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Home » Lifestyle » L’islamofobia e l’odio anti-musulmano spopolano sui social. E le piattaforme rimangono a guardare

L’islamofobia e l’odio anti-musulmano spopolano sui social. E le piattaforme rimangono a guardare

L'89% dei contenuti razzisti, violenti e di incitamento all'odio verso la comunità musulmana non viene rimosso dalle piattaforme. L'analisi del Centro per la lotta contro l'odio digitale fornisce una panoramica inquietante

Marianna Grazi
3 Maggio 2022
musulmani-contro-isis-not-in-my-name

Donne musulmane contro il terrorismo

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Le aziende dei social media devono agire con urgenza e affrontare l’odio anti-musulmano. Anche perché, fino ad ora, le principali piattaforme – e parliamo quindi di Instagram, Facebook, Twitter, TikTok e YouTube – non hanno fatto assolutamente nulla contro l’89% dei contenuti islamofobici che sono stati segnalati loro, secondo uno studio del Centro per la lotta all’odio digitale (Center for Countering Digital Hate). Nello specifico il primato negativo spetta a YouTube, che non ha eliminato nessun post e ha rimosso zero account.

Donne musulmane negli Usa mostrano i cartelli con il volto di una ragazza islamica che indossa il burqa fatto con la bandiera americana, a simboleggiare la volontà di integrazione

I ricercatori del Centro, che è una ong internazionale senza scopo di lucro che cerca di smantellare il sistema di odio e disinformazione online e ha uffici a Londra e Washington DC, hanno segnalato analizzato centinaia di post che includevano stereotipi razzisti, narrazioni che incitano all’odio e post che glorificano gli omicidi di massa. E pensare che dopo la sparatoria alla sinagoga Tree of Life (Pittsburgh, 2018) e gli attacchi alla moschea di Christchurch (Nuova Zelanda, 2019) quattro di queste piattaforme nel 2019 si erano impegnate, con una dichiarazione congiunta insieme a Microsoft, Google e Amazon, dichiarandosi “risolute nel garantire che stiamo facendo tutto il possibile per combattere l’odio e l’estremismo che portano alla violenza terroristica”. Un nobile intento, che però è rimasto tale, visto che in media solo un contenuto su 10 di questo tipo è stato rimosso, stando ai dati. “Ancora una volta, i loro comunicati stampa dimostrano di non essere altro che vuote promesse” dichiara infatti la CEO del Centro Imran Ahmed.

 

Il report del Centro per la lotta all’odio digitale

Gli esperti del CCDH, utilizzando gli strumenti di segnalazione delle piattaforme stesse, hanno analizzato 530 post che presentano contenuti inquietanti, bigotti e disumanizzanti, in cui si prendono di mira le persone musulmane attraverso caricature razziste, cospirazioni e false dichiarazioni. Questi post sono stati visti almeno 25 milioni di volte. Molti dei contenuti islamofobi erano facilmente identificabili, eppure praticamente non è stato fatto nulla per rimuoverli. Instagram, TikTok e Twitter  hanno permesso agli utenti di usare hashtag come #deathtoislam, #islamiscancer e #raghead (un termine offensivo per una persona che indossa un turbante, una kefiah, ecc.). I contenuti diffusi utilizzando questo tipo di hashtag hanno ricevuto almeno 1,3 milioni di reazioni.
La tabella qui sotto mostra quanti post sono stati registrati su ogni piattaforma e quanti di questi sono stati cancellati, quanti account rimossi e una percentuali delle azioni intraprese dalle piattaforme.

dati-social-anti-islam
I dati raccolti dal Centro per la lotta all’odio digitale su 530 post su Facebook, Instagram, TikTok, Twitter, YouTube

Cosa manca

I ricercatori del Centro per la lotta all’odio digitale suggeriscono, a corredo del report, quali possano essere le misure necessarie e i poteri da assumere da parte delle società per far sì che la catena di discriminazione e violenza islamofobica si interrompa. “La nostra esperienza come organizzazione – sostengono nel comunicato – suggerisce che a livello globale mancano tre cose nelle autorità esistenti:

1) Il potere di imporre la trasparenza sugli algoritmi (che selezionano quali contenuti vengono amplificati e quali no); l’applicazione di standard comunitari (quali regole vengono applicate e come e quando); e l’economia (dove, quando, da chi, e usando quali dati, la pubblicità, che costituisce la maggior parte delle entrate per le piattaforme di social media, viene piazzata).

