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Home » Lifestyle » “Ho scelto di adottare un bambino con la sindrome di Down: dei pregiudizi me ne frego, lui è mio figlio”

“Ho scelto di adottare un bambino con la sindrome di Down: dei pregiudizi me ne frego, lui è mio figlio”

Dieci anni fa Romina e suo marito hanno scelto di adottare un bambino: desideravano diventare genitori, ma la vita per loro ha scelto un'altra strada. Dopo tre anni di pre-affido vissuti dalla 45enne come “il mio travaglio”, il “più bel regalo di Natale” della coppia è diventato loro figlio

Marianna Grazi
13 Febbraio 2022
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“Ho fatto la scelta dell’adozione perché figli non arrivavano. Contro tutti i pregiudizi, me ne sono fregata”. Romina ha 45 anni, viene da Catania. Da più di vent’anni vive in Toscana, con suo marito e, da dieci, anche con il suo Francesco. Arrivo a scuola per parlare con la sua mamma, ma il bambino, appena mi vede, attratto dalla macchina fotografica che porto al collo, si avvicina. Si presenta come un piccolo ometto, ci scambio qualche battuta e lui d’istinto, all’improvviso, mi si getta addosso abbracciandomi. È dolce, dolcissimo Francesco, una piccola trottola piena di vivacità. Romina racconta: “Volevo diventare mamma e anche se non è facile adottare un bambino con la sindrome di Down noi, io e mio marito, ci siamo detti che per noi non era un problema e ho accettato questa maternità”.

Contro tutto e tutti, contro il pregiudizio, gli stereotipi, le difficoltà che si sarebbero presentate. Una mamma a tutti gli effetti, anche perché il legame che c’è mentre si parlano, si abbracciano, non è diverso da qualsiasi altro tra genitore e figlio. Anzi, forse il loro è perfino più stretto, frutto di una scelta fatta dalla coppia ma anche dal bambino, che li ha subito riconosciuti come i suoi genitori. “Ho conosciuto mio figlio che aveva 50 giorni di vita, era piccolissimo. Sono contenta che mi ha reso mamma, è la felicità più grande“, dice emozionandosi. 

Francesco ha 10 anni. Ama la musica rap e disco, fa danza moderna e ha tante passioni

Quanti anni aveva quando ha capito che l’unica soluzione per diventare madre era l’adozione?

“Avevo 35 anni, da quando ne ho 23 mi sono trasferita dalla Sicilia in Toscana. Ero già sposata prima di salire e per anni abbiamo sognato di diventare genitori. Dieci anni fa ho capito che era il momento giusto per compiere questo passo importante”.

È una scelta ammirevole quella di adottare un bambino con disabilità…

“La mia è una storia particolare, non ho potuto in precedenza raccontarla a tutti come si è svolta. Noi volevamo procedere con l’adozione perciò ci siamo affidati ad un’associazione. Ci hanno spiegato che c’era la possibilità di avere un bambino con disabilità, più o meno grave: io mi sono buttata in questa avventura, per me non importava, mi sono fidata. Mi hanno detto che c’era questo bambino con sindrome di Down, ho lasciato da parte qualsiasi pregiudizio e sono andata avanti per quella strada”. 

Com’è andato il primo incontro?

“Era in ospedale, quando ci ha visti per la prima volta, ad appena un mese e mezzo di vita, ha fatto un enorme sorriso. Era come se ci avesse riconosciuti come i suoi genitori, senza averci mai visto. Le puericultrici si sono messe a piangere come me, non si aspettavano che reagisse così. È stato il nostro regalo di Natale più bello, è arrivato proprio nel periodo delle Feste”.

