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Home » Lifestyle » “La mobilitazione per Patrick Zaki è stata eccezionale. Si dovrebbe parlare più di diritti umani”

“La mobilitazione per Patrick Zaki è stata eccezionale. Si dovrebbe parlare più di diritti umani”

Gianluca Costantini, disegnatore e attivista ravennate, racconta la genesi del graphic novel "Patrick Zaki. Una storia egiziana" realizzato a quattro mani con la giornalista Laura Cappon. E fa il punto su ciò che c'è e che manca nel giornalismo in Italia, compreso quello a fumetti

Virginia Pedani
25 Febbraio 2022
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Gianluca Costantini e Laura Cappon, autori del graphic novel Patrick Zaki. Una storia egiziana

‘L’immaginazione non è uno Stato: è l’esistenza umana stessa’ scriveva William Blake. L’immaginazione che diventa realtà, capace di dare un senso alle cose, anche a quelle più brutte come la privazione della libertà in un carcere: Gianluca Costantini (conosciuto meglio sui social come @channeldraw) sa bene cosa vuol dire perché nei suoi fumetti racconta proprio di questo. Ravennate, classe 1971, Costantini insegna Arte del Fumetto all’Accademia di Belle Arti di Bologna e ha fatto dei diritti umani, da quasi venti anni, il soggetto principale della sua matita, attribuendogli sembianze, sofferenze e richieste reali. Nel nostro Paese è conosciuto dal grande pubblico per aver rappresentato Patrick Zaki sin dal primo giorno del suo arresto, avvenuto a Il Cairo il 7 febbraio di due anni fa. La vicenda dello studente dell’Università di Bologna è diventata un fumetto, un esempio compiuto di graphic novel journalism scritto a quattro mani con la giornalista di Rai3 Laura Cappon (Patrick Zaki. Una storia egiziana) e pubblicato da Feltrinelli Comics con il patrocinio di Amnesty International Italia.

Come nasce il libro su Patrick Zaki? 

“Ho iniziato ad occuparmi del caso di Patrick Zaki lo stesso giorno in cui è stato arrestato; un’ora dopo il fermo in aeroporto un attivista anonimo egiziano mi ha contattato chiedendomi di fare un disegno per questa causa. Non ci ho pensato due volte e così ho pubblicato istintivamente lo schizzo su Twitter, come faccio tutte le volte. Da lì, per un anno intero, ho continuato a disegnare Patrick (vedi l’iconico cartellone posizionato sotto le Due Torri di Bologna, ndr), mentre Laura aveva seguito il caso come giornalista e aveva già scritto vari articoli sulla situazione politica e giudiziaria dell’Egitto. Nel dicembre del 2020 mi ha chiesto di fare un libro insieme e abbiamo trovato immediatamente l’editore che ci avrebbe accompagnato in questo nuovo capitolo. Il libro non racconta solo la detenzione, racconta Patrick a 360°, partendo dall’infanzia fino all’arrivo all’Alma Mater di Bologna. Narra le udienze, i rinvii, gli avvocati, ma soprattutto racconta la straordinaria mobilitazione che c’è stata per lui, una cosa senza precedenti”. 

Un disegno di Gianluca Costantini è diventato l’icona della mobilitazione per la liberazione dello studente egiziano Patrick Zaki

In quanto a mobilitazione il caso di Zaki può essere paragonabile a quello di Giulio Regeni?

“Il movimento di Giulio Regeni è stata la base di quello per Patrick Zaki. La gente era già preparata su cosa avveniva dentro le carceri egiziane ma, a differenza di Regeni, Patrick era vivo e quindi credo che si sia sviluppata ancora più empatia nei suoi confronti, quasi come un figlio, un amico ma soprattutto uno studente. A livello di mobilitazione popolare credo che si possa paragonare a quella per la Guerra in Iraq degli anni ‘90 che portò così tanta gente in piazza a manifestare per i diritti umani”. 

Che ruolo ha ricoperto l’Università di Bologna nel simpatizzare verso la causa di Zaki?

