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Più forti della pandemia: così i millennial si riprenderanno il futuro

di L. BARTOLETTI, R. CONTE, L. CRISCITIELLO, M. GRAZI, M. PICCINI -
12 aprile 2021
ArticoloGiovani3

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La musica oggi si impara e si insegna (anche) a distanza: Milena Paris, 33 anni, Bergamo

  La sua voce intensa non è stata spenta dalla pandemia. Certo, i mesi del Covid sono durissimi per chi, come lei, ha fatto della vocazione artistica un mestiere. "Nel 2020 ho potuto fare circa cinque concerti, non di più. Ho capito presto che l’unico modo per rimanere integri come esseri umani era focalizzarsi sul proprio scopo, cercare una motivazione maggiore". Milena Paris ha 33 anni, è una bergamasca trapiantata a Milano. La musica è la sua vita, da sempre: "Canto da quando ho memoria. Prima cantavo per me, poi ho capito che alla mia passione dovevo dare una forma, una struttura più definita". Milena ha trasformato la passione in uno studio prima e in un lavoro poi da quando ha 13 anni. "Ero alle medie, e ho iniziato a prendere lezioni di chitarra e di canto. Qualche tempo dopo mi sono affinata grazie alla guida della soprano Maria Beatrice Sinigaglia, e infine sono approdata al conservatorio di Milano, dove ho studiato canto jazz". Il mondo dell'arte è faticoso, ma a poco a poco iniziano ad arrivare le prime soddisfazioni: negli anni ha prestato la voce per sigle tv e spot, colonne sonore, collaborazioni in studio come corista, concerti con orchestra e brassband jazz. La musica è studio e fatica, e poi ambizione, forza, dedizione. Ma quando ci si mette di mezzo la pandemia anche i sogni più tenaci sono costretti a interrompersi, e Milena ha iniziato a insegnare musica. Ovviamente a distanza, per rispettare le regole anti contagio. Anche dai grandi cambiamenti ha però saputo trarre qualcosa di buono: "Non poter suonare dal vivo mi ha portato a produrre la mia musica. Mi sento di dire che la pandemia mi ha tolto tanto, ci sta togliendo tanto, ma se si è capaci di guardare a ciò che può offrirci se ne può ricavare qualcosa. In primis il tempo: tempo da dedicare a un progetto che sia importante per noi, come nel mio caso la produzione di un EP che spero di pubblicare entro fine anno". E poi ha ricominciato a studiare: "Nonostante stia già lavorando come insegnante di canto e di musica, sto continuando a formarmi: sono all’ultimo anno di Biennio al Conservatorio Verdi di Milano. Provo un grande rispetto per l’arte in generale e mi auguro che gli artisti in questo periodo non cedano. Le persone hanno bisogno di esprimersi e di parlare delle cose del mondo e hanno bisogno di artisti coraggiosi che siano in grado di dipingere il momento storico e di portare valore attraverso la loro visione".  

L'ingegnere al servizio dei rifugiati in Kenya: Duccio Baldi, 26 anni, Firenze

  Ha 26 anni, lavora con la Commissione europea per un progetto di elettrificazione di 300 campi profughi in Africa e tra alcuni mesi pubblicherà un dataset sui bisogni dei rifugiati. Fiorentino doc, Duccio Baldi non si è dato per vinto, anche quando tutto sembrava perduto per colpa della pandemia: si è rimboccato le maniche e si è rimesso in gioco. Dopo la laurea in ingegneria energetica al Politecnico di Torino e grazie a un master in Energy Science alla Utrecht University in Olanda, aveva iniziato a lavorare come tirocinante a Nairobi, in Kenya, per il governo tedesco in collaborazione con il governo keniota per l'elettrificazione dei campi profughi. Dopo il periodo di stage è arrivata l'offerta di un contratto da consulente che lo avrebbe accompagnato fino all'inizio di un incarico per un progetto della durata di tre anni. "A maggio 2020, subito dopo il lockdown a Nairobi, il mio contratto non è stato rinnovato: con la pandemia tutte le posizioni internazionali sono state chiuse. Sono stati mesi bruttissimi, di punto in bianco i miei progetti e le mie speranze sono andati in fumo". Duccio però non si è arreso.  "Mi ci è voluto un po' per riprendermi però non potevo arrendermi. Non potevo buttare all'aria tutti gli anni di ricerca e, soprattutto, non potevo lasciare soli i rifugiati: ho visto come vivono. Mi sono rimesso in gioco e a settembre ho trovato un contratto con un centro di ricerca della Commissione europea per continuare il mio studio sul processo di elettrificazione dei campi profughi e per completare la mia tesi sostenuta anche dall’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite". Duccio oggi sta portando avanti il lavoro con la Commissione europea e tra alcuni mesi pubblicherà un dataset comprensivo dei bisogni dei rifugiati, il primo di questo tipo. “Sono felice, spero con i miei studi di poter creare qualcosa di utile per tutte quelle persone che oggi vivono senza nemmeno la luce”.  