2) Il potere di ritenere le piattaforme di social media responsabili a livello individuale, comunitario e nazionale per l’impatto dei contenuti che monetizzano

3) Il potere di ritenere responsabili i dirigenti dei social media per la loro condotta come amministratori di piattaforme che hanno un enorme peso nel dibattito pubblico, non solo in termini di moderazione dei contenuti, ma anche di amplificazione di questi, in termini di design istituzionale e di esperienza dell’utente, e in termini di equità nell’esperienza che fanno le persone delle comunità marginalizzate.

Le conseguenze

Qual è l’impatto dell’inazione? Quando le aziende dei social non agiscono sui contenuti di odio e violenti che appaiono sulle piattaforme, sono consapevoli che questo comporta una significativa minaccia nella realtà offline. L’odio anti-musulmano cerca di disumanizzare ed emarginare comunità di persone storicamente oggetto di minacce violente, attacchi, discriminazione e ostilità. Permettere a questi contenuti di essere promossi e condivisi sui social network, senza interventi e azioni repressive efficaci, mette ulteriormente in pericolo questa comunità determinando divisioni sociali, normalizzando comportamenti scorretti e incoraggiando attacchi e soprusi offline. “Peggio ancora – sostiene la CEO di CCDH Imran Ahmed – le piattaforme traggono profitto da questo odio, monetizzando allegramente sui contenuti, le interazioni, l’attenzione e le visualizzazioni che ne derivano. Per loro, l’odio è un buon affare”.

“Se posso, parlo a titolo personale per un momento – scrive Ahmed nella nota -. Mia madre è musulmana. È una donna buona, lavoratrice, gentile e amorevole. Merita di più da coloro che hanno il potere di proteggerla dagli attacchi amplificati dei teorici della cospirazione e dei subdoli e capaci mercanti d’odio. Eppure non riescono a fare la loro parte. Io non riesco dormire quando vedo l’ingiustizia, mi fa venire voglia di agire. Per questo, per quanto mi riguarda, non capisco come i miliardari che possiedono queste piattaforme possano dormire la notte quando sanno che potrebbero fare molto, molto di più“, conclude.

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  • Per una detenuta come Joy – nigeriana di 34 anni, arrestata nel 2014 per possesso di droga – uscire dal carcere significherà dover imparare a badare a se stessa. Lei che è lontana da casa e dalla famiglia, lei che non ha nessuno ad aspettarla. In carcere ha fatto il suo percorso, ha imparato tanto, ha sofferto di più. Ma ha anche conosciuto persone importanti, detenute come lei che sono diventate delle amiche. 

Mon solo. Nella Cooperativa sociale Gomito a Gomito, per esempio, ha trovato una seconda famiglia, un ambiente lavorativo che le ha offerto “opportunità che, se fossi stata fuori dal carcere, non avrei mai avuto”, come quella di imparare un mestiere e partecipare ad un percorso di riabilitazione sociale e personale verso l’indipendenza, anche economica.

Enrica Morandi, vice presidente e coordinatrice dei laboratori sartoriali del carcere di Rocco D’Amato (meglio noto ai bolognesi come “La Dozza”), si riferisce a lei chiamandola “la mia Joy”, perché dopo tanti anni di lavoro fianco a fianco ha imparato ad apprezzare questa giovane donna impegnata a ricostruire la propria vita: 

“Joy è extracomunitaria, nel nostro Paese non ha famiglia. Per lei sarà impossibile beneficiare degli sconti di pena su cui normalmente possono contare le detenute italiane, per buona condotta o per anni di reclusione maturati. Non è una questione di razzismo, è che esistono problemi logistici veri e propri, come il non sapere dove sistemare e a chi affidare queste ragazze, una volta lasciate le mura del penitenziario. Se una donna italiana ha ad attenderla qualcuno che si fa carico di ospitarla, Joy e altre come lei non hanno nessun cordone affettivo cui appigliarsi”.

