
Manifestazione in favore del diritto all'aborto
Il 22 maggio ricorre l’anniversario della legge 194 del 1978, un caposaldo nella storia dei diritti civili italiani, che ha regolamentato l’interruzione volontaria di gravidanza mettendo fine a decenni di clandestinità, dolore e morte. Ma oggi, a 47 anni dalla sua approvazione, il quadro che emerge dai dati è allarmante: ciò che la legge garantisce sulla carta spesso non si realizza nella pratica quotidiana. Il diritto all’aborto, teoricamente acquisito, resta di fatto inaccessibile per molte donne. L’alto numero di medici obiettori di coscienza – il 63,4% dei ginecologi nel 2021 – rappresenta uno degli ostacoli principali all’effettiva applicazione della legge.
In alcune regioni, come Sicilia, Abruzzo e Molise, le percentuali superano l’80%, lasciando intere strutture sanitarie sprovviste di personale disponibile a effettuare l’interruzione volontaria di gravidanza. In queste condizioni, i tempi di attesa si allungano ben oltre i limiti previsti, vanificando di fatto il diritto stesso e costringendo molte donne a spostarsi in altre regioni o a cercare soluzioni rischiose. L’obiezione di coscienza, strumento previsto dalla legge 194 per tutelare l’autonomia dei professionisti, si è trasformata in un dispositivo strutturale che ostacola il servizio pubblico, spesso tollerato o addirittura favorito da direttive interne e logiche organizzative. In alcuni casi si parla addirittura di “obiezione di struttura”, non prevista dalla legge, dove nessun medico o operatore è disponibile, neppure per fornire informazioni adeguate.
Questa distorsione ha conseguenze profonde non solo sul piano sanitario, ma anche su quello sociale, culturale e politico. Le donne che si rivolgono al sistema sanitario per interrompere una gravidanza si trovano di fronte non solo a ostacoli pratici, ma a un clima giudicante, colpevolizzante, a volte apertamente ostile. Vengono riportati episodi in cui alle pazienti non vengono somministrati antidolorifici durante l’intervento, o vengono sottoposte a pratiche dissuasive travestite da counseling.
Questo atteggiamento, che punta a scoraggiare l’aborto attraverso la sofferenza o la pressione psicologica, rivela una visione paternalistica e discriminatoria che considera la donna incapace di decidere autonomamente del proprio corpo. È qui che il discorso si fa politico e sociologico. Una legge, per essere veramente efficace, non può limitarsi a esistere; deve essere applicata, garantita, vigilata. Quando l’attuazione viene ostacolata da meccanismi interni al sistema, la responsabilità non è solo dei singoli operatori, ma dell’intero assetto istituzionale e culturale. Lo Stato che proclama un diritto ma non ne assicura l’accesso si rende complice della sua negazione.

In un Paese che spesso si proclama laico e democratico, risulta contraddittorio che una scelta così intima e personale come l’aborto sia ancora oggi condizionata da retaggi ideologici e religiosi. I numeri globali sono eloquenti: 121 milioni di gravidanze indesiderate ogni anno nel mondo, il 60% delle quali si conclude con un aborto e quasi la metà in condizioni non sicure. Questi dati non appartengono solo ad altre latitudini: sono una realtà anche italiana quando il sistema non funziona.
Il vero nodo da sciogliere oggi non è la legittimità dell’aborto – sancita da una legge dello Stato e confermata dal referendum del 1981 – ma la volontà politica di garantirne l’accessibilità effettiva. Non basta celebrare la legge 194 come conquista storica: occorre vigilare su come viene applicata, su come viene difesa da un uso strumentale dell’obiezione di coscienza e da un clima culturale che tende a colpevolizzare le donne. La libertà di scelta, in ambito riproduttivo, è un indicatore fondamentale del livello di civiltà di una società. Se questo diritto resta inapplicato, allora la democrazia si svuota, e i principi di uguaglianza e autodeterminazione si riducono a enunciazioni astratte. Il 22 maggio deve essere sì un giorno di memoria, ma anche e soprattutto un’occasione per pretendere coerenza, responsabilità e giustizia.