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Home » Lifestyle » Filippo Cogliandro: “Non voglio essere un simbolo dell’antimafia ma un esempio per i giovani”

Filippo Cogliandro: “Non voglio essere un simbolo dell’antimafia ma un esempio per i giovani”

Chiamato "lo chef della legalità" perché ha saputo dire no alle minacce della malavita calabrese, voleva farsi prete: "Poi, però, è arrivata la vocazione culinaria"

Caterina Ceccuti
8 Dicembre 2022
Lo chef Filippo Cogliandro con gli allievi del Buontalenti di Firenze

Lo chef Filippo Cogliandro con gli allievi del Buontalenti di Firenze

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Tutti lo chiamano “lo chef della legalità”, ma Filippo Cogliandro, 53 anni originario di Lazzaro (Reggio Calabria), si considera semplicemente un professionista nell’arte culinaria. Il fatto è che diversi anni fa, quando il suo ristorante su prenotazione “L’A Gourmet L’Accademia”, molto particolare nel suo genere, andava già a gonfie vele, Cogliandro ricevette la richiesta di pagare un pizzo dalla malavita locale e lui non solo si rifiutò di farlo, ma andò dritto dritto a denunciare il tentativo di estorsione alla Guardia di Finanza. “Queste persone si presentarono nel mio locale – racconta a Luce! – per parlare con il proprietario. Mi dissero ‘Se fino a ora hai pagato qualcuno per la tua tranquillità, sappi che gli unici autorizzati a ricevere denaro siamo noi’. Io fino ad allora non avevo pagato proprio nessuno e neanche intendevo cominciare a farlo. Perciò l’indomani mi recai alla Guardia di Finanza per denunciare il fatto e, devo dire, i poliziotti non credettero alle proprie orecchie. Era forse la prima volta che qualcuno denunciava una richiesta di pizzo senza avere subito particolari minacce. In ogni modo avviammo una procedura che prevedeva la mia apparente accettazione delle condizioni poste dai malavitosi. Durante gli incontri che successivamente ebbi con loro, i poliziotti registrarono i nostri scambi verbali, fino alla consegna effettiva del denaro. Furono poi queste le prove che servirono per avviare il processo e farli incriminare”.

Lo chef Filippo Cogliandro con gli allievi del Buontalenti
Lo chef Filippo Cogliandro con gli allievi del Buontalenti

Ha poi subito minacce o conseguenze?

“Subii minacce, cui però non seguirono quegli effetti drammatici che rischiano di accadere quando si denuncia un’attività malavitosa. Più che altro le conseguenze che pagai furono di tipo economico: le persone che normalmente frequentavano il mio locale preferirono stare alla larga per paura di potersi ritrovare in una situazione di pericolo. Piano piano però sono riuscito a riemergere, tirando fuori tutta quanta la mia grinta. Per cominciare, ho messo a punto nuovi metodi di comunicazione e sperimentato tecniche di cucina alternative. Ho concentrato il mio impegno nello sviluppare tanti aspetti che potessero tutelarmi, mantenendo una costante luce sulla mia professionalità. Ciò che non volevo assolutamente era diventare vittima del riflesso delle mafie”.

Come è nata questa grande passione per la cucina?

“È nata all’improvviso, da adulto, perché da bambino non avevo idea di cosa fosse la cucina. In casa mia cucinare era un’attività prettamente femminile, ai fornelli stavano solo mia madre e mia nonna. I maschi non avevano mai avuto approccio alle padelle o ai fuochi e tutt’oggi sono io l’unico uomo in famiglia che cucina”.

È vero che da ragazzo voleva farsi prete?

“Sì. Ho frequentato il liceo classico al “Pio XI”, il Seminario Arcivescovile di Reggio Calabria. Volevo ricevere la chiamata del Signore e diventare sacerdote. Pregai molto perché questo accadesse, ma il Padre eterno non mi ha mai mandato i segnali che stavo aspettando. Per come la intendo io, la vocazione deve arrivare come una chiamata forte e chiara”.