L
  • Presidi psicologici, psicoterapeutici e di counselling per tutti gli studenti universitari e scolastici. Lo chiedono l’Udu, Unione degli universitari, e la Rete degli studenti medi nella proposta di legge ‘Chiedimi come sto’ consegnata a una delegazione di parlamentari nel corso di una conferenza stampa a Montecitorio.

La proposta è stata redatta secondo le conclusioni di una ricerca condotta da Spi-Cgil e Istituto Ires, che ha evidenziato come, su un campione di 50mila risposte, il 28 per cento abbia avuto esperienze di disturbi alimentari e oltre il 14 di autolesionismo.

“Nella nostra generazione è ancora forte lo stigma verso chi sta male ed è difficile chiedere aiuto - spiega Camilla Piredda, coordinatrice nazionale dell’Udu - l’interesse effettivo della politica si è palesato solo dopo il 15esimo suicidio di studenti universitari in un anno e mezzo. Ci sembra assurdo che la politica si interessi solamente dopo che si supera il limite, con persone che arrivano a scegliere di togliersi la vita.

Dall’altro lato, è positivo che negli ultimi mesi si sia deciso di chiedere a noi studenti come affrontare e come risolvere, il problema. Non è scontato e non è banale, perché siamo abituati a decenni in cui si parla di nuove generazioni senza parlare alle nuove generazioni”.

#luce #lucenews #università
  • La polemica politica riaccende i riflettori sulle madri detenute con i figli dopo la proposta di legge in merito alla detenzione in carcere delle donne in gravidanza: già presentata dal Pd nella scorsa legislatura, approvata in prima lettura al Senato, ma non alla Camera, prevedeva l’affido della madre e del minore a strutture protette, come le case famiglia, e vigilate. La dichiarata intenzione del centrodestra di rivedere il testo ha messo il Pd sul piede di guerra; alla fine di uno scontro molto acceso, i dem hanno ritirato il disegno di legge ma la Lega, quasi per ripicca, ne ha presentato uno nuovo, esattamente in linea con i desideri della maggioranza.

Lunedì non ci sarà quindi alcuna discussione alla Camera sul testo presentato da Debora Serracchiani nella scorsa legislatura, Tutto ripartirà da capo, con un nuovo testo, firmato da due esponenti del centrodestra: Jacopo Morrone e Ingrid Bisa.

“Questo (il testo Serracchini) era un testo che era già stato votato da un ramo del Parlamento, noi lo avevamo ripresentato per migliorare le condizioni delle detenute madri – ha spiegato ieri il dem Alessandro Zan – ma la maggioranza lo ha trasformato inserendovi norme che di fatto peggiorano le cose, consentendo addirittura alle donne incinte o con figli di meno di un anno di età di andare in carcere. Così non ha più senso, quindi ritiriamo le firme“.

Lo scontro tra le due fazioni è finito (anche) sui social media. "Sul tema delle borseggiatrici e ladre incinte occorre cambiare la visione affinché la gravidanza non sia una scusa“ sottolineano i due presentatori della proposta.

La proposta presentata prevede modifiche all’articolo 146 del codice penale in materia di rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena: “Se sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti – si legge nel testo presentato – il magistrato di sorveglianza può disporre che l’esecuzione della pena non sia differita, ovvero, se già differita, che il differimento sia revocato. Qualora la persona detenuta sia recidiva, l’esecuzione della pena avviene presso un istituto di custodia attenuata per detenute madri“.

