Main Partner

main partnermain partnermain partner

Partner

main partner

Joy, detenuta a Bologna: dopo 4 anni può riascoltare la voce del fratello

Dal carcere La Dozza la giovane nigeriana racconta: "All'inizio è stata dura, non potevo sentire la mia famiglia. Grazie al laboratorio di sartoria potrò essere indipendente"

di CATERINA CECCUTI -
24 marzo 2023
A

A

Sono chiuse in mondo separato, distante. Imprigionate in un microcosmo tutto femminile fatto di disperazione, apatia, struggimento per la vita che è stata e che non tornerà, per quella che poteva essere ma non sarà. Un mondo in cui il tempo non passa mai, nel quale, alla fine, si devono imparare doti come la pazienza e la comprensione, se si vuole sopravvivere. E mentre è in corso lo scontro tra Pd e Lega sulle detenute madri (in carcere anche incinte), la legge slitta ancora. I dem spiazzati ritirano la loro proposta sulle misure alternative per chi ha figli. Ma il Carroccio in poche ore ne ripresenta una uguale e contraria e Salvini: "Gravidanze usate per evitare il carcere, è una vergogna".

La storia

Per una detenuta come Joy – nigeriana di 34 anni, arrestata nel 2014 per possesso di droga - uscire dal carcere significherà dover imparare a badare a se stessa. Lei che è lontana da casa e dalla famiglia, lei che non ha nessuno ad aspettarla. In carcere ha fatto il suo percorso, ha imparato tanto, ha sofferto di più. Ma ha anche conosciuto persone importanti, detenute come lei che sono diventate delle amiche. Ma non solo. Nella Cooperativa sociale Gomito a Gomito, per esempio, ha trovato una seconda famiglia, un ambiente lavorativo che le ha offerto "opportunità che, se fossi stata fuori dal carcere, non avrei mai avuto", come quella di imparare un mestiere e partecipare ad un percorso di riabilitazione sociale e personale verso l'indipendenza, anche economica. Enrica Morandi, vice presidente e coordinatrice dei laboratori sartoriali del carcere di Rocco D'Amato (meglio noto ai bolognesi come “La Dozza”), si riferisce a lei chiamandola “la mia Joy”, perché dopo tanti anni di lavoro fianco a fianco ha imparato ad apprezzare questa giovane donna impegnata a ricostruire la propria vita: "Joy è extracomunitaria, nel nostro Paese non ha famiglia. Per lei sarà impossibile beneficiare degli sconti di pena su cui normalmente possono contare le detenute italiane, per buona condotta o per anni di reclusione maturati. Non è una questione di razzismo, è che esistono problemi logistici veri e propri, come il non sapere dove sistemare e a chi affidare queste ragazze, una volta lasciate le mura del penitenziario. Se una donna italiana ha ad attenderla qualcuno che si fa carico di ospitarla, Joy e altre come lei non hanno nessun cordone affettivo cui appigliarsi".

Joy nel laboratorio sartoriale "Gomito a Gomito" di Bologna (Foto di Alessandro Ruggeri)