Lo studente egiziano dell’università di Bologna è stato arrestato all’aeroporto del Cairo il 7 febbraio 2020 e rilasciato dopo 22 mesi di detenzione

“L’Università si è mossa immediatamente, sin dai primi giorni di detenzione, insieme ad Amnesty. Fa parte proprio della costituzione dell’ateneo proteggere i propri studenti, a prescindere dalla nazionalità e da dove si trovino. Tutto ciò che riguarda i suoi compagni di classe, la sua insegnante del Master, il rettore, il vice rettore, sono probabilmente la voce più forte che c’è nel libro; l’Università ritorna continuamente perché è la linea principale, benché non sia l’unica. Da lì si è attaccata tutta la cittadinanza: non ho altri esempi di istituzioni accademiche che si battono e aiutano così tanto un detenuto, ossia un loro studente, perché di solito vivono in una sorta di mondo parallelo alla società. Anche nel caso di Regeni l’Università di Cambridge è rimasta piuttosto da parte mentre quella di Bologna è stata un’eccezione e ancora non si capisce perché ci sia stato un così grandissimo movimento nei suoi confronti”.

Quanto è presente l’aspetto della tortura nel libro e come si pongono oggi i media rispetto al tema?

Dal libro Patrick Zaki. Una storia egiziana

“È un aspetto rilevante: abbiamo raccontato con Laura le torture, la prigionia, il fatto che Patrick soffra d’asma e le cose più drammatiche della sua esperienza. Patrick ha visto da qualche giorno fa le pagine del libro e non ha detto niente, vuol dire che abbiamo raccontato bene, che non c’è da smentire. La tortura o comunque situazioni simili vengono raccontate molto poco dai giornali o dai media mainstream perché ovviamente sono cose molto pesanti, di cui si fa fatica a parlare e di cui forse non si sa neanche trovare le giuste parole. Non vengono, di conseguenza, condannate come dovrebbero. La tortura, ad esempio, si sa che c’è stata ma preferiamo di più concentrarci sulla cura della persona dopo, non su quello che gli è successo, e dovrà essere poi il singolo stesso, in caso, a venirne fuori psicologicamente da solo. Si potrebbe sicuramente parlarne di più, soprattutto con riguardo a quei tipi di carcere che sono ‘famosi’ per quel tipo di procedure”.

 

Lei è uno dei massimi esponenti italiani del cosiddetto graphic novel journalism. A che punto siamo? Crede che questo linguaggio possa rimpiazzare gli altri media?

“Ci sono sempre più titoli che, all’interno della graphic novel, sono graphic journalism. Ma per parlare di fenomeno è ancora presto. Il movimento dell’editoria del fumetto è vasto ma di questi tipi di rappresentazioni che si avvicinano al giornalismo ce ne sono molti meno perché sono difficili da realizzare e perché o hai la competenza sia da giornalista che da fumettista, oppure devi trovare delle persone preparate, come ho fatto io con le giornaliste Mannocchi e Cappon, che ti portano i dati e le fonti giuste. Come disegnatore, comunque, devo attenermi a delle regole che si avvicinano molto all’etica e alla deontologia del giornalismo: l’attenzione per i dettagli, la credibilità e la veridicità di quello che disegno e il rispetto per il mondo che interpreto. Più che di fenomeno parlerei di genere che si sta aprendo poco alla volta. Il giornalismo a fumetti è un nuovo modo di raccontare la notizia, l’approccio di una persona quando lo legge è diverso da un reportage, un documentario o un articolo di giornale. Il disegno porta il lettore dentro la storia in una maniera più empatica: vedi Zaki che fa cose, che cresce, che sta insieme alla sua famiglia. Il fumetto ha un ritmo del tempo molto diverso dagli altri linguaggi: puoi essere lento, se vuoi, e dare importanza o meno al testo. È un’aggiunta agli altri modi di comunicare la realtà, non pretende di essere di più, è solo un altro modo per raccontare un fatto”.

Insegni all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Che rapporto ha la città con il fumetto?

Dal libro Patrick Zaki. Una storia egiziana

“Bologna è il centro del fumetto italiano. Molti disegnatori si trasferiscono appositamente qui per vivere in una comunità del disegno che è da sempre molto fiorente. Adesso l’Accademia delle Belle Arti ha un corso di laurea in fumetto, ci sono molte attività e il target è trasversale. Il libro a fumetti, comunque, si rivolge ad un pubblico sempre adulto, sopra i 20 anni, anche se adesso si stanno realizzando dei libri a fumetti anche per gli adolescenti, come accade già in Giappone”.