L'operatrice turistica nelle città deserte. Oggi vuole diventare wedding planner: Elisa Recchioni, 35 anni, Terni

  "Mi sento di guardare al futuro con fiducia: i progetti che avevo prima hanno preso forme diverse, ma non ho messo in stand by la mia vita in attesa di un ritorno alla normalità", dice Elisa: un Erasmus in Francia, poi la laurea all'Università per Stranieri di Perugia in Sistemi di comunicazione per le relazioni internazionali. "Dopo la tesi ho seguito un master in management del turismo lavorando come addetta alle prenotazioni per un tour operator a Terni. Il sogno? Aprire un giorno un'attività tutta mia di promozione turistica dell'Umbria, che ha tante realtà interessanti ma poco conosciute e valorizzate rispetto, ad esempio, alla Toscana". La pandemia blocca tutto. E allora Elisa, dopo un iniziale smarrimento, decide di ricominciare da un progetto tenuto nel cassetto da tempo: diventare wedding planner. Riprende a formarsi, iniziando da un corso della Camera di Commercio della Marche su come diventare imprenditori di se stessi. "Abbattersi non fa per me, noi nati tra gli anni ’80 e ’90 abbiamo la pelle dura, siamo abituati alle difficoltà".  

La commessa convertita all'e-commerce: Martina Fè, 27 anni, Montepulciano (Siena)

 

"No, il Covid non mi ha cambiato, anzi la mia voglia di ripartire è grande. Voglio imparare sempre di più e chissà, magari tra qualche anno aprire una mia attività". Martina Fè ha 27 anni, nel 2016 si laurea in Mediazione linguistica con una tesi sulla figura del mediatore in ambito calcistico, perché il suo cuore è giallorosso fin dalla nascita e la Roma il suo unico credo. "Grazie al lockdown, almeno, ho potuto coltivare l’amore per il calcio. Quattro giorni a settimana almeno le partite mi tenevano compagnia a casa" scherza.

Dopo la laurea triennale inizia a lavorare; una passione che ha sempre avuto è quella per il commercio: "Sono una persona empatica, mi piace instaurare un rapporto coi clienti. In quest’ultimo anno è quello che mi è più mancato, stare a distanza e avere la mascherina ha reso tutto più difficile". Nel 2018 entra nel team di un negozio di oggettistica a Montepulciano (Siena), con un contratto di apprendistato. Il passaggio al tempo determinato però, arriva in un momento a dir poco sfortunato: marzo 2020. "È stata la parte più tragica. Da marzo ero a casa, senza stipendio, senza lavoro. Non sapevo se quel contratto tanto sperato sarebbe arrivato finito il lockdown".

Ma a fine maggio arriva la tanto desiderata chiamata da parte del titolare: assunzione a tempo determinato alle stesse condizioni pattuite in precedenza. "Ho lavorato tutta l’estate, grazie ai tanti turisti che sono arrivati. La mia felicità più grande era tornare ad avere contatti con le persone. Cos’è cambiato? Prima odiavo lavorare nel weekend, negli scorsi mesi invece sarei stata in negozio giorno e notte".

A novembre però arriva la nuova chiusura. "Sono l’unica responsabile dell’ e-commerce del negozio: questo mi ha permesso di lavorare in smart working per il primo periodo: il digitale può dare un impulso fortissimo al commercio, anche in settori che tradizionalmente non sembravano tagliati per gli acquisti online. Ma la pandemia ha cambiato tutto. Il futuro? Benissimo il digitale, ma io aspetto con trepidazione di rientrare nel mio amato negozio fisicamente. Il Covid ci ha indebolito, senza dubbio. Ma rimango un’inguaribile ottimista. Ne usciremo sicuramente più forti".

 

Il cantante coi teatri vuoti: Danilo Ruggero, 29 anni, Pantelleria (Trapani)

