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Home » Politica » Francia Márquez: la Colombia ha una vicepresidente nera, femminista e ambientalista

Francia Márquez: la Colombia ha una vicepresidente nera, femminista e ambientalista

Un cambiamento storico, sull’onda della prima vittoria della sinistra nel Paese sudafricano: “Dignità, giustizia sociale e ambientale, per la nostra libertà”

Arnaldo Liguori
21 Giugno 2022
Francia Márquez in campagna elettorale

Francia Márquez in campagna elettorale

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La conoscevano bene anche prima delle elezioni, in Colombia, Francia Márquez. Una combattente che ha sfidato le disuguaglianze sociali del paese e gli interessi minerari delle grandi multinazionali in favore di un ambientalismo dal basso, autentico. Ora, per la prima volta in oltre due secoli, il Paese avrà un presidente di sinistra, Gustavo Petro, che ha vinto al ballottaggio contro un immobiliarista miliardario. E con lui, c’è Márquez.

Attivista, madre single, con profonde radici nell’identità della Colombia, negli ultimi 20 anni ha combattuto senza sosta contro le multinazionali che sfruttano l’area intorno al fiume Ovejas e costringono le persone ad abbandonarlo.

Nel 2018, vinse il Goldman Prize, il più ambito premio in favore dell’ambiente, per i suoi sforzi contro le miniere illegali colombiane. Nel 2019 fu vittima di un attentato con armi e granate mentre manifestava contro l’estrazione mineraria illegale nel suo Paese. Sopravvisse per lottare ancora e candidarsi in politica, dove la sua presenza in campagna elettorale ha fatto la differenza.

Da sempre, è stata molto critica nei confronti dei Governi legati ai grandi centri del potere economico. “Sono una donna afrocolombiana – scrisse –, una madre single di due figli che ha dato alla luce il suo primo figlio all’età di 16 anni e ha lavorato nelle famiglie per