La voce di Joy, quando mi parla al telefono raccontandomi cose tanto intime e dolorose che a stento riesco a chiedergliele, è ferma e consapevole. C'è una nota di nostalgia e di rammarico solo quando mi parla della sua famiglia lontana, ammettendo le enormi difficoltà nel contattarla che ha incontrato nei primi anni di reclusione. "La cosa che mi ha fatto soffrire di più in questi anni è stato non poter contattare la mia famiglia. Mi hanno arrestato nel 2014, ma solo dopo 4 anni e alcuni mesi ho avuto la prima possibilità di parlare con i miei parenti in Nigeria. Tutte le volte che presentavo l'istanza mi veniva risposto che le chiamate all'estero erano molto complicate. Io però, in quel momento più che mai, avevo bisogno della mia famiglia, di parlare con loro almeno una volta a settimana, per farmi coraggio, per fargli sapere come stavo. Ricordo che la prima volta che sono riuscita a sentire mio fratello, lui si è messo a piangere perché credeva che fossi morta". Poi ha cominciato a lavorare con la Cooperativa sociale Gomito a Gomito. Come è cambiata la sua vita, Joy? "È stata ed è tutt'ora un'esperienza importante. Ho avuto la possibilità di fare un corso, professionalizzarmi. Sono venuta in Italia per fare questo, per poter aiutare la famiglia che ho dovuto lasciare in Nigeria. Ora lavoro in una sartoria e vedo le cose in modo diverso. In precedenza, quando lavoravo nella Dozza, facevo le pulizie per una cooperativa. Facevo più ore e perciò guadagnavo di più. Ma penso che qualsiasi lavoro si faccia debba essere fatto con passione, altrimenti è un peccato. E il lavoro di sartoria mi piace, sarebbe difficile adesso per me lasciarlo e tornare a fare le pulizie. Cucire con il progetto Gomito a Gomito mi permette di scoprire sempre cose nuove da fare, sfide diverse con cui misurarmi". Vice presidente Morandi, come funziona il vostro laboratorio? "Il nostro laboratorio si chiama 'Gomito a Gomito' perché si trova in via del Gomito, ma il nome sta ad indicare soprattutto il fatto che lavoriamo in locali molti angusti. Esistiamo da 13 anni, siamo tutti volontari, ad eccezione ovviamente delle detenute e dei detenuti regolarmente assunti e della sarta che li guida nel loro lavoro. Attualmente diamo occupazione a 7 dipendenti. Negli anni abbiamo impiegato 30-40 donne e 7 uomini (ai detenuti maschi abbiamo aperto solo nel 2019). L'attività della nostra cooperativa è quella di gestire e coordinare i laboratori sartoriali: uno femminile, uno maschile e uno esterno. Quando hanno maturato i termini per usufruire dell'articolo 21, che sia semi libertà, affido o arresti domiciliari, possiamo offrire ai detenuti un lavoro. La sera tornano a dormire in carcere o nella comunità affidataria, seguendo sempre rigorosamente le disposizioni del giudice di sorveglianza che indica orari di lavoro e di rientro, percorsi da fare ecc. Questo perché, a tutti gli effetti, possono uscire per recarsi a lavorare, ma restano comunque detenuti. L'unico modo per usufruire di questa condizione di semi libertà, però, è avere un lavoro esterno: non si può avere un vantaggio simile se non si ha la possibilità di andare a lavorare da qualche parte".

Detenute al lavoro nel laboratorio sartoriale Gomito a Gomito di Bologna (Foto di Alessandro Ruggeri)

