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Un tatuaggio mi ha rovinato la vita: quando la rimozione è questione di pelle. Altro che Freud

di CLAUDIO CAPANNI -
12 aprile 2021
ProvaTattoo2

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Poliziotta solo per sette giorni: una stellina sul polso mi è costata il distintivo

Prima era troppo bassa, poi aveva un tatuaggio, oggi è troppo vecchia: la storia di Sara Alberti, 30 anni, col sogno di arruolarsi. Sempre esclusa per quello che è, non per quello che vale
    Prima l’altezza, poi la pelle. Quella di Sara Alberti, 30enne romana, è una lotta contro i limiti che dura da una vita. Sara è stata agente di polizia per sette giorni. Il 26 giugno 2019, alla scuola agenti di Peschiera del Garda, ha tirato in aria il berretto della divisa con 70 allievi che sono diventati poliziotti come lei. Sette giorni dopo, il 2 luglio 2019, quella divisa l’ha dovuta restituire insieme al distintivo. E alla felicità, blindata da allora nell’armeria di Peschiera. “Ora ogni volta che vedo passare una Volante mi viene da piangere”. Oggi è commessa precaria in un negozio d’abbigliamento. Ha scritto al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella e al ministero dell’Interno. Nessuno le ha mai risposto. Tutta colpa di un tatuaggio. “Una stellina che, a 18 anni, mi ero fatta incidere sul polso per ricordare mio zio, morto quando avevo 14 anni”. Anche quella stellina non c’è più. Ma allora perché è stata cacciata? “Ad agosto del 2017 ho partecipato al bando per l’assunzione di 1148 allievi della Polizia di Stato”. Al test si candidano in 89mila. Da quando nel 2015 è stato rimosso l’altro scoglio, quello dei 161 centimetri di altezza, ha un chiodo fisso: diventare agente. Ha una laurea in Scienze dell’Investigazione, un master in Criminologia, un anno di volontariato a Rebibbia. “Riesco a passare la prova pre-selettiva. Ad aprile 2018 è la volta di prova fisica e visita in commissione medica”. Ma il bando parla chiaro: non sono ammessi tatuaggi che spuntino dalla divisa. “Per questo mi ero già sottoposta a sette sedute di laser terapia un anno prima: del tatuaggio rimaneva quello che si chiama ghost, un fantasma sulla pelle”. Che però diventa spettro. “Alla commissione dichiaro di aver subito l’intervento di rimozione e mostro il polso”. A fine esame viene chiamata in disparte: le consegnano il verbale di esclusione. La cicatrice viene considerata tatuaggio. Il suo mondo crolla, ma continua a lottare. “Ho fatto ricorso al Tar del Lazio”. Che in via cautelare, la riammette: è la prima vittoria. Perché è idonea in tutto. Tanto che, a novembre 2018 entra nella scuola di Peschiera del Garda. “L’ho frequentata otto mesi: nove ore al giorno”. Il 15 marzo 2019 arriva la sentenza del Tar”. I giudici le danno ragione: quello che per la commissione è un tatuaggio, in realtà, sono “esiti cicatriziali”. Un piccolo segno che andrà via. “Ma il ministero si appella al Consiglio di Stato”. Inizia l’attesa-calvario per il secondo grado di giudizio: quello definitivo. Il 26 giugno 2019 intanto arriva il gran giorno. Quello con l’acqua smeraldo del Garda, i berretti, il giuramento dopo la parata: Sara è una poliziotta. Torna a Roma con i genitori. Piangono di gioia. “Ma il 2 luglio arriva il provvedimento cautelare del Consiglio di Stato: vengo sospesa in attesa della decisione”. È la fine. “Sono stata richiamata a scuola per restituire il distintivo”. Il nuovo viaggio a Peschiera è devastante. “Ero in auto con i miei: piangevamo tutti e tre”. Stavolta di dolore. Il momento più duro è rivedere l’acqua del Garda. “Mentre ero in armeria a restituire il distintivo, ai miei compagni stavano consegnando le cose per la partenza in reparto. Un dolore troppo grande per essere raccontato”. È ancora poliziotta, ma non può esserlo. E non può cercare altri lavori perché già iscritta all’Inps: lo Stato la obbliga a ricevere lo stipendio, pur non lavorando. La sentenza arriva il 19 settembre 2019: il Consiglio di Stato accoglie il ricorso. Sarà è fuori. Con 7mila euro di stipendio da restituire, gli avvocati da pagare e senza lavoro. “Per mesi non ho dormito e appena vedo un’auto della Polizia, mi sento morire dentro”. Uno di quei 70 allievi, diventato poliziotto, è stato assegnato al commissariato dietro casa di Sara. “Una sera l’ho visto passare di fronte al pub dove ero con gli amici”. Lui in divisa, lei disoccupata. “Non ce l’ho fatta: sono scoppiata a piangere”. Anche la sua pelle si è ribellata. “Ho una forte dermatite da stress che sto curando col cortisone”. A ferirla è il veleno dei commenti sul suo profilo Facebook. “Dicono che me la sono cercata. Ma il tatuaggio è stato fatto quando avevo 18 anni e, per entrare in polizia, valeva il limite minimo dei 160 centimetri di altezza, rimosso nel 2015. Da allora non ho fatto altro che attendere il concorso”. Sara ha scritto al presidente della Repubblica e al ministero dell’Interno. Nessuno le ha risposto. Chiede una sanatoria interna per la riammissione. Una soluzione che esiste. Basterebbe volerla. Perché è una poliziotta. Perché ha giurato fedeltà alla Repubblica. Perché l’acqua smeraldo del Garda, dal piazzale della scuola allievi, non resti l’ultima cosa bella che ha visto.  