Sei sia attivista che disegnatore. Come riesci a scegliere le cause da portare avanti?

“I disegni che realizzo online e pubblico poi sui vari social hanno una loro vita nell’immediato, è un lavoro che porto avanti tutti i giorni. Adesso su questo fronte sto lavorando molto sulla Bielorussia e sul Kazakistan, anche se qui non se ne parla. Poi, ogni tanto, qualcuna di queste storie diventa un approfondimento e alcune diventano importanti in fumetti molto lunghi, oppure più brevi, di due o tre pagine, che escono poi sui quotidiani, ad esempio su Domani. I due aspetti sono l’uno collegati all’altro”.

A proposito di lavoro sui social, quale è quello che utilizzi di più?

“Sicuramente Twitter perché riesce a penetrare di più nella realtà, anche se in Italia si utilizza poco, si preferisce Facebook. Con l’attività di Twitter ho tantissimi benefici in termini di relazioni, anche se entrando nella realtà ho anche molti ritorni negativi. Ad esempio ho avuto un processo in contumacia per terrorismo in Turchia, nel 2016, e adesso non posso più andarci; sono stato censurato negli Stati Uniti per i miei disegni sulla Palestina e licenziato dalla Cnn perché ero stato attaccato dalla destra americana di Steve Bannon come antisemita. La parte ‘cattiva’ della realtà mi dimostra che i disegni funzionano e colpiscono chi devono colpire. Per fortuna vivo ancora in un Paese dove non vieni attaccato, imprigionato o torturato per quello che fai nel web come accade nelle dittature”.

In termini di fumetto Zerocalcare è diventato praticamente un cult soprattutto dopo la trasposizione in serie tv. Hai mai pensato di far cambiare linguaggio alla tua arte?

“Non ci vedo niente di male nella trasposizione, non escluderei un cartone animato su Patrick Zaki. È sempre comunque arte ed è molto interessante. A breve la compagnia teatrale ErosAntEros di Ravenna realizzerà uno spettacolo teatrale tratto proprio dal mio libro Libia, scritto con Francesca Mannocchi. Vedremo cosa ne uscirà, sono curioso soprattutto di vedere come verrà recepito dal pubblico in sala”.

Il manifesto per la liberazione di Zaki

 

Progetti futuri?

“In contemporanea all’uscita del libro su Zaki ne sto finendo un altro importante sui diritti umani in Cina e in generale sulla cultura cinese, scritto insieme all’artista Ai Weiwei e adattato dall’autrice Elettra Stamboulis. E poi continuerò il mio lavoro online. I diritti umani non si fermano mai”.

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  • Era il 1° febbraio 1945, quando la lotta per la conquista di questo diritto, partita tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, sulla scorta dei movimenti degli altri Paesi europei, raggiunse il suo obiettivo. Con un decreto legislativo, il Consiglio dei Ministri presieduto da Ivanoe Bonomi riconobbe il voto alle donne, su proposta di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi. 

Durante la prima guerra mondiale le donne avevano sostituito al lavoro gli uomini che erano al fronte. La consapevolezza di aver assunto un ruolo ancora più centrale all’interno società oltre che della famiglia, crebbe e con essa la volontà di rivendicare i propri diritti. Già nel 1922 un deputato socialista, Emanuele Modigliani aveva presentato una proposta di legge per il diritto di voto femminile, che però non arrivò a essere discussa, per la Marcia su Roma. Mussolini ammise le donne al voto amministrativo nel 1924, ma per pura propaganda, poiché in seguito all’emanazione delle cosiddette “leggi fascistissime” tra il 1925 ed il 1926, le elezioni comunali vennero, di fatto, soppresse. Bisognerà aspettare la fine della guerra perché l’Italia affronti concretamente la questione.