Ci parli della procedura, quanto è durata, come funziona…

“Me l’hanno dato in pre-affido. Non è un’esperienza facile: come te lo danno, così te lo possono togliere. Sono stati tre anni di continua ansia, tanti viaggi a Firenze al Tribunale dei Minori. Per un periodo la nostra pratica è stata archiviata e se non fosse stato per mio marito che ha smosso mari e monti per farla riaprire oggi nostro figlio non sarebbe con noi. Addirittura per l’Inps risulta ancora col vecchio cognome, non quello biologico, ma quello che gli è stato dato una volta uscito dall’ospedale perché avesse un’identità. Anche il nome lo hanno stabilito il giudice con i servizi sociali, io ho deciso di lasciarlo. Per tre anni sono stata con questa continua paura. L’adozione è un’esperienza che rifarei, certo. Però affrontare tutta quella burocrazia ti mette davvero in difficoltà”.

Siete stati seguiti da psicologi e assistenti sociali durante il percorso?

“Per un periodo abbiamo avuto gli assistenti sociali sempre con noi praticamente. Glielo dovevamo portare, venivano loro a vedere la casa, i luoghi che frequentava. La prassi è quella. Io non sapevo come comportarmi, chiedevo se potevamo viaggiare, magari prendere aerei…I primi tempi dovevo sempre mostrare, in aeroporto ad esempio, il foglio del pre-affido. Loro però ci hanno detto di fare tutto normalmente, di viaggiare senza problemi, loro non vogliono invadere gli spazi familiari. È scocciante ma è la prassi. In più eravamo seguiti dalla psicologa dell’adozione. Mi ricordo che mi ha fatto vedere un film, L’ottavo giorno (un film del 1996, scritto e diretto da Jaco van Dormael, ndr) quando Francesco aveva sette mesi; serviva a scuotermi, per mettermi alla prova: mi è stata messa la ‘realtà’ davanti, cosa volevo fare? Scappare o continuare ad accettarla? Io come facevo a dire, dopo aver visto il film e la possibile condizione futura di mio figlio, basta mi arrendo? Dopo che l’ho avuto in casa come posso rimandarlo indietro? È stata una prova difficile, andavo alle sedute piangendo. Poi certo, ci hanno fatto vedere anche altri film, più positivi, come Mio fratello rincorre i dinosauri: sono tutti esempi, romanzati certo, di come si vive con un bambino con sindrome”.

Il bambino è stato adottato quando aveva appena 50 giorni e dopo 3 anni di pre-affido ha finalmente trovato una famiglia

Com’è la vita da genitori?

“Intensa. Abbiamo fatto tante esperienze con Francesco, non è sempre facile. Ma non la cambierei con nient’altro al mondo. E tornassi indietro rifarei tutto quello che ho fatto. Tutto”.

Ci sono mai stati dei problemi, nel corso degli anni?

“No per fortuna è un bambino grande e sano, con tante passioni. C’è stata solo la questione della perdita dei capelli, qualche anno fa, gli è stata diagnosticata l’Alopecia. I dottori mi hanno detto che si manifesta così, all’improvviso, e non c’è una cura ben precisa. Lui in prima elementare ha iniziato a perdere i capelli a ciocche, poi è arrivato ad essere completamente calvo. Le persone che lo vedevano mi chiedevano se stesse facendo chemioterapia. Invece è alopecia areata. Ora invece i capelli sono tornati, sta bene”.

Francesco che bambino è?

“È molto molto dolce. Quando commette monellerie è sempre a dire ‘Ti voglio bene’ – ride –. Ha carattere, ma è molto tenero, va d’accordo con tutti, anche con le persone adulte. Si fa voler bene. Fa danza moderna e hip pop, fa ippoterapia, gli piacciono tantissimo la fotografia e la musica. Infatti lo abbiamo iscritto all’istituto musicale, per le scuole medie che inizierà il prossimo anno. Lo abbiamo abituato fin da neonato a sentire la radio in macchina e ora che è cresciuto, quando entra in auto accende la musica e vuole che non parliamo per ascoltarla, gli piace il rap, quella da discoteca… Lo chiama karaoke perché così va dietro a ingarbugliare le parole. È un bambino che se ti vede triste, ti viene vicino a chiedere ‘Che hai?’. È espressivo, si accorge di tutto”. 