Lo chef insieme agli allievi dell'Istituto Alberghiero Buontalenti di Firenze
Lo chef insieme agli allievi dell’Istituto Alberghiero Buontalenti di Firenze

Però è arrivata la vocazione all’arte culinaria…

“Sì. Per un periodo mi sono occupato di turismo e di formazione, poi ho conosciuto mia moglie. L’opportunità di diventare cuoco però è arrivata per caso, quando insieme a due amici catechisti decidemmo di aprire un’attività. Ottenni la licenza per poter esercitare la ristorazione e avviammo un ristorantino che si chiama ‘L’A Gourmet L’Accademia’, in onore a Jim Jansen, pittore di corte di Re Baldovino del Belgio che aveva vissuto a Lazzaro negli anni ’70. Si tratta di un artista e folle straordinario, innamorato dei colori del mio paese nei quali riconosceva quelli della scuola di pittura fiamminga. La figlia di Jansen aveva sposato Gaetano, che per l’appunto è uno dei due amici con cui avevo deciso di aprire il locale. In un primo momento io mi occupavo della sala, mentre Gaetano avrebbe fatto il cuoco. L’idea era quella di proporre al pubblico un ristorante d’arte su prenotazione, ossia una novità assoluta dalle nostre parti, al tempo: il cibo sarebbe stato l’arte che proponevamo ai clienti, così come la pittura era stata l’arte di Jansen. Ogni giorno, entro mezzogiorno, ricevevamo le prenotazione dei clienti per la sera stessa; dopo di che andavamo a fare la spesa e aprivamo il ristorante anche solo per una coppia di clienti. La nostra proposta generò molta curiosità e la clientela non tardò ad arrivare. Il problema era che Gaetano faceva anche un altro lavoro e aveva poca disponibilità. Ma, poiché quando cucinava io stavo sempre vicino a lui, un giorno gli chiesi se potevo cucinare al suo posto. Lo feci e ricevetti anche dei complimenti. Mi misi allora a studiare le tecniche di cottura, i metodi particolari di preparazione e presentazione delle vivande e mi appassionai. Alla fine, Gaetano mi disse che potevo continuare da solo e entrai ufficialmente in cucina. Già nel ’99 ero lo chef dell’Accademia e da allora la porto avanti con grande passione”.

Lo Chef della legalità: Filippo Cogliandro, 53 anni originario di Lazzaro (Facebook)
Lo Chef della legalità: Filippo Cogliandro, 53 anni originario di Lazzaro (Facebook)

Come è nata la sua collaborazione con le scuole alberghiere di tutta Italia?

“Nello stesso anno una scuola alberghiera si presentò al locale senza dirmi chi fossero. Cenarono e poi vennero a presentarsi. Cercavano un esperto in nuove tecniche di ristorazione, per portare avanti un progetto di alternanza scolastica con professionisti che si recavano in classe per cucinare insieme agli allievi. Improvvisamente mi ritrovai ad essere non più soltanto chef, ma anche docente. Cominciai a crescere e i miei primi dipendenti diventarono quegli stessi alunni che avevo partecipato a formare”.

Ci parla del progetto “Cene della legalità”?

“Le cene della legalità mi portano a collaborare con le scuole alberghiere di tutta Italia. Durante queste esperienze formative racconto la mia storia, anche la mia esperienza con la mafia, ma soprattutto cuciniamo insieme. Non ho mai voluto diventare un simbolo dell’anti mafia: quando cucino insieme ai ragazzi ci tengo a valorizzare prima di tutto la mia professionalità, di modo da partecipare in maniera fattiva alla loro formazione. Durante le mie cene si parla soprattutto di cucina, di stile, di tecniche di preparazione. Dire che Cogliandro rappresenta esclusivamente la lotta al racket sarebbe riduttivo: nella mia città io sono conosciuto come chef, il resto è un valore aggiunto”.

Da poco ha pubblicato il libro “Io, chef per la mia terra” (Facebook)
Da poco ha pubblicato il libro “Io, chef per la mia terra” (Facebook)

L’ultimo istituto alberghiero in cui ha organizzato una delle sue cene della legalità?

“È stato l’Istituto alberghiero Bernardo Buontalenti di Firenze. Un esperienza decisamente positiva, con docenti preparati e alunni molto motivati. Abbiamo cucinato una bellissima cena, mettendo a confronto l’olio toscano con quello calabrese. Non tutti sanno, infatti, che l’impiego dell’oro verde toscano in Italia è pari al 2%, mentre quello calabrese al 20%. Insieme ai ragazzi abbiamo analizzato le caratteristiche organolettiche dei due tipi di oli, poi abbiamo anche parlato di legalità, certamente, ma soprattutto abbiamo cucinato insieme: sono proprio gli allievi a comporre la cena, io porto le ricette e li assisto, ma poi ognuno di loro ha un compito specifico”.