Morandi quali sono i requisiti per essere presi a lavorare presso il vostro laboratorio? "Hanno diritto ad accedere ai nostri corsi di formazione persone che non siano tossicodipendenti, non abbiano già un'occupazione interna al carcere e che non presentino problematiche psichiatriche. Non ultimo, ovviamente, il fatto che abbiano voglia e interesse a svolgere un'attività professionale. È il carcere stesso a comunicarci una lista di persone, per stilare la quale viene coinvolta l'intera equipe educativa”. In base alla sua esperienza, quali sono le problematiche principali che incontrano le detenute? "Una donna in carcere vive una condizione molto diversa da quella degli uomini. Le carceri stesse sono pensate per un utenza maschile. Primo tra tutti i problemi: le strutture penitenziarie non sono luoghi idonei ad accogliere i bambini piccoli, che invece possono restare con la madre detenuta fino a tre anni di età. Ma anche solo dal punto psicologico, una donna vive la condizione di reclusione in modo più viscerale -senza accezione negativa, beninteso-. Le donne difficilmente riescono ad oziare. Devono impegnarsi in qualche attività: dipingere, scrivere, leggere, farsi i capelli o le unghie. Sono come vulcani in continua eruzione. La nostra regione è fortunata perché, grazie ad una convenzione con la Giovanni XXIII, qualora vi sia bisogno, una mamma con un bambino può essere accolta nella sua Comunità. Ma nel resto d'Italia questa possibilità non esiste, perciò le mamme devono stare chiuse in prigione con i loro bambini piccoli. In carcere non ci sono asili né possibilità per un bambino di relazionarsi con altre persone della sua età. Il risultato è che il figlio di una detenuta diventa il bambolotto di tutte. Tutte vogliono viziarlo e coccolarlo, perché per loro rappresenta una distrazione gradevole, anche se in realtà un contesto simile non è positivo per il piccolo: chiuso dentro quattro mura di cemento, il bambino è in balia dei lamenti e degli sbalzi di umore di tutte, con tante donne intorno disperate che spesso piangono e danno in escandescenze. La disperazione, nelle carceri, è sempre presente. Inoltre un penitenziario è uno dei luoghi più brutti al mondo, grigio, squallido, con celle anguste e lunghe chiavi per serrare costantemente cancelli e sbarre”. Quali storie hanno alle spalle le vostre dipendenti? "Abbiamo lavoratrici che sono con noi da ben 12 anni, il che significa che stanno scontando pene lunghissime, in certi casi per omicidio. In base all'esperienza che vivo con loro, ho capito che quando una donna commette un atto simile è perché spesso ha subito una violenza, o addirittura molte violenze, da parte di un marito, di un padre, ecc. Questo certamente non giustifica nulla, ma dice comunque molto. In laboratorio sentiamo ripetere spesso dalle detenute 'Sono in carcere, e questo indubbiamente mi dispiace. Ma almeno sono ancora viva'. Stiamo parlando di donne che hanno ucciso il loro carnefice, le stesse che magari non metterebbero mai la macchina in divieto di sosta".

Oggi sono sette le dipendenti che lavorano a Gomito a Gomito (Foto di Alessandro Ruggeri)

Joy, com'è il suo rapporto con le altre detenute? "Lì dentro si deve essere comprensive. Siamo donne differenti, di diversa età e condizione, chiuse in un unico posto. Generalmente si fa fatica a stare insieme, ci vogliono tanta comprensione e collaborazione, perché le criticità sono molte. Ma io, da questa esperienza, ho imparato delle cose e ho avuto la possibilità di incontrare donne che hanno vissuto vite diverse, affrontando anche cose brutte, che però alla fine possono capitare a qualsiasi persona. E alla fine sono riuscita anche a creare delle amicizie". I soldi che guadagna grazie al suo impiego al laboratorio sartoriale riesce a metterli da parte o ad inviarli alla sua famiglia in Nigeria? “Non guadagno molto perché faccio un part-time di 4 ore, ma adesso sono inserita nel programma di affidamento presso una Comunità, per cui pago pochissimo per alloggiare nella mia abitazione. Ogni mese metto da parte qualcosa, è importante per me perché il prossimo anno finirò di scontare la mia pena e se voglio continuare a vivere in questo Paese devo potermi mantenere. Comunque, riesco a mandare qualcosa anche alla mia famiglia, ma loro sanno che in passato ho combinato dei guai e che adesso sto facendo un percorso per sistemare le cose, perciò non vogliono mettermi ansia”. Vorrebbe lanciare un appello per quanto riguarda la condizione delle donne nelle carceri femminili? "Sì, vorrei dire qualcosa riguardo al lavoro in carcere, perché lavorare fa parte del percorso di riabilitazione di ciascuna detenuta, ma non è sempre semplice potervi accedere. Se si vuole lavorare all'interno dell'istituto penitenziario, allora nel giro di poco tempo si trova collocazione, ma se l'offerta di lavoro arriva da un'impresa esterna, in questo caso la faccenda diventa faticosissima. Io, per esempio, dopo aver ottenuto il permesso di uscire per mezzo dell'articolo 21, ho impiegato due anni per poter prendere servizio nel laboratorio sartoriale Gomito a Gomito. Se una detenuta deve aspettare così tanto tempo, c'è il rischio che alla fine rinunci a lavorare e si chiuda in se stessa. A volte mi dico che per una straniera, senza famiglia come sono io, queste cose possono anche accadere... ma chi ha famiglia e una casa in cui tornare, dovrebbe essere aiutato e sostenuto in un percorso di riabilitazione anche esterno al carcere. La giustizia decide, e, per carità, il giudice non si deve contestare; ma per quanto riguarda il lavoro delle detenute c'è ancora molto da migliorare, perché dipende troppo dalle decisioni della direzione di ciascun carcere".