Lui sa di essere stato adottato? Lei e suo marito intendete dirglielo?

“Lui non lo sa. Durante il percorso dell’adozione una psicologa mi disse che glielo avrei dovuto dire durante l’infanzia, ma non ho mai avuto il coraggio di farlo. Perché ho avuto paura di spaventarlo, non sapeva ancora parlare, avevo il terrore di traumatizzarlo. Non mi sono fidata e affidata a nessuno, ho seguito il mio istinto materno. Non so se sarebbe il caso, per un bambino con sindrome di Down, dirgli che noi non siamo i suoi genitori biologici. Se a volte mio marito gli dice, per scherzare quando fa il monello: ‘Ora mi prendo un altro bambino’, io mi arrabbio, gli dico che quella è una cosa da non dire, perché il bambino si potrebbe traumatizzare. Invece Francesco risponde: ‘È no è!’”. 

Ma vi ha mai chiesto, invece, un fratellino o una sorellina?

“Si quando mi vedeva la pancia, fino a qualche mese fa, mi diceva: ‘Hai un bimbo in pancia’. Ora invece ha imparato, mi dice che sono ‘coccona’, cicciona – scherza la mamma –”. 

Il resto della famiglia come ha preso la vostra scelta?

“Benissimo. Io vengo da una famiglia numerosa, sono l’ultima di quattro figli. Uno dei miei fratelli ha 4 figli, mia sorella ne ha 7. Nella mia famiglia i bambini non mancano. Francesco è stato subito accolto. Anche questo ti chiedono, nella procedura di adozione: una lettera da parte dei nonni, da depositare, in cui dicono che l’arrivo di questo bambino viene accettato, accolto. I miei genitori lo considerano un nipote come gli altri”.

Da mamma adottiva di un bambino con sindrome di Down, ci dice, sinceramente, tornando indietro se è un’esperienza che rifarebbe?

Francesco con la sua mamma Romina

“Ogni giorno della mia vita. Solo la parte burocratica è quella che ti fa stancare tantissimo e ti viene di mollare. Figurati che noi avevamo 35 anni quando abbiamo fatto richiesta e un giudice all’inizio ci disse che eravamo ‘troppo vecchi’. La gente per scelta fa figli dopo i 40: io ne ho 45, se mi capitasse di rimanere incinta io lo terrei questo bambino. È una vita che aspetto la compagnia per Francesco. In passato quando mi chiedevano se Francesco fosse mio, se avessi partorito, mi veniva automaticamente da rispondere sì. Non l’ho mai sentito come adottato, ho sentito di vivere anche la fase del travaglio, come per le donne in gravidanza: io la fase del travaglio l’ho vissuta aspettando questa adozione, aspettando che mi permettessero di andarlo a prendere…”.

E quando vi hanno detto: “Ok Francesco è vostro figlio” cos’ha provato, cos’ha fatto?

“Ho chiamato a scuola (dove lavora, ndr) e ho chiesto e ottenuto subito il congedo di maternità. A mio marito è venuto il mal di pancia dall’emozione. Gli assistenti sociali che ci aspettavano davanti all’ospedale hanno pensato che ci avessimo ripensato, che non saremmo andati. Ma eravamo troppo emozionati lì per lì per riuscire a fare qualsiasi cosa. Poi però, a ripensarci oggi, è stata un’esperienza bellissima, la più bella della mia vita”.

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  • “I nostri animali rischiano una fine orribile.”

La scure del Tar del Lazio ha infranto le speranze della “Sfattoria degli Ultimi”, centoncinquanta tra maiali e cinghiali rischiano di morire. 