È difficile diventare un imprenditore dalle sue parti?

“No, ma si deve essere disposti a mettersi in gioco seriamente e a proporre al pubblico qualcosa di speciale. Lo racconto nel mio ultimo libro ‘Io, chef per la mia terra’ (Città Nuova Editore), presentato pochi giorni fa in Calabria, dove mostro il volto di una regione autentica, una terra di eccellenza che ospita tanta gente che vuole e sa fare impresa. Attraverso la mia esperienza, nel libro cerco di mostrare l’anima del mio lavoro, che si sviluppa certamente in un contesto sociale difficile, ma che lascia intravedere uno spaccato sociale e antropologico di quello che è il contesto calabrese in un lasso di tempo di 50 anni. A chi vuol fare impresa dico che in Calabria non ci sono impedimenti seri. Bisogna avere un’idea originale e avere il coraggio di portarla avanti. Certo, fare impresa in Calabria è diverso dal farla in Nord Italia, ma io sono riuscito a identificare un target di clientela scegliendo di uscire fuori dallo standard e ricavandomi una fetta di mercato. Dopo di che ho continuato a mantenere questo mio stile particolare anche nei momenti più difficili e oggi, devo dire, raccolgo i frutti delle miei scelte”.

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  • Nicoletta Sipos, giornalista e scrittrice, ha vissuto in Ungheria, in Germania e negli Stati Uniti, prima di raggiungere Milano e lì restare. Il suo romanzo “La guerra di H”, un romanzo fortemente ispirato a fatti realmente accaduti.

L’autrice indaga in maniera del tutto nuova e appassionante un momento drammatico, decisivo della storia del nostro continente: la Seconda guerra mondiale. A raccontare l’ascesa e la disfatta del Nazismo è stavolta la voce di un bambino tedesco, che riporta con semplicità e veracità le molte sofferenze patite dal suo popolo durante il conflitto scatenato da Hitler, focalizzando l’attenzione del lettore sul drammatico paradigma che accomuna chiunque si trovi a vivere sulla propria pelle una guerra: la sofferenza. Pagine toccanti, le sue, tanto più intense perché impregnate di fatti reali, emozioni provate e sentite dai protagonisti e condivise da quanti, tuttora, si trovano coinvolti in un conflitto armato. La memoria collettiva è uno strumento potente per non commettere gli stessi errori. 

"Imparai poco alla volta – scrive il piccolo Heinrich Stein, protagonista del romanzo – che nel nostro strano Paese la verità aveva più volti con infinite sfumature”.

👉Perché una storia così e perché ora?
“Ho incontrato il protagonista di questa mia storia molto tempo fa, addirittura negli anni ’50, ossia in un’epoca che portava ancora gli strascichi della guerra. Diventammo amici, parlammo di Hitler e della miseria della Germania. Poco per volta, via via che ci incontravamo, lui aggiungeva ricordi, dettagli, confessioni. Per anni ho portato dentro di me la testimonianza di questa storia che si arricchiva sempre più di dettagli. Molte volte avrei voluto scriverla, magari a quattro mani con il mio amico, ma lui non se la sentiva. Io stessa esitavo ad affrontare questa storia che racconta una famiglia tedesca in forte sofferenza in una Germania ferita e umiliata. La gente ha etichettato tutto il popolo tedesco durante il nazismo come crudele per antonomasia. Non si pensa mai a quanto la gente comune abbia sofferto, alla fame e al freddo che anche il popolo tedesco ha patito”.

✍ Caterina Ceccuti

#lucenews #giornodellamemoria #27gennaio
  • È dalla sua camera con vista affacciata sull’Arno che Ornella Vanoni accetta di raccontare un po’ di sé ai lettori di Luce!, in attesa di esibirsi, sabato 28 gennaio sul palco della Tuscany Hall di Firenze, dov’è in programma una nuova tappa della nuova tournée Le Donne e la Musica. Un ritorno atteso per Ornella Vanoni, che in questo tour è accompagnata da un quintetto di sole donne.

Innanzitutto come sta, signora Vanoni?
“Stanca, sono partita due mesi dopo l’intervento al femore che mi sono rotto cadendo per una buca proprio davanti a casa mia. Ma l’incidente non mi ha impedito di intraprendere un progetto inaspettato che, sin da subito, mi è stato molto a cuore. Non ho perso la volontà di andare avanti. Anche se il tempo per prepararlo e provare è stato pochissimo. E poi sono molto dispiaciuta“.