Di pentiti ne ho visti tanti. Il vero tatuatore sa anche dire qualche no

Giulio Tomasselli ha aperto il primo negozio di tattoo a Firenze nel 1990: "Da me sono passati Pelù, Fiona May, senatori e magistrati. Tatuaggi in faccia? Non ne faccio mai... O quasi"
 

Giulio Tomasselli, 60 anni, nel 1990 ha aperto il primo negozio di tattoo a Firenze: "All'epoca mi guardavano come un pazzo"

  Se gli chiedessero: "Scegli: o il tatuaggio o il lavoro che sogni" non ci penserebbe un secondo. "Cambierei lavoro e mi terrei il tatuaggio. La persona la devi apprezzare per le qualità che ha e non per l'aspetto. Punto e basta”. Giulio Tomasselli è fiorentino, ha 60 anni e una catena tatuata di tre metri e mezzo che avvolge braccio sinistro e petto. Ha avuto fra le mani la pelle di Piero Pelù, Fiona May, Eddie Salcedo, attaccante del Verona. E i calciatori di mezza Fiorentina. “Anche un senatore, medici e molti magistrati. Tutti hanno chiesto tatuaggi in punti nascosti”. Ha iniziato a maneggiare ago e inchiostro a metà degli anni ‘70. “All’epoca era quello da china. Dieci anni dopo esisteva solo un tatuatore per regione”. Oggi Unioncamere ne stima quasi 5mila: in media 250 per regione, solo in Lombardia più di 1000. Eppure l’inchiostro sulla pelle resta ancora una lettera scarlatta. Come 35 anni fa, nella preistoria, quando i primissimi aghi di Tomasselli erano entomologici. “Quelli usati per gli insetti. Non se ne trovavano altri”. A chi oggi entra nel suo studio Dragon Tattoo, il primo di tatuaggi aperto a Firenze nel 1990, e chiede un’incisione sul volto, però fa la stessa domanda: “Sei sicuro?”. Tanti rispondono di no. Oppure rifiuta lui. “A meno che davanti non mi trovi una persona convinta al cento per cento”. Perché Tomasselli sa che il tattoo sbagliato nel posto sbagliato, può rovinare una carriera. “Non tatuo mai sul volto, rifiuto quasi sempre. Anzi, una volta sì. A una mia segretaria: tre puntini poco sopra la tempia, sull’eyeliner. E gli stanno da Dio”. L’ultimo glielo hanno chiesto pochi giorni fa. “Il cliente non aveva più di 20 anni”. La richiesta: un tattoo in pieno collo. “Gli ho proposto un patto: ‘ti applico uno sticker del tatuaggio, così lo provi e vedi come ti sta. Poi torni e mi dici se lo vuoi ancora’”. Il ragazzo è tornato davvero. “Il tatuaggio lo voleva ancora. Ma non più sul collo. Sua madre deve averlo convinto in qualche modo”. Ma così non si asseconda chi pensa che i tatuati siano degli appestati? “No, assolutamente. Con tutti quelli che ho tatuato si potrebbe riempire lo stadio Franchi che fa 40mila spettatori”. E allora perché scoraggiarli? “Lo faccio per loro. Molti ragazzi