L’8 agosto l’Asl 1 ha notificato alla Sfattoria la decisione di abbattimento degli animali perché si trovano nella cosiddetta "zona rossa"(ovvero zona infetta in relazione alla peste suina africana) che comprende tutto il territorio romano. L’associazione ha contestato la decisione, sostenendo che essendo animali Dpa (ovvero non destinato alla produzione di alimenti) e quindi da affezione, non possono essere abbattuti secondo legge. Il Tar però “ha rigettato la richiesta di sospensiva urgente e per questo l’ordinanza di abbattimento può diventare esecutiva”. 

Anche il commissario nominato per l’emergenza, Angelo Ferrari, ha ritenuto non accoglibile la richiesta di non procedere all’abbattimento dei suini in questione perché, secondo quanto riferito dall’Asl, le strutture che ospitano gli animali sono state occupate abusivamente e gli animali non sono tracciati e non ci sono certificazioni di provenienza. Accuse respinte al mittente dalla Sfattoria.

Numerosi gli appelli a sostegno della Sfattoria a cominciare dalla petizione su change.org. Ma anche quelle di altre associazioni come Enpa, Leidaa, Lndc e Oipa che annunciano una dura battaglia legale con l’intenzione di trasformare la richiesta di sospensiva in ricorso ordinario. E gli appelli di supporto misti allo sdegno si sono diffusi anche via social dove centinaia di utenti hanno “urlano" contro la decisione dell’azienda sanitaria. 

#lucenews #lucelanazione #sfattoriadegliultimi #salviamoglianimali #protezioneanimali
  • Buone notizie per i neogenitori. Scattano da oggi, 13 agosto, le nuove regole sui congedi parentali previste dal decreto 105/2022. 🔻

La novità più importante è l’introduzione del congedo di paternità obbligatorio di 10 giorni al 100% della retribuzione (in precedenza erano solo 5), che sostituisce il congedo obbligatorio del padre e il congedo facoltativo del padre. 

Tale congedo sarà accessibile dal padre lavoratore dipendente tra i due mesi precedenti e i cinque successivi alla nascita, anche in caso di morte perinatale del bambino. I giorni di congedo possono essere sovrapposti anche a quelli della madre lavoratrice (pari a 5 mesi) e, in caso di parto gemellare, la durata del congedo è aumentata a 20 giorni lavorativi.

Oltre a questi 10 giorni obbligatori e completamente pagati, entrambi i genitori con figli di età inferiore ai 12 anni avranno diritto a un ulteriorecongedo facoltativo della durata di tre mesi con un’indennità del 30% dello stipendio. Tale congedo non è trasferibile da un genitore all’altro. I genitori hanno anche diritto, in alternativa tra loro, ad un ulteriore periodo di congedo della durata complessiva di tre mesi, per i quali spetta sempre un’indennità del 30% della retribuzione. 

Al genitore solo, sono riconosciuti 11 mesi continuativi o frazionati, di congedo parentale, di cui 9 mesi (e non più 6 mesi) indennizzabili al 30% della retribuzione.

I limiti massimi restano invariati per entrambi i genitori: 6 mesi per la madre e 6 per il padre (elevabili a 7 mesi nel caso in cui si astenga per un periodo intero o frazionato non inferiore a 3 mesi) per ogni figlio. 

Di Nicolò Guelfi ✍

#lucenews #lucelanazione #congedoparentale #maternitàepaternitàaconfronto #genitorifigli
  • Un episodio orribile quello accaduto a Salerno dove due donne lesbiche sono state accoltellate dal padre di una di loro. Le due giovani hanno deciso di denunciare il fatto ai carabinieri e la vicenda è stata resa nota dal consigliere regionale campano di Europa Verde Francesco Borrelli, che ha parlato di “storia folle e agghiacciante”.

La vicenda è iniziata quando le due ragazze, Francesca e Immacolata, la prima 39enne di Crotone e la seconda 23enne della provincia di Napoli, sono arrivate a Salerno per lavorare; nel capoluogo campano sono state ospitate a casa di una parente di Immacolata, il teatro dell’aggressione. 