Per cosa?
“La morte dell’orso Juan Carrito, travolto e ucciso da un’auto cercava bacche e miele: la mia carissima amica Dacia (Maraini, ndr) l’altro giorno ha scritto una cosa molto bella dedicata a lui. Dovrò scrollarmi di dosso la malinconia e ricaricarmi in vista del concerto“.

Con lei sul palco ci sarà una jazz band al femminile con Sade Mangiaracina al pianoforte, Eleonora Strino alla chitarra, Federica Michisanti al contrabbasso, Laura Klain alla batteria e Leila Shirvani. Perché questa scelta?
“Perché sono tutte bravissime, professioniste davvero eccezionali. Non è una decisione presa sulla spinta di tematiche legate al genere o alle quote rosa, ma nata grazie a Paolo Fresu, amico e trombettista fantastico del quale sono innamorata da sempre. Tempo fa, durante una chiacchierata, Paolo mi raccontò che al festival jazz di Berchidda erano andate in scena tante musiciste bravissime. E allora ho pensato: ’Se sono così brave perché non fare un gruppo di donne? Certo, non l’ha fatto mai nessuno. Bene, ora lo faccio io“.

Il fatto che siano tutte donne è un valore aggiunto?
“In realtà per me conta il talento, ma sono felice della scelta: è bellissimo sentire suonare queste artiste, vederle sul palco intorno a me mi emoziona“.

L
  • Devanshi Sanghvi è una bambina di otto anni che sarebbe potuta crescere e studiare per gestire l’attività di diamanti multimilionaria appartenente alla sua facoltosissima famiglia, con un patrimonio stimato di 60 milioni di dollari.

Ma la piccola ha scelto di farsi suora, vivendo così una vita spartana, vestita con sari bianchi, a piedi nudi e andando di porta in porta a chiedere l’elemosina. Si è unita ai “diksha” alla presenza di anziani monaci giainisti. La bimba è arrivata alla cerimonia ingioiellata e vestita di sete pregiate. Sulla sua testa poggiava una corona tempestata di diamanti. Dopo la cerimonia, a cui hanno partecipato migliaia di persone, è rimasta in piedi con altre suore, vestita con un sari bianco che le copriva anche la testa rasata. Nelle fotografie, la si vede con in mano una scopa che ora dovrà usare per spazzare via gli insetti dal suo cammino per evitare di calpestarli accidentalmente.

Di Barbara Berti ✍

#lucenews #lucelanazione #india #DevanshiSanghvi
  • Settanta giorni trascorsi in un mondo completamente bianco, la capitana dell’esercito britannico Harpreet Chandi, che già lo scorso anno si era distinta per un’impresa tra i ghiacci, è una fisioterapista che lavora in un’unità di riabilitazione regionale nel Buckinghamshire, fornendo supporto a soldati e ufficiali feriti. 

Ha dimostrato che i record sono fatti per essere battuti e, soprattutto, i limiti personali superabili grazie alla forza di volontà e alla preparazione. E ora è diventata una vera leggenda vivente, battendo il record del mondo femminile per la più lunga spedizione polare – sola e senza assistenza – della storia.

Il 9 gennaio scorso, 57esimo giorno del viaggio che era cominciato lo scorso 14 novembre, la 34enne inglese ha raggiunto il centro del Polo Sud dopo aver percorso circa 1100 chilometri. Quando è arrivata a destinazione nel bel mezzo della calotta polare era felice, pura e semplice gioia di aver raggiunto l’agognato traguardo: “Il Polo Sud è davvero un posto incredibile dove stare. Non mi sono fermata molto a lungo perché ho ancora un lungo viaggio da fare. È stato davvero difficile arrivare qui, sciando tra le 13 e le 15 ore al giorno con una media di 5 ore di sonno”.

