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Marco Baldetti, una storia dall'oscurità alla Luce. Con qualche ombra ancora da spazzare via

di GERALDINA FIECHTER -
8 giugno 2022
sordomuto

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Aveva 4 anni quando lo hanno salvato i vicini di casa: era cascato dal letto e mamma e papà, sordi, non sentivano il suo pianto a dirotto. Aveva 6 anni quando il patrigno ha cominciato ad abusare di lui, minacciandolo non a parole ma con schiaffi e pugni alla gola. Aveva 9 anni quando ha fatto la prima comunione da solo, l’unico bambino senza neanche un parente: la mamma, rea di essersi separata dal marito, chiusa nel suo silenzio, non poteva entrare. Vade retro, satana!, erano questi i tempi. Oggi Marco Baldetti di anni ne ha quasi 60 ed è la prova vivente di quanto può essere tirato l’elastico umano. Se fosse un copione da film, diremmo no, è troppo, nessuno ci crede. E invece è tutto vero, come è vero che è stato l’amore di un uomo, Adriano, a quel tempo restauratore a Londra per la National Gallery, a salvarlo. Si sono sposati dopo vent’anni di convivenza a Cecina, dove vivono. E questa volta il paese, a cominciare dal sindaco, era tutto con loro.
Marco Belletti e Adriano

Marco Belletti con il marito Adriano, che è stato la sua ancora di salvezza dopo una giovinezza segnata dai traumi. I due si sono sposati a Cecina dove tutt'oggi vivono

Il matrimonio e "il loro bambino"

Hanno parlato pubblicamente di lui due volte, una per il primo matrimonio fra due uomini nella zona (“ma niente fiori, fedi, feste, una cosa normale, non ho neanche una foto”) e una per il ringraziamento che il loro vicino di casa, Marcello Niccolai, ha voluto fare a lui e a Adriano. “Sono solo e malato grave, se non ci fossero loro - raccontava sulle cronache locali - sarei già morto”. In effetti “è diventato il nostro bambino”, dicono Marco e Adriano del vicino settantenne. Mai via in coppia, o l’uno o l’altro ci deve essere sempre, Marcello non è autosufficiente e, a dirla tutta, “è anche piuttosto geloso”. Li vuole tutti per sé. E come dargli torto.

La storia di Marco

Marco Belletti e Mario

Marco Belletti insieme a Mario, un vicino di casa di Cecina che lui e il marito accudiscono come se fosse un figlio

Marco nasce a Piombino da due genitori sordi non verbali (cosiddetti 'sordomuti'). “Era un matrimonio combinato, le loro due famiglie probabilmente volevano levarseli di torno”. E non ha funzionato. “Di mio padre non ho mai sentito la voce, mia madre invece leggeva, scriveva e aveva imparato a dire qualcosa”. La prima parola Marco l’ha detta a quattro anni, “da quel momento traducevo tutto io: nei negozi, al telefono, ovunque ci fosse bisogno: la mamma usava la lingua dei segni e io riportavo agli altri”. Ma quando i genitori si sono separati e in casa è entrato un altro uomo, violento, alcolizzato, cattivo, il piccolo paese dell’isola d’Elba in cui vivevano e che aveva adottato e coccolato quel bambino prigioniero del silenzio, per Marco è diventato il luogo della vergogna. “Mi sentivo sporco, mi vergognavo a farmi vedere, perché è questo quello che capita a chi subisce violenze. I bambini non capiscono? Capiscono tutto, anche da piccolissimi”.
Marco Belletti, Adriano e Mario

Marco Belletti, il marito Adriano e Mario, il vicino di casa settantenne e non autosufficiente che la coppia aiuta nella vita quotidiana

Ma quello era un mondo diverso, "dove anche se provavi a dire qualcosa non venivi creduto, oppure ci passavano sopra". È successo? “Parlai dell’uomo nero in un tema, la maestra capì qualcosa, ma poi non successe niente. Fui chiamato dai carabinieri, mi chiesero: ma sei sicuro? Finì lì. Oggi basterebbe una telefonata, scoppierebbe il finimondo”. E la mamma? “La mamma non sentiva quello che succedeva in casa, e io nei suoi confronti ero protettivo”. Perché anche questo capita ai bambini che hanno il peso del mondo addosso. Proteggono tutti meno se stessi. Se poi la mamma è a sua volta una vittima, allora sì che i bambini si tengono tutto dentro. “Vorrei spiegare come può sentirsi una vittima e come si viene manipolati dalle persone violente, in modo che la mia esperienza possa essere d’aiuto a chi si trova in quella situazione: io avevo tanta paura anche perché venivo minacciato. Quell’uomo mi diceva di tacere se no sarei andato in riformatorio e non avrei mai più visto mia madre. Non avevo scampo”. C’è un solo gesto che il compagno Adriano non può fare neanche nei momenti più teneri. “Mettermi la mano sulla gola. Quello no. Mi apre un abisso di ricordi e di paure”. Chissà se riuscirà un giorno a tornare a Capoliveri, dove tutto è accaduto. “Ci sono passato accanto con il bus e ho sentito il nodo alla gola. Non ci riesco, è più forte di me”. Eppure vorrebbe, eccome se vorrebbe. E se lui è arrivato fino a qui, camminando sul burrone, da una parte i ricordi, le fobie, la depressione, le cure pesanti, dall’altra l’amore per la vita e per l’uomo che lo ha voluto così com’è, un po’ storto e molto ferito, che ride mentre piange e stritola quando abbraccia, ecco, anche Capoliveri dovrebbe fare la sua parte. Andarlo a prendere, dargli due gocce di calmante e rimetterlo al centro della sua storia con la festa più bella che c’è. E vedere se quel nodo alla gola, dopo sessant’anni, comincia a sciogliersi.