“Mio padre ci ha detto ‘Voglio fare 30 anni di carcere: volete morire insieme? È arrivato il momento’ e poi ci ha colpito. Mia madre ha assistito all’aggressione e non ha fermato mio padre, anzi ha provato a bloccarci mentre scappavamo”, ha raccontato la più giovane. 

“Entrambe abbiamo riportato qualche ferita, ma siamo riuscite a scappare. Fino alle 5 del mattino però mio padre ci ha inseguite e minacciate. Abbiamo chiamato il 112 e i carabinieri sono intervenuti accompagnandoci nel nostro domicilio di Salerno per fare le valigie e tornare poi a Crotone in sicurezza. Lui a oggi nega tutto, ma abbiamo le prove di quello che ha fatto”, ha raccontato Immacolata.

Le due ragazze sono quindi tornate in Calabria e si sono anche recate al Pronto Soccorso dell’ospedale di Crotone per farsi medicare, sul corpo avevano numerose escoriazioni e ferite lievi di arma da taglio. 

#lucenews #lucelanazione #lgbtqitalia #aggressioneomofoba #salerno

"Ho fatto la scelta dell’adozione perché figli non arrivavano. Contro tutti i pregiudizi, me ne sono fregata". Romina ha 45 anni, viene da Catania. Da più di vent'anni vive in Toscana, con suo marito e, da dieci, anche con il suo Francesco. Arrivo a scuola per parlare con la sua mamma, ma il bambino, appena mi vede, attratto dalla macchina fotografica che porto al collo, si avvicina. Si presenta come un piccolo ometto, ci scambio qualche battuta e lui d'istinto, all'improvviso, mi si getta addosso abbracciandomi. È dolce, dolcissimo Francesco, una piccola trottola piena di vivacità. Romina racconta: "Volevo diventare mamma e anche se non è facile adottare un bambino con la sindrome di Down noi, io e mio marito, ci siamo detti che per noi non era un problema e ho accettato questa maternità".

Contro tutto e tutti, contro il pregiudizio, gli stereotipi, le difficoltà che si sarebbero presentate. Una mamma a tutti gli effetti, anche perché il legame che c'è mentre si parlano, si abbracciano, non è diverso da qualsiasi altro tra genitore e figlio. Anzi, forse il loro è perfino più stretto, frutto di una scelta fatta dalla coppia ma anche dal bambino, che li ha subito riconosciuti come i suoi genitori. "Ho conosciuto mio figlio che aveva 50 giorni di vita, era piccolissimo. Sono contenta che mi ha reso mamma, è la felicità più grande", dice emozionandosi. 

Francesco ha 10 anni. Ama la musica rap e disco, fa danza moderna e ha tante passioni

Quanti anni aveva quando ha capito che l’unica soluzione per diventare madre era l’adozione?

“Avevo 35 anni, da quando ne ho 23 mi sono trasferita dalla Sicilia in Toscana. Ero già sposata prima di salire e per anni abbiamo sognato di diventare genitori. Dieci anni fa ho capito che era il momento giusto per compiere questo passo importante”.

È una scelta ammirevole quella di adottare un bambino con disabilità...

“La mia è una storia particolare, non ho potuto in precedenza raccontarla a tutti come si è svolta. Noi volevamo procedere con l’adozione perciò ci siamo affidati ad un’associazione. Ci hanno spiegato che c’era la possibilità di avere un bambino con disabilità, più o meno grave: io mi sono buttata in questa avventura, per me non importava, mi sono fidata. Mi hanno detto che c’era questo bambino con sindrome di Down, ho lasciato da parte qualsiasi pregiudizio e sono andata avanti per quella strada”. 

Com’è andato il primo incontro?

“Era in ospedale, quando ci ha visti per la prima volta, ad appena un mese e mezzo di vita, ha fatto un enorme sorriso. Era come se ci avesse riconosciuti come i suoi genitori, senza averci mai visto. Le puericultrici si sono messe a piangere come me, non si aspettavano che reagisse così. È stato il nostro regalo di Natale più bello, è arrivato proprio nel periodo delle Feste”.

