioni di persone (UNCTAD, 2020).
deserto atacama cile
Nel deserto di Atacama, in Cile, una distesa di milioni di tonnellate di abiti
Infine, secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, le emissioni della sola industria tessile saliranno del 60% entro il 2030. Ce n’è d’avanzo per avviare una seria riflessione, che parta dal concetto che quello che indossiamo oggi, insieme con quello che mangiamo, è la determinante del nostro futuro. Un capo in meno, un albero in più. Saremo magari meno alla moda ma la nostra salute e il nostro benessere se ne gioverà, e non poco.
Nessun risultato
Vedi tutti i risultati
  • Attualità
  • Politica
  • Economia
  • Sport
  • Lifestyle
  • Scienze e culture
  • Spettacolo
  • Cos’è Luce!
  • Redazione
  • Board
  • Contattaci
  • Evento 2022

Robin Srl
Società soggetta a direzione e coordinamento di Monrif
Dati societariISSNPrivacyImpostazioni privacy

Copyright© 2021 - P.Iva 12741650159

CATEGORIE
  • Contatti
  • Lavora con noi
  • Concorsi
ABBONAMENTI
  • Digitale
  • Cartaceo
  • Offerte promozionali
PUBBLICITÀ
  • Speed ADV
  • Network
  • Annunci
  • Aste E Gare
  • Codici Sconto