  Danilo Ruggero è un cantautore nato a Pantelleria, un’isola bellissima e difficile da capire ma che riesce a portarsi dietro ovunque vada. Prima a Roma per circa nove anni per studiare, lavorare e coltivare in sordina il sogno di fare il musicista. Infine a Milano dove è arrivato per amore e dove attualmente cerca di continuare quello che aveva lasciato a metà, in una capitale che aveva abbandonato per tornare giù nella sua Sicilia. "Compongo fin dai tempi della scuola. Racconto tutto quello che mi sta intorno sia in dialetto siciliano che in italiano. Nei miei testi parlo di me, dei disagi di nascere in una piccola isola, di lavoro precario, di mafie e di una generazione come la mia, costretta ad allontanarsi da casa per vivere dignitosamente". Danilo a Roma, nel 2018, incide il suo primo disco e viaggia con la sua band in giro per tutta l’Italia, per circa un anno. Nel frattempo continua a fare lavori precari per mantenersi e per continuare i suoi studi. Nell’estate prima del Covid, trasferitosi quasi definitamente a Pantelleria, convinto ormai di rimanere nella sua terra di origine per varie vicissitudini personali e familiari, conosce la ragazza per cui deciderà di trasferirsi a Milano. Dalla terra dei venti ai grattacieli della city pieno di sogni e nuove prospettive. Invece c’è ancora da combattere: la pandemia, i locali e i teatri chiusi, le restrizioni. "Appena arrivato a Milano ho trovato lavoro come barista. Mi serviva per mantenermi mentre continuavo a comporre, in attesa di ricominciare a suonare in giro e pubblicare nuove canzoni. Ma la pandemia ha interrotto tutto". Nemmeno due mesi di lavoro e il bar chiude. A Danilo non rinnovano il contratto. "Gli amici, mia madre e mio fratello distanti, la mia ragazza: se non ho gettato la spugna è grazie anche a loro. Ho continuato a scrivere testi, a sistemare i miei vecchi brani e settembre inizierò un nuovo percorso. La musica purtroppo o per fortuna è l’unica cosa che mi salva dalla confusione di questo secolo banale e da periodo incerto".  

Da New York al Molise, la felicità nelle piccole cose: Andrea Nardolillo, 31 anni, Venafro (Isernia)

  Una laurea in economia sostenuta in inglese, sei mesi a New York per perfezionare gli studi. E poi un tirocinio da un commercialista, in una società di consulenza a Milano. "Le cose non andarono come speravo: non mi rinnovarono il contratto, entrai in crisi e alla fine decisi di tornare nel mio Molise, a Venafro dove sono nato: ho ricominciato da capo". Racconta: "All'inizio ho fatto il cameriere in un locale, poi in poco tempo mi sono ritrovato a gestirlo: dall'accoglienza all'organizzazione, è stato entusiasmante. Credevo che il mio futuro fosse quello...". Ma la pandemia ha rimesso tutto in discussione. E Andrea ha dovuto riprendere in mano i suoi studi, i suoi titoli, la sua laurea. "Adesso mi sto preparando per sostenere l'esame di consulente finanziario. Sto cercando di farmi trovare pronto per il futuro, per quando usciremo da questo periodo terribile: ritroverò una strada nuova. Cambiare spesso nella vita mi ha insegnato una cosa fondamentale: non avere paura".  

L'infermiera dei bambini a bordo della Open Arms: Caterina Volpi, 26 anni, Firenze

"Sono partita nonostante il Covid. Con un po' di incoscienza? Forse, ma nella mia scala di priorità non ho mai avuto dubbi su quello che volevo fare". Gli studi e la laurea per diventare infermiera, poi il master in infermieristica pediatrica all'ospedale Meyer. Quindi le esperienze in Africa ed India, prima del campo profughi di Moria, a Lesbo. Oggi Caterina Volpi, 26 anni, fiorentina, ha coronato il suo sogno: per conto di Emergency è impegnata nella fase finale di una missione a bordo della Open Arms, per salvare uomini, donne e bambini in fuga da situazioni devastanti.

"Il Covid sicuramente ha complicato tutto: l'utilizzo dei dispositivi di protezione individuale rende più difficile tutta la missione, sia a livello fisico, perché stiamo ore e ore senza poter andare in bagno né mangiare o bere, ma soprattutto a livello umano. Accogliamo queste persone vestiti da astronauti, i bambini ci guardano come fossimo alieni. Non poter mostrare il sorriso rende difficile mostrare l'umanità alla base del nostro operato. Purtroppo, il coronamento del sogno è coinciso proprio con l’esplosione della pandemia. Cosa dovevo fare? Arrendermi? Rimandare tutto ed aspettare momenti migliori? Che, peraltro, non si sa proprio quando potranno arrivare". Certo, non tutto è stato così scontato, almeno nella fase di partenza. "E’ evidente che io stessa ho avuto dubbi. Tutti quelli con cui parlavo avevano sempre la stessa domanda: ma siamo sicuri che questo sia il momento migliore per partire? Però avevo fatto il mio percorso, avevo un traguardo. L’opportunità di lavorare per Emergency si è concretizzata improvvisamente, per quanto fortemente voluta. Così come non mai sarei mai aspettata di essere chiamata per una missione così importante dopo appena pochi mesi dall’inizio del mio lavoro. Era il punto di arrivo, quello che avevo sempre voluto fare Dovevo rinunciare al sogno?".