Parlare insieme di guerra, in un confronto il più possibile costruttivo. Una guerra che, seppur lontana, sente propria, fa parte della sua storia. Arrivato a Siena per studiare psicologia a metà settembre, Shai Khachaturov è originario di Lehavim, un piccolo paesino nel deserto del Neghev, a 40 chilometri dalla Striscia di Gaza.
Si trovava in vacanza a Bologna quando, dopo una serata con gli amici, si è svegliato con il telefono che squillava e tante chiamate perse, da allora la sua vita ha preso una piega diversa. Da allora la sua vita ha preso una piega diversa.
Shai, dall’università alla guerra: lo shock del 7 ottobre
“Il 7 ottobre ero a Bologna con il mio coinquilino, stavamo facendo un fine settimana fuori, mi sono svegliato la mattina con tantissimi messaggi e chiamate perse – ha raccontato Shai -. Mi sono reso conto che c’erano stati problemi.
Ho chiamato subito la mia famiglia, che sta bene, mentre ad oggi Tomer Ahimas e Ron Sherman, due ragazzi del mio paese sono in ostaggio a Gaza, due miei amici sono stati feriti da un colpo da arma da fuoco e la famiglia di un mio conoscente è stata sterminata”.
Come la maggior parte della popolazione in Israele Shai è riservista, ha sostenuto 2 anni e 8 mesi di accademia militare, e alla notizia della guerra non ha perso tempo: “Ho chiamato il comandante della mia unità dell’esercito per chiedere di tornare per dare una mano, avrei preso il primo volo.
Mi hanno detto che per ora non c’è bisogno, ci sono tanti volontari. Dall’inizio della guerra sono tornati 300mila israeliani da tutto il mondo”.
L’aiuto dall’Italia
Nel frattempo, Shai si dà da fare per dare una mano dall’Italia. “Aiuto da lontano come posso. Ad esempio organizzando donazioni per i soldati, partecipando alle manifestazioni, e durante le prime settimane di guerra ho chiesto al professor Gozzini dell’Università di Siena di tenere una presentazione, perché il racconto della guerra è importantissimo.
C’è tanta propaganda e poca informazione – ha spiegato lo studente -. La risposta è stata ottima, anche chi non supporta Israele ha fatto domande e abbiamo dialogato, sono stato felice di accogliere le critiche.
La settimana successiva ha tenuto una lezione una studentessa palestinese, e anche lei ha fatto una presentazione interessante. Non sono stato del tutto d’accordo con quello che ha detto, ma anche in quell’occasione c’è stato dialogo”.
Dialogo e dissenso, il clima all’Università
Una lezione di ascolto e cooperazione, dialogo fra idee e punti di vista che arriva da giovani studenti. La situazione comunque è complessa, anche all’Università di Siena, dove è di recente nato il ‘Comitato studenti per la Palestina’. In una lunga lettera il comitato ha chiesto al rettore di prendere posizione sul conflitto cessando, fra l’altro, i rapporti con gli atenei israeliani e riproponendo un format adottato nell’ultimo mese anche da tante altre realtà studentesche in Italia.
“Penso che sia un pessimo gesto – ha commentato Khachaturov -, non volevo generalizzare, ma sembra che tanti pro-palestinesi abbiano difficoltà a dialogare. Si vedono come vittime e il loro primo obiettivo non sembrerebbe aiutare i palestinesi ma ostacolare Israele”.
La risposta del rettore, comunque, non ha lasciato spazio alle rivendicazioni del comitato. “Inoltre, il coordinatore generale degli studenti Erasmus a Siena ha scritto a noi studenti israeliani i primi giorni della guerra, esprimendo vicinanza e disponibilità all’aiuto, anche per prolungare il soggiorno – ha aggiunto -. Questa per me è umanità, e non c’è bisogno di essere pro-israeliani per metterla in pratica. Prego per la fine della guerra e per il ritorno a casa degli ostaggi”.
L’amicizia che sfida le basi della contrapposizione
Almeno fuori dal contesto israelo-palestinese il dialogo sembrerebbe essere possibile. Ad ulteriore dimostrazione del fatto che il problema, il motore della guerra, sono i governi e non i popoli.
“Qualche anno fa ho fatto un viaggio in Egitto e ho conosciuto un ragazzo originario di Gaza, che vive in Svezia – ha raccontato lo studente israeliano -. È un bravissimo ragazzo, siamo diventati amici stretti e abbiamo visitato il Sinai insieme.
Appena iniziata la guerra gli ho scritto e ho chiesto della sua famiglia, anche lui si è interessato alle mie condizioni. Mi ha detto che metà della sua famiglia è morta. È una storia triste ma dimostra che anche se alcune frange della società sono intolleranti, da entrambe le parti, c’è anche tanta parte della popolazione che è disposta al dialogo”.