Ci parli della procedura, quanto è durata, come funziona…

“Me l’hanno dato in pre-affido. Non è un’esperienza facile: come te lo danno, così te lo possono togliere. Sono stati tre anni di continua ansia, tanti viaggi a Firenze al Tribunale dei Minori. Per un periodo la nostra pratica è stata archiviata e se non fosse stato per mio marito che ha smosso mari e monti per farla riaprire oggi nostro figlio non sarebbe con noi. Addirittura per l’Inps risulta ancora col vecchio cognome, non quello biologico, ma quello che gli è stato dato una volta uscito dall’ospedale perché avesse un’identità. Anche il nome lo hanno stabilito il giudice con i servizi sociali, io ho deciso di lasciarlo. Per tre anni sono stata con questa continua paura. L’adozione è un’esperienza che rifarei, certo. Però affrontare tutta quella burocrazia ti mette davvero in difficoltà”.

Siete stati seguiti da psicologi e assistenti sociali durante il percorso?

“Per un periodo abbiamo avuto gli assistenti sociali sempre con noi praticamente. Glielo dovevamo portare, venivano loro a vedere la casa, i luoghi che frequentava. La prassi è quella. Io non sapevo come comportarmi, chiedevo se potevamo viaggiare, magari prendere aerei…I primi tempi dovevo sempre mostrare, in aeroporto ad esempio, il foglio del pre-affido. Loro però ci hanno detto di fare tutto normalmente, di viaggiare senza problemi, loro non vogliono invadere gli spazi familiari. È scocciante ma è la prassi. In più eravamo seguiti dalla psicologa dell’adozione. Mi ricordo che mi ha fatto vedere un film, L’ottavo giorno (un film del 1996, scritto e diretto da Jaco van Dormael, ndr) quando Francesco aveva sette mesi; serviva a scuotermi, per mettermi alla prova: mi è stata messa la ‘realtà’ davanti, cosa volevo fare? Scappare o continuare ad accettarla? Io come facevo a dire, dopo aver visto il film e la possibile condizione futura di mio figlio, basta mi arrendo? Dopo che l’ho avuto in casa come posso rimandarlo indietro? È stata una prova difficile, andavo alle sedute piangendo. Poi certo, ci hanno fatto vedere anche altri film, più positivi, come Mio fratello rincorre i dinosauri: sono tutti esempi, romanzati certo, di come si vive con un bambino con sindrome”.

Il bambino è stato adottato quando aveva appena 50 giorni e dopo 3 anni di pre-affido ha finalmente trovato una famiglia

Com’è la vita da genitori?

“Intensa. Abbiamo fatto tante esperienze con Francesco, non è sempre facile. Ma non la cambierei con nient’altro al mondo. E tornassi indietro rifarei tutto quello che ho fatto. Tutto”.

Ci sono mai stati dei problemi, nel corso degli anni?

“No per fortuna è un bambino grande e sano, con tante passioni. C’è stata solo la questione della perdita dei capelli, qualche anno fa, gli è stata diagnosticata l’Alopecia. I dottori mi hanno detto che si manifesta così, all’improvviso, e non c’è una cura ben precisa. Lui in prima elementare ha iniziato a perdere i capelli a ciocche, poi è arrivato ad essere completamente calvo. Le persone che lo vedevano mi chiedevano se stesse facendo chemioterapia. Invece è alopecia areata. Ora invece i capelli sono tornati, sta bene”.

Francesco che bambino è?