Di Irene Carlotta Cicora ✍

#lucenews #lucelanazione #polosud #HarpreetChandi #polarpreet
Tutti lo chiamano “lo chef della legalità”, ma Filippo Cogliandro, 53 anni originario di Lazzaro (Reggio Calabria), si considera semplicemente un professionista nell'arte culinaria. Il fatto è che diversi anni fa, quando il suo ristorante su prenotazione “L'A Gourmet L'Accademia”, molto particolare nel suo genere, andava già a gonfie vele, Cogliandro ricevette la richiesta di pagare un pizzo dalla malavita locale e lui non solo si rifiutò di farlo, ma andò dritto dritto a denunciare il tentativo di estorsione alla Guardia di Finanza. “Queste persone si presentarono nel mio locale - racconta a Luce! - per parlare con il proprietario. Mi dissero 'Se fino a ora hai pagato qualcuno per la tua tranquillità, sappi che gli unici autorizzati a ricevere denaro siamo noi'. Io fino ad allora non avevo pagato proprio nessuno e neanche intendevo cominciare a farlo. Perciò l'indomani mi recai alla Guardia di Finanza per denunciare il fatto e, devo dire, i poliziotti non credettero alle proprie orecchie. Era forse la prima volta che qualcuno denunciava una richiesta di pizzo senza avere subito particolari minacce. In ogni modo avviammo una procedura che prevedeva la mia apparente accettazione delle condizioni poste dai malavitosi. Durante gli incontri che successivamente ebbi con loro, i poliziotti registrarono i nostri scambi verbali, fino alla consegna effettiva del denaro. Furono poi queste le prove che servirono per avviare il processo e farli incriminare”.
Lo chef Filippo Cogliandro con gli allievi del Buontalenti
Lo chef Filippo Cogliandro con gli allievi del Buontalenti
Ha poi subito minacce o conseguenze? “Subii minacce, cui però non seguirono quegli effetti drammatici che rischiano di accadere quando si denuncia un'attività malavitosa. Più che altro le conseguenze che pagai furono di tipo economico: le persone che normalmente frequentavano il mio locale preferirono stare alla larga per paura di potersi ritrovare in una situazione di pericolo. Piano piano però sono riuscito a riemergere, tirando fuori tutta quanta la mia grinta. Per cominciare, ho messo a punto nuovi metodi di comunicazione e sperimentato tecniche di cucina alternative. Ho concentrato il mio impegno nello sviluppare tanti aspetti che potessero tutelarmi, mantenendo una costante luce sulla mia professionalità. Ciò che non volevo assolutamente era diventare vittima del riflesso delle mafie”. Come è nata questa grande passione per la cucina? “È nata all'improvviso, da adulto, perché da bambino non avevo idea di cosa fosse la cucina. In casa mia cucinare era un'attività prettamente femminile, ai fornelli stavano solo mia madre e mia nonna. I maschi non avevano mai avuto approccio alle padelle o ai fuochi e tutt'oggi sono io l'unico uomo in famiglia che cucina”. È vero che da ragazzo voleva farsi prete? “Sì. Ho frequentato il liceo classico al “Pio XI”, il Seminario Arcivescovile di Reggio Calabria. Volevo ricevere la chiamata del Signore e diventare sacerdote. Pregai molto perché questo accadesse, ma il Padre eterno non mi ha mai mandato i segnali che stavo aspettando. Per come la intendo io, la vocazione deve arrivare come una chiamata forte e chiara”.
Lo chef insieme agli allievi dell'Istituto Alberghiero Buontalenti di Firenze
Lo chef insieme agli allievi dell'Istituto Alberghiero Buontalenti di Firenze
Però è arrivata la vocazione all'arte culinaria... “Sì. Per un periodo mi sono occupato di turismo e di formazione, poi ho conosciuto mia moglie. L'opportunità di diventare cuoco però è arrivata per caso, quando insieme a due amici catechisti decidemmo di aprire un'attività. Ottenni la licenza per poter esercitare la ristorazione e avviammo un ristorantino che si chiama 'L'A Gourmet L'Accademia', in onore a Jim Jansen, pittore di corte di Re Baldovino del Belgio che aveva vissuto a Lazzaro negli anni '70. Si tratta di un artista e folle straordinario, innamorato dei colori del mio paese nei quali riconosceva quelli della scuola di pittura fiamminga. La figlia di Jansen aveva sposato Gaetano, che per l'appunto è uno dei due amici con cui avevo deciso di aprire il locale. In un primo momento io mi occupavo della sala, mentre Gaetano avrebbe fatto il cuoco. L'idea era quella di proporre al pubblico un ristorante d'arte su prenotazione, ossia una novità assoluta dalle nostre parti, al tempo: il cibo sarebbe stato l'arte che proponevamo ai clienti, così come