Nel laboratorio sartoriale di Bologna le detenute sono assunte e ricevono uno stipendio che le aiuta ad ottenere un'autonomia economica una volta fuori (Foto di Alessandro Ruggeri)

Vice presidente Morandi, ci racconta cosa imparano a fare le detenute presso il vostro laboratorio? "Imparano a realizzare manufatti, accessori di diversi materiali. Dalle borse agli zaini, dalle shopper alle casacche, dai porta occhiali alle pochette. La materia prima ci viene sempre donata, che si tratti di stoffa, pelliccia, pelle, pizzo, lavoriamo tutto il materiale grazie all'aiuto della sarta che collabora con il nostro laboratorio. Stiamo parlando di avanzi di campionario, materie prime nuove derivanti dalle donazioni che ci fanno case di moda a fine stagione, pelliccerie che chiudono ecc. Noi operiamo una scrematura, poi valutiamo che tipo di oggetto è possibile realizzare e ci mettiamo a lavoro. Una caratteristica delle nostre produzioni è che sono sempre modelli unici, veramente artigianali, di cui esistono pochi pezzi perché ogni modello viene realizzato con i pochi metri di materia prima che ci viene donata. Abbiamo un e-commerce e otteniamo spesso commesse di lavoro per convegnistica, bomboniere, doni che le aziende fanno ai dipendenti, gadget richiesti dalle associazioni con cui abbiamo in ponte progetti. Infinite volte in questi anni abbiamo fatto domanda all'amministrazione pubblica e ad enti privati per ottenere un fondo da adibire alla vendita diretta al pubblico. Ma tutt'oggi non siamo riusciti ad ottenerlo e così non possiamo realizzare abiti che necessitano di essere provati dalle clienti, ma solo accessori. Ogni anno abbiamo comunque in ponte progetti con le scuole, eventi di moda in cui sfilano i nostri manufatti ecc. La nostra forza sta nella qualità dei prodotti e nella convenienza dei prezzi". Come utilizzate il denaro ricavato? “Serve per pagare gli stipendi delle nostre dipendenti e quello della sarta. In questo momento le detenute che collaborano con noi con contratti part-time sono 7. Tra ottobre e dicembre i volumi delle vendite aumentano parecchio, per via delle persone che, attraverso il passa parola, acquistano da noi i regali di natale. Sarebbe bello poterci ingrandire, soprattutto stabilizzare. Per adesso siamo in una fase di analisi, stiamo cercando di capire come risolvere problemi manageriali e commerciali, perché il nostro è un progetto interamente portato avanti su base volontaria. Un progetto positivo, che non deve rischiare di morire insieme a quelli che, come me, lo hanno fondato. Dare lavoro, prospettiva, indipendenza finanziaria a donne che sono alla ricerca di una possibilità è una missione importante, di pubblica utilità, e la possibilità di reinserimento di un essere umano fa parte della costituzione”. Cosa succede quando i vostri dipendenti escono dal carcere e, di conseguenza, smettono di lavorare per il vostro laboratorio? “Alcuni portano avanti il mestiere appreso, altri tornano al loro Paese. Uno dei nostri ragazzi, per esempio, era arrivato in Italia dalla Repubblica Domenicana come trafficante di droga. Una volta assunto in laboratorio ha chiesto di imparare a cucire per poter poi tornare al suo Paese e cucire le vele delle barche. Insieme alla sarta ci siamo dedicati a realizzare il suo sogno e gli abbiamo insegnato a cucire. Agnese invece, la nostra prima detenuta assunta, ora vive a Bolzano e nel periodo invernale realizza prodotti tessili di lana cotta. A tutti i nostri collaboratori, quando finiscono di scontare la propria pena, doniamo una macchina da cucire perché possano continuare a lavorare anche lontano dal laboratorio, se lo desiderano”.