“È molto molto dolce. Quando commette monellerie è sempre a dire ‘Ti voglio bene’ – ride –. Ha carattere, ma è molto tenero, va d’accordo con tutti, anche con le persone adulte. Si fa voler bene. Fa danza moderna e hip pop, fa ippoterapia, gli piacciono tantissimo la fotografia e la musica. Infatti lo abbiamo iscritto all’istituto musicale, per le scuole medie che inizierà il prossimo anno. Lo abbiamo abituato fin da neonato a sentire la radio in macchina e ora che è cresciuto, quando entra in auto accende la musica e vuole che non parliamo per ascoltarla, gli piace il rap, quella da discoteca… Lo chiama karaoke perché così va dietro a ingarbugliare le parole. È un bambino che se ti vede triste, ti viene vicino a chiedere ‘Che hai?’. È espressivo, si accorge di tutto”. 

Lui sa di essere stato adottato? Lei e suo marito intendete dirglielo?

“Lui non lo sa. Durante il percorso dell’adozione una psicologa mi disse che glielo avrei dovuto dire durante l’infanzia, ma non ho mai avuto il coraggio di farlo. Perché ho avuto paura di spaventarlo, non sapeva ancora parlare, avevo il terrore di traumatizzarlo. Non mi sono fidata e affidata a nessuno, ho seguito il mio istinto materno. Non so se sarebbe il caso, per un bambino con sindrome di Down, dirgli che noi non siamo i suoi genitori biologici. Se a volte mio marito gli dice, per scherzare quando fa il monello: ‘Ora mi prendo un altro bambino’, io mi arrabbio, gli dico che quella è una cosa da non dire, perché il bambino si potrebbe traumatizzare. Invece Francesco risponde: ‘È no è!’”. 

Ma vi ha mai chiesto, invece, un fratellino o una sorellina?

“Si quando mi vedeva la pancia, fino a qualche mese fa, mi diceva: ‘Hai un bimbo in pancia’. Ora invece ha imparato, mi dice che sono ‘coccona’, cicciona – scherza la mamma –”. 

Il resto della famiglia come ha preso la vostra scelta?

“Benissimo. Io vengo da una famiglia numerosa, sono l’ultima di quattro figli. Uno dei miei fratelli ha 4 figli, mia sorella ne ha 7. Nella mia famiglia i bambini non mancano. Francesco è stato subito accolto. Anche questo ti chiedono, nella procedura di adozione: una lettera da parte dei nonni, da depositare, in cui dicono che l’arrivo di questo bambino viene accettato, accolto. I miei genitori lo considerano un nipote come gli altri”.

Da mamma adottiva di un bambino con sindrome di Down, ci dice, sinceramente, tornando indietro se è un’esperienza che rifarebbe?

Francesco con la sua mamma Romina

“Ogni giorno della mia vita. Solo la parte burocratica è quella che ti fa stancare tantissimo e ti viene di mollare. Figurati che noi avevamo 35 anni quando abbiamo fatto richiesta e un giudice all’inizio ci disse che eravamo ‘troppo vecchi’. La gente per scelta fa figli dopo i 40: io ne ho 45, se mi capitasse di rimanere incinta io lo terrei questo bambino. È una vita che aspetto la compagnia per Francesco. In passato quando mi chiedevano se Francesco fosse mio, se avessi partorito, mi veniva automaticamente da rispondere sì. Non l’ho mai sentito come adottato, ho sentito di vivere anche la fase del travaglio, come per le donne in gravidanza: io la fase del travaglio l’ho vissuta aspettando questa adozione, aspettando che mi permettessero di andarlo a prendere…”.

E quando vi hanno detto: “Ok Francesco è vostro figlio” cos’ha provato, cos’ha fatto?

“Ho chiamato a scuola (dove lavora, ndr) e ho chiesto e ottenuto subito il congedo di maternità. A mio marito è venuto il mal di pancia dall’emozione. Gli assistenti sociali che ci aspettavano davanti all’ospedale hanno pensato che ci avessimo ripensato, che non saremmo andati. Ma eravamo troppo emozionati lì per lì per riuscire a fare qualsiasi cosa. Poi però, a ripensarci oggi, è stata un’esperienza bellissima, la più bella della mia vita”.

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