Costituito il governo di liberazione nazionale, le donne si attivarono per entrare a far parte del corpo elettorale: la prima richiesta dell’ottobre 1944, venne avanzata dalla Commissione per il voto alle donne dell’Unione Donne Italiane (Udi), che si mobilitò per ottenere anche il diritto di eleggibilità (sancito da un successivo decreto datato 10 marzo 1946). Si arrivò così, dopo anni di battaglie per il suffragio universale, al primo febbraio 1945, data storica per l’Italia. Il decreto prevedeva la compilazione di liste elettorali femminili distinte da quelle maschili, ed escludeva però dal diritto le prostitute schedate che esercitavano “il meretricio fuori dei locali autorizzati”.

Le elezioni dell’esordio furono le amministrative tra marzo e aprile del 1946 e l’affluenza femminile superò l’89%. 

#lucenews #lucelanazione #dirittodivoto #womenrights #1febbraio1945
  • La regina del pulito Marie Kondo ha dichiarato di aver “un po’ rinunciato” a riordinare casa dopo la nascita del suo terzo figlio. La 38enne giapponese, considerata una "Dea dell’ordine", con i suoi best seller sull’economia domestica negli ultimi anni ha incitato e sostenuto gli sforzi dei comuni mortali di rimettere in sesto case e armadi all’insegna del cosa “provoca dentro una scintilla di gioia”. Ma l’esperta di decluttering, famosa in tutto il mondo, ha ammesso che con tre figli da accudire, la sua casa è oggi “disordinata”, ma ora il riordino non è più una priorità. 

Da quando è diventata madre di tre bambini, ha dichiarato che il suo stile di vita è cambiato e che la sua attenzione si è spostata dall’organizzazione alla ricerca di modi semplici per rendere felici le abitudini di tutti i giorni: "Fino a oggi sono stata una organizzatrice di professione e ho dunque fatto il mio meglio per tenere in ordine la mia casa tutto il tempo”, e anche se adesso “ci ho rinunciato, il modo in cui trascorro il mio tempo è quello giusto per me in questo momento, in questa fase della mia vita”.

✍ Marianna Grazi 

#lucenews #lucelanazione #mariekondo
  • La second hand, ossia l’oggetto di seconda mano, è una moda che negli ultimi anni sta diventando sempre più un’abitudine dei consumatori. Accumulare roba negli armadi, nei cassetti, in cantina, non è più un disagio che riguarda soltanto chi soffre di disposofobia, ossia di chi è affetto da sindrome dell’accumulatore compulsivo. Se l’acquisto è l’unica azione che rende felice l’uomo moderno, non riuscire a liberarsene è la condanna di molti.

Secondo quanto emerge dall’Osservatorio Second-hand Economy 2021, realizzato da BVA Doxa per Subito.it, sono 23 milioni gli italiani che, nel 2021, hanno fatto ricorso alla compravendita di oggetti usati grazie alle piattaforme online. Il 52% degli italiani ha comprato e/o venduto oggetti usati, tra questi il 15% lo ha fatto per la prima volta. L’esperienza di compravendita online di second hand è quella preferita, quasi il 50% degli affari si conclude online anche perché il sistema di vendita è simile a un comune eCommerce: internet è il canale più veloce per quasi la metà dei rispondenti (49%), inoltre offre una scelta più ampia (43%) e si può gestire comodamente da casa (41%). Comprare second hand diventa una sana abitudine che attrae ogni anno nuove persone, è al terzo posto tra i comportamenti sostenibili più messi in atto dagli italiani (52%) – preceduto sempre dalla raccolta differenziata (94%) e l’acquisto di lampadine a LED (71%) –, con picchi ancora più alti di adozione nel 2021 da parte dei laureati (68%), di chi appartiene alla generazione Z (66%), di chi ha 35-44 anni (70%) e delle famiglie con bambini (68%). 

Ma perché concretamente si acquista l’usato? Nel 2021 le prime tre motivazioni che inducono a comprare beni usati sono: il risparmio (56%, in crescita di 6 punti percentuali rispetto al 2020), l’essere contrari agli sprechi e credere nel riuso (49%) e la convinzione che la second hand sia un modo intelligente di fare economia e che rende molti oggetti più accessibili (43%). 

✍E tu? Hai mai comprato accessori oppure oggetti di seconda mano? Cosa ne pensi?