la pittura era stata l'arte di Jansen. Ogni giorno, entro mezzogiorno, ricevevamo le prenotazione dei clienti per la sera stessa; dopo di che andavamo a fare la spesa e aprivamo il ristorante anche solo per una coppia di clienti. La nostra proposta generò molta curiosità e la clientela non tardò ad arrivare. Il problema era che Gaetano faceva anche un altro lavoro e aveva poca disponibilità. Ma, poiché quando cucinava io stavo sempre vicino a lui, un giorno gli chiesi se potevo cucinare al suo posto. Lo feci e ricevetti anche dei complimenti. Mi misi allora a studiare le tecniche di cottura, i metodi particolari di preparazione e presentazione delle vivande e mi appassionai. Alla fine, Gaetano mi disse che potevo continuare da solo e entrai ufficialmente in cucina. Già nel '99 ero lo chef dell'Accademia e da allora la porto avanti con grande passione”.
Lo Chef della legalità: Filippo Cogliandro, 53 anni originario di Lazzaro (Facebook)
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Come è nata la sua collaborazione con le scuole alberghiere di tutta Italia? “Nello stesso anno una scuola alberghiera si presentò al locale senza dirmi chi fossero. Cenarono e poi vennero a presentarsi. Cercavano un esperto in nuove tecniche di ristorazione, per portare avanti un progetto di alternanza scolastica con professionisti che si recavano in classe per cucinare insieme agli allievi. Improvvisamente mi ritrovai ad essere non più soltanto chef, ma anche docente. Cominciai a crescere e i miei primi dipendenti diventarono quegli stessi alunni che avevo partecipato a formare”. Ci parla del progetto “Cene della legalità”? “Le cene della legalità mi portano a collaborare con le scuole alberghiere di tutta Italia. Durante queste esperienze formative racconto la mia storia, anche la mia esperienza con la mafia, ma soprattutto cuciniamo insieme. Non ho mai voluto diventare un simbolo dell'anti mafia: quando cucino insieme ai ragazzi ci tengo a valorizzare prima di tutto la mia professionalità, di modo da partecipare in maniera fattiva alla loro formazione. Durante le mie cene si parla soprattutto di cucina, di stile, di tecniche di preparazione. Dire che Cogliandro rappresenta esclusivamente la lotta al racket sarebbe riduttivo: nella mia città io sono conosciuto come chef, il resto è un valore aggiunto”.
Da poco ha pubblicato il libro “Io, chef per la mia terra” (Facebook)
Da poco ha pubblicato il libro “Io, chef per la mia terra” (Facebook)
L'ultimo istituto alberghiero in cui ha organizzato una delle sue cene della legalità? “È stato l'Istituto alberghiero Bernardo Buontalenti di Firenze. Un esperienza decisamente positiva, con docenti preparati e alunni molto motivati. Abbiamo cucinato una bellissima cena, mettendo a confronto l'olio toscano con quello calabrese. Non tutti sanno, infatti, che l'impiego dell'oro verde toscano in Italia è pari al 2%, mentre quello calabrese al 20%. Insieme ai ragazzi abbiamo analizzato le caratteristiche organolettiche dei due tipi di oli, poi abbiamo anche parlato di legalità, certamente, ma soprattutto abbiamo cucinato insieme: sono proprio gli allievi a comporre la cena, io porto le ricette e li assisto, ma poi ognuno di loro ha un compito specifico”. È difficile diventare un imprenditore dalle sue parti? “No, ma si deve essere disposti a mettersi in gioco seriamente e a proporre al pubblico qualcosa di speciale. Lo racconto nel mio ultimo libro 'Io, chef per la mia terra' (Città Nuova Editore), presentato pochi giorni fa in Calabria, dove mostro il volto di una regione autentica, una terra di eccellenza che ospita tanta gente che vuole e sa fare impresa. Attraverso la mia esperienza, nel libro cerco di mostrare l'anima del mio lavoro, che si sviluppa certamente in un contesto sociale difficile, ma che lascia intravedere uno spaccato sociale e antropologico di quello che è il contesto calabrese in un lasso di tempo di 50 anni. A chi vuol fare impresa dico che in Calabria non ci sono impedimenti seri. Bisogna avere un'idea originale e avere il coraggio di portarla avanti. Certo, fare impresa in Calabria è diverso dal farla in Nord Italia, ma io sono riuscito a identificare un target di clientela scegliendo di uscire fuori dallo standard e ricavandomi una fetta di mercato. Dopo di che ho continuato a mantenere questo mio stile particolare anche nei momenti più difficili e oggi, devo dire, raccolgo i frutti delle miei scelte”.
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