#lucenews #madriincarcere
Le aziende dei social media devono agire con urgenza e affrontare l'odio anti-musulmano. Anche perché, fino ad ora, le principali piattaforme - e parliamo quindi di Instagram, Facebook, Twitter, TikTok e YouTube - non hanno fatto assolutamente nulla contro l'89% dei contenuti islamofobici che sono stati segnalati loro, secondo uno studio del Centro per la lotta all'odio digitale (Center for Countering Digital Hate). Nello specifico il primato negativo spetta a YouTube, che non ha eliminato nessun post e ha rimosso zero account.
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Gli esperti del CCDH, utilizzando gli strumenti di segnalazione delle piattaforme stesse, hanno analizzato 530 post che presentano contenuti inquietanti, bigotti e disumanizzanti, in cui si prendono di mira le persone musulmane attraverso caricature razziste, cospirazioni e false dichiarazioni. Questi post sono stati visti almeno 25 milioni di volte. Molti dei contenuti islamofobi erano facilmente identificabili, eppure praticamente non è stato fatto nulla per rimuoverli. Instagram, TikTok e Twitter  hanno permesso agli utenti di usare hashtag come #deathtoislam, #islamiscancer e #raghead (un termine offensivo per una persona che indossa un turbante, una kefiah, ecc.). I contenuti diffusi utilizzando questo tipo di hashtag hanno ricevuto almeno 1,3 milioni di reazioni. La tabella qui sotto mostra quanti post sono stati registrati su ogni piattaforma e quanti di questi sono stati cancellati, quanti account rimossi e una percentuali delle azioni intraprese dalle piattaforme.
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I dati raccolti dal Centro per la lotta all'odio digitale su 530 post su Facebook, Instagram, TikTok, Twitter, YouTube

Cosa manca

I ricercatori del Centro per la lotta all'odio digitale suggeriscono, a corredo del report, quali possano essere le misure necessarie e i poteri da assumere da parte delle società per far sì che la catena di discriminazione e violenza islamofobica si interrompa. "La nostra esperienza come organizzazione - sostengono nel comunicato - suggerisce che a livello globale mancano tre cose nelle autorità esistenti: 1) Il potere di imporre la trasparenza sugli algoritmi (che selezionano quali contenuti vengono amplificati e quali no); l'applicazione di standard comunitari (quali regole vengono applicate e come e quando); e l'economia (dove, quando, da chi, e usando quali dati, la pubblicità, che costituisce la maggior parte delle entrate per le piattaforme di social media, viene piazzata). 2) Il potere di ritenere le piattaforme di social media responsabili a livello individuale, comunitario e nazionale per l'impatto dei contenuti che monetizzano 3) Il potere di ritenere responsabili i dirigenti dei social media per la loro condotta come amministratori di piattaforme che hanno un enorme peso nel dibattito pubblico, non solo in termini di moderazione dei contenuti, ma anche di amplificazione di questi, in termini di design istituzionale e di esperienza dell'utente, e in termini di equità nell'esperienza che fanno le persone delle comunità marginalizzate.

Le conseguenze

Qual è l'impatto dell'inazione? Quando le aziende dei social non agiscono sui contenuti di odio e violenti che appaiono sulle piattaforme, sono consapevoli che questo comporta una significativa minaccia nella realtà offline. L'odio anti-musulmano cerca di disumanizzare ed emarginare comunità di persone storicamente oggetto di minacce violente, attacchi, discriminazione e ostilità. Permettere a questi contenuti di essere promossi e condivisi sui social network, senza interventi e azioni repressive efficaci, mette ulteriormente in pericolo questa comunità determinando divisioni sociali, normalizzando comportamenti scorretti e incoraggiando attacchi e soprusi offline. "Peggio ancora - sostiene la CEO di CCDH Imran Ahmed - le piattaforme traggono profitto da questo odio, monetizzando allegramente sui contenuti, le interazioni, l'attenzione e le visualizzazioni che ne derivano. Per loro, l'odio è un buon affare". "Se posso, parlo a titolo personale per un momento - scrive Ahmed nella nota -. Mia madre è musulmana. È una donna buona, lavoratrice, gentile e amorevole. Merita di più da coloro che hanno il potere di proteggerla dagli attacchi amplificati dei teorici della cospirazione e dei subdoli e capaci mercanti d'odio. Eppure non riescono a fare la loro parte. Io non riesco dormire quando vedo l'ingiustizia, mi fa venire voglia di agire. Per questo, per quanto mi riguarda, non capisco come i miliardari che possiedono queste piattaforme possano dormire la notte quando sanno che potrebbero fare molto, molto di più", conclude.
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