#lucenews #lucelanazione #secondhand #vintage
  • È iniziata come una sorta di sfida personale, come spesso accade tra i ragazzi della sua età, per testare le proprie capacità e resistenza in modo divertente. Poi però, per Isaac Ortman, adolescente del Minnesota, dormire nel cortile della sua casa è diventata una missione. 

“Non credo che la cosa finisca presto, potrei anche continuare fino all’università – ha detto il 14enne di Duluth -. È molto divertente e non sono pronto a smettere”. 

Tanto che ormai ha trascorso oltre 1.000 notti sotto le stelle. Il giovane, che fa il boy scout, come una specie di moderno Barone Rampante ha scoperto per caso il piacere di trascorrere le ore di sonno fuori dalle mura di casa, persino quando la temperatura è scesa a quadi 40 gradi sotto lo zero. Tutto è iniziato circa tre anni fa, nella baita della sua famiglia a 30 miglia da casa, diventando ben presto una routine notturna. Il giovane Ortman ricorda bene il giorno in cui ha abbandonato la sua camera da letto per un’amaca e un sacco a pelo, il 17 aprile 2020, quando era appena in prima media: “Stavo dormendo fuori dalla nostra baita e ho pensato: ‘Wow, potrei provare a dormire all’aperto per una settimana’. Così ho fatto e ho deciso di continuare”. 

“Non si stanca mai: ogni notte è una nuova avventura“, ha detto il padre Andrew Ortman, 48 anni e capo del suo gruppo scout. 

Sua mamma Melissa era un po’ preoccupata quella notte, lei e il padre gli hanno permesso di continuare la sua routine. “Sa che deve entrare in casa se qualcosa non va bene. Dopo 1.000 notti, ha la nostra fiducia. Da quando ha iniziato a farlo, è cresciuto sotto molti aspetti, e non solo in termini di statura”, dice orgogliosa. 

“Non lo sto facendo per nessun record o per una causa, mi sto solo divertendo. Ma con il ragazzo che dorme in Inghilterra, credo si possa dire che si tratta di una gara non ufficiale”, ha detto Isaac riferendosi all’adolescente inglese Max Woosey, che ha iniziato la sua maratona di sonno all’aperto il 29 marzo 2020, con l’obiettivo di raccogliere fondi per un ospedale che cura un suo anziano amico.