mi chiedono di essere tatuati in punti sempre più visibili: ho molte richieste su collo e mani. Una volta non succedeva”. Il grosso sono under 25. “Potrebbero pentirsene. Oggi ci sono personaggi pubblici e rapper, come Fedez che hanno tutto il collo tatuato. Ma quei tatuaggi, a loro, non daranno problemi sul lavoro o nella vita. Io comunque chiedo, non vieto. Una volta ho anche tatuato un cranio. Se sono convinti, adulti e vaccinati, nessun problema”. Oggi non tutti sanno dire di no. “Forse perché siamo davvero tanti. Quando iniziammo eravamo considerati untori da cui stare alla larga. Anche fra noi. A metà degli anni ‘80 viaggiai a Londra con un interprete per rubare le tecniche dei tatuatori inglesi. Erano gelosissimi e non volevano che entrassi nei loro negozi”. Il primo tatuaggio della sua vita lo ha fatto nel 1975. “Avevo 14 anni e volevo incidere un paracadute sulla mano. Lo feci con ago e china. Ma fece infezione, allora lo coprii con le mie iniziali”. Lo guardavano come un lebbroso. Quando Tomasselli tornò da Londra, nel 1990, tentò di aprire bottega. Ma non esisteva la partita Iva da tatuatore. E lo guardavano come un pazzo. “Presi contatti con l’Asl. Dissi ‘Fatemi parlare col dirigente più zelante che avete’. Lui mi ricevette. Gli chiesi cosa doveva fare per aprire lo studio”. La sua risposta: “Quello che non è proibito, in Italia, si può fare”. “Presi un libretto delle ricevute e aprì il negozio”. E il pazzo lebbroso, divenne un’autorità. Oggi Tomasselli, oltre che gestire il suo Dragoon Tattoo Studio è docente nei corsi della Confartigianato di Firenze dove si ottiene il diploma di tecnico qualificato per il tatuaggio. Con il quale poi esercitare la professione. Ha collaborato a stilare, in 30 anni, le normative igieniche della professione con Stato e Regione. Ai suoi allievi insegna ancora a dire di no a certi clienti. “Ma se qualcuno mi dicesse, ti assumo se ti togli i tatuaggi, gli risponderei ‘addio’. Anche perché per levarmeli tutti ci vorrebbero 500mila euro. All'estero ci sono direttori di banca con la camicia a maniche corte e le braccia tatuate. Se sei un bravo venditore, ingegnere o lavoratore, lo sei pure con la fronte tatuata. Ma il nostro Paese in questo è ancora indietro".  

Storie di divorzio tra pelle e tattoo: per cancellare un pezzo di vita bastano 40 minuti

Barbara Simoni, di Lucca, medico estetico e dermatologa, rimuove tattoo con la luce pulsata del laser: "Dal 2015 le richieste sono aumentate del 20%. Ecco chi viene da noi"
 

Barbara Simoni, 40 anni di Lucca: "Una volta ho tolto un tatuaggio a una mamma che aveva fatto disegnare i volti dei suoi figli"