#lucenews #isaacortman #minnesota #boyscout
Gianluca Costantini e Laura Cappon, autori del graphic novel Patrick Zaki. Una storia egiziana
‘L’immaginazione non è uno Stato: è l’esistenza umana stessa’ scriveva William Blake. L'immaginazione che diventa realtà, capace di dare un senso alle cose, anche a quelle più brutte come la privazione della libertà in un carcere: Gianluca Costantini (conosciuto meglio sui social come @channeldraw) sa bene cosa vuol dire perché nei suoi fumetti racconta proprio di questo. Ravennate, classe 1971, Costantini insegna Arte del Fumetto all’Accademia di Belle Arti di Bologna e ha fatto dei diritti umani, da quasi venti anni, il soggetto principale della sua matita, attribuendogli sembianze, sofferenze e richieste reali. Nel nostro Paese è conosciuto dal grande pubblico per aver rappresentato Patrick Zaki sin dal primo giorno del suo arresto, avvenuto a Il Cairo il 7 febbraio di due anni fa. La vicenda dello studente dell’Università di Bologna è diventata un fumetto, un esempio compiuto di graphic novel journalism scritto a quattro mani con la giornalista di Rai3 Laura Cappon (Patrick Zaki. Una storia egiziana) e pubblicato da Feltrinelli Comics con il patrocinio di Amnesty International Italia. Come nasce il libro su Patrick Zaki?  “Ho iniziato ad occuparmi del caso di Patrick Zaki lo stesso giorno in cui è stato arrestato; un’ora dopo il fermo in aeroporto un attivista anonimo egiziano mi ha contattato chiedendomi di fare un disegno per questa causa. Non ci ho pensato due volte e così ho pubblicato istintivamente lo schizzo su Twitter, come faccio tutte le volte. Da lì, per un anno intero, ho continuato a disegnare Patrick (vedi l'iconico cartellone posizionato sotto le Due Torri di Bologna, ndr), mentre Laura aveva seguito il caso come giornalista e aveva già scritto vari articoli sulla situazione politica e giudiziaria dell’Egitto. Nel dicembre del 2020 mi ha chiesto di fare un libro insieme e abbiamo trovato immediatamente l’editore che ci avrebbe accompagnato in questo nuovo capitolo. Il libro non racconta solo la detenzione, racconta Patrick a 360°, partendo dall’infanzia fino all’arrivo all’Alma Mater di Bologna. Narra le udienze, i rinvii, gli avvocati, ma soprattutto racconta la straordinaria mobilitazione che c’è stata per lui, una cosa senza precedenti”. 
Un disegno di Gianluca Costantini è diventato l'icona della mobilitazione per la liberazione dello studente egiziano Patrick Zaki
In quanto a mobilitazione il caso di Zaki può essere paragonabile a quello di Giulio Regeni? “Il movimento di Giulio Regeni è stata la base di quello per Patrick Zaki. La gente era già preparata su cosa avveniva dentro le carceri egiziane ma, a differenza di Regeni, Patrick era vivo e quindi credo che si sia sviluppata ancora più empatia nei suoi confronti, quasi come un figlio, un amico ma soprattutto uno studente. A livello di mobilitazione popolare credo che si possa paragonare a quella per la Guerra in Iraq degli anni ‘90 che portò così tanta gente in piazza a manifestare per i diritti umani”.  Che ruolo ha ricoperto l’Università di Bologna nel simpatizzare verso la causa di Zaki?
Lo studente egiziano dell'università di Bologna è stato arrestato all'aeroporto del Cairo il 7 febbraio 2020 e rilasciato dopo 22 mesi di detenzione
“L’Università si è mossa immediatamente, sin dai primi giorni di detenzione, insieme ad Amnesty. Fa parte proprio della costituzione dell’ateneo proteggere i propri studenti, a prescindere dalla nazionalità e da dove si trovino. Tutto ciò che riguarda i suoi compagni di classe, la sua insegnante del Master, il rettore, il vice rettore, sono probabilmente la voce più forte che c’è nel libro; l’Università ritorna continuamente perché è la linea principale, benché non sia l’unica. Da lì si è attaccata tutta la cittadinanza: non ho altri esempi di istituzioni accademiche che si battono e aiutano così tanto un detenuto, ossia un loro studente, perché di solito vivono in una sorta di mondo parallelo alla società. Anche nel caso di Regeni l’Università di Cambridge è rimasta piuttosto da parte mentre quella di Bologna è stata un’eccezione e ancora non si capisce perché ci sia stato un così grandissimo movimento nei suoi confronti”. Quanto è presente l’aspetto della tortura nel libro e come si pongono oggi i media rispetto al tema?
Dal libro Patrick Zaki. Una storia egiziana