  “Disturba i clienti. Me li spaventa, va cancellato”. Nel girone dei pentiti c’è finito pure lui: un tatuatore. Il “666” che si era fatto incidere sul collo era diventato la sua Bestia. E quando si è accorto che disturbava alcuni clienti, ha bussato al Centro Medico Martini di Lucca. Una delle strutture sanitarie private italiane che offre la redenzione ai pentiti del tattoo. Quelli per cui la pelle incisa, nel 2021, rischia ancora d’essere marchio d’infamia. A casa e al lavoro. “Qui grazie alla luce pulsata del laser, riusciamo a mandare in frantumi i pigmenti di colore sotto pelle”. E rimuovere i tatuaggi. Se il corpo è un tempio, i tatuaggi le pareti affrescate, Barbara Simoni, 40 anni, medico estetico e dermatologa, è la sua imbianchina. “Una volta disintegrati col laser, i pigmenti saranno “mangiati” e sgretolati dai melanofagi. Poi metabolizzati ed espulsi tramite il fegato: non si tratta di un processo tossico”. I pentiti del tattoo in Italia sono almeno 330mila. Una tribù in crescita nella foresta d’inchiostro che l’Istituto Superiore di Sanità stima abbia messo radici su un numero tra i 6 milioni e i 7 milioni d’italiani. Ma perché ci si pente? La risposta è davanti alla macchina laser Q-Switched. C’è un lettino di pelle. Sdraiati qui si sputa il rospo sul divorzio fra pelle e tattoo. “Ogni anno arrivano almeno 120 persone”. Ognuna con una storia. “Ne parlano alla prima consulenza che è gratuita e cerchiamo di capire che risultato ottenere”. Spesso finiscono qua per lavoro. Quello che, col tatuaggio sbagliato, si rischia di perdere o non avere: l’Iss stima infatti che il 10% dei tatuati sia disoccupato o in cerca di lavoro, contro il 7,5% dei non tatuati. “Ma vengono anche per cancellare il nome di amici con cui hanno litigato o ex partner. Una madre è venuta per eliminare il volto dei figli dal braccio. Di solito chi si sottopone all’intervento ha tra 20 e 45 anni”. Entrano in clinica dopo le occhiatacce dei colleghi o per i divieti delle policy aziendali. Quelle che vietano disegni su collo, nocche, zigomi. “Abbiamo avuto un lottatore di Mma: aveva un grosso disegno su tutto il braccio”. La parte finale terminava con arabeschi in forma di ideogrammi. Il loro significato però era qualcosa di troppo tenero per gli avversari. Da cancellare. “Sono servite circa dieci sedute per eliminare la parte interessata, salvando il resto. Spesso si ha anche paura di non riuscire a far buona impressione ai colloqui”. Come l’agente immobiliare in rapporti col mondo della Diocesi. Aveva una stella sul polso. Il significato: unione tra Terra e Cielo. Quello negli occhi di chi lo guardava: la Jude Stern gialla appuntata sulle casacche dei deportati nei lager. “Si sentiva a disagio ed è venuto da noi. Riceviamo richieste anche per le croci. Un simbolo che, al lavoro, può essere frainteso”. La croce, se “greca” o “potente”, cioè con dimensioni identiche dei due bracci, può diventare altro: non sempre l’emblema araldico del coraggio. “A una nostra paziente dicevano che sembrava una svastica e l’ha rimossa. Dal 2015 a oggi le richieste sono aumentate del 20 per cento. I più eliminati sono disegni che possono causare interpretazioni razziali del tatuaggio”. Tibie, teschi, serpenti, aquile, armi da fuoco. Qui passa anche chi sogna le forze dell’ordine. “Aspiranti poliziotti, carabinieri e finanzieri chiedono la rimozione per tatuaggi che potrebbero spuntare dalla divisa e farli escludere”. Il costo va dai 50 ai 150 euro a seduta. “Ma dipende dall’ampiezza. Col laser ricalchiamo i passi del tatuatore. La luce pulsata interagisce solo con la pelle tatuata a intervalli di picosecondi o nanosecondi a seconda del tipo di macchinario. La sensazione è come essere punti da uno spillo, ma la pelle poi si abitua e anestetizza, non fa più male”. Una seduta dura anche 40 minuti. “Per disegni importanti possono servirne una decina in un anno visto che servono tempi per il riposo della pelle”. Che non sempre torna vergine. “Il nero si elimina con più facilità, invece i pigmenti che resistono sono il giallo, il rosso e il verde”. In quel caso il tattoo scolorisce lentamente a ogni sessione, diventando quello che si chiama ghost, un’ombra. Dura a morire. “Ma tutti sono molto determinati, vogliono andare fino in fondo e vedere come sarà”. Sanno che si può cancellare quanto scritto, non quanto provato. E lo sa anche lei, l’imbianchina a caccia di ombre. “Per loro la parte più dura non è dimenticare il passato di un tatuaggio. Ma il futuro che avevano immaginato quando l’hanno fatto”.