“È un aspetto rilevante: abbiamo raccontato con Laura le torture, la prigionia, il fatto che Patrick soffra d’asma e le cose più drammatiche della sua esperienza. Patrick ha visto da qualche giorno fa le pagine del libro e non ha detto niente, vuol dire che abbiamo raccontato bene, che non c’è da smentire. La tortura o comunque situazioni simili vengono raccontate molto poco dai giornali o dai media mainstream perché ovviamente sono cose molto pesanti, di cui si fa fatica a parlare e di cui forse non si sa neanche trovare le giuste parole. Non vengono, di conseguenza, condannate come dovrebbero. La tortura, ad esempio, si sa che c’è stata ma preferiamo di più concentrarci sulla cura della persona dopo, non su quello che gli è successo, e dovrà essere poi il singolo stesso, in caso, a venirne fuori psicologicamente da solo. Si potrebbe sicuramente parlarne di più, soprattutto con riguardo a quei tipi di carcere che sono ‘famosi’ per quel tipo di procedure”.   Lei è uno dei massimi esponenti italiani del cosiddetto graphic novel journalism. A che punto siamo? Crede che questo linguaggio possa rimpiazzare gli altri media? “Ci sono sempre più titoli che, all’interno della graphic novel, sono graphic journalism. Ma per parlare di fenomeno è ancora presto. Il movimento dell’editoria del fumetto è vasto ma di questi tipi di rappresentazioni che si avvicinano al giornalismo ce ne sono molti meno perché sono difficili da realizzare e perché o hai la competenza sia da giornalista che da fumettista, oppure devi trovare delle persone preparate, come ho fatto io con le giornaliste Mannocchi e Cappon, che ti portano i dati e le fonti giuste. Come disegnatore, comunque, devo attenermi a delle regole che si avvicinano molto all’etica e alla deontologia del giornalismo: l’attenzione per i dettagli, la credibilità e la veridicità di quello che disegno e il rispetto per il mondo che interpreto. Più che di fenomeno parlerei di genere che si sta aprendo poco alla volta. Il giornalismo a fumetti è un nuovo modo di raccontare la notizia, l’approccio di una persona quando lo legge è diverso da un reportage, un documentario o un articolo di giornale. Il disegno porta il lettore dentro la storia in una maniera più empatica: vedi Zaki che fa cose, che cresce, che sta insieme alla sua famiglia. Il fumetto ha un ritmo del tempo molto diverso dagli altri linguaggi: puoi essere lento, se vuoi, e dare importanza o meno al testo. È un’aggiunta agli altri modi di comunicare la realtà, non pretende di essere di più, è solo un altro modo per raccontare un fatto”. Insegni all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Che rapporto ha la città con il fumetto?
Dal libro Patrick Zaki. Una storia egiziana
“Bologna è il centro del fumetto italiano. Molti disegnatori si trasferiscono appositamente qui per vivere in una comunità del disegno che è da sempre molto fiorente. Adesso l’Accademia delle Belle Arti ha un corso di laurea in fumetto, ci sono molte attività e il target è trasversale. Il libro a fumetti, comunque, si rivolge ad un pubblico sempre adulto, sopra i 20 anni, anche se adesso si stanno realizzando dei libri a fumetti anche per gli adolescenti, come accade già in Giappone". Sei sia attivista che disegnatore. Come riesci a scegliere le cause da portare avanti? “I disegni che realizzo online e pubblico poi sui vari social hanno una loro vita nell’immediato, è un lavoro che porto avanti tutti i giorni. Adesso su questo fronte sto lavorando molto sulla Bielorussia e sul Kazakistan, anche se qui non se ne parla. Poi, ogni tanto, qualcuna di queste storie diventa un approfondimento e alcune diventano importanti in fumetti molto lunghi, oppure più brevi, di due o tre pagine, che escono poi sui quotidiani, ad esempio su Domani. I due aspetti sono l’uno collegati all’altro”. A proposito di lavoro sui social, quale è quello che utilizzi di più? “Sicuramente Twitter perché riesce a penetrare di più nella realtà, anche se in Italia si utilizza poco, si preferisce Facebook. Con l’attività di Twitter ho tantissimi benefici in termini di relazioni, anche se entrando nella realtà ho anche molti ritorni negativi. Ad esempio ho avuto un processo in contumacia per terrorismo in Turchia, nel 2016, e adesso non posso più andarci; sono stato censurato negli Stati Uniti per i miei disegni sulla Palestina e licenziato dalla Cnn perché ero stato attaccato dalla destra americana di Steve Bannon come antisemita. La parte 'cattiva' della realtà mi dimostra che i disegni funzionano e colpiscono chi devono colpire. Per fortuna vivo ancora in un Paese dove non vieni attaccato, imprigionato o torturato per quello che fai nel web come accade nelle dittature”. In termini di fumetto Zerocalcare è diventato praticamente un cult soprattutto dopo la trasposizione in serie tv. Hai mai pensato di far cambiare linguaggio alla tua arte? “Non ci vedo niente di male nella trasposizione, non escluderei un cartone animato su Patrick Zaki. È sempre comunque arte ed è molto interessante. A breve la compagnia teatrale ErosAntEros di Ravenna realizzerà uno spettacolo teatrale tratto proprio dal mio libro Libia, scritto con Francesca Mannocchi. Vedremo cosa ne uscirà, sono curioso soprattutto di vedere come verrà recepito dal pubblico in sala”.
Il manifesto per la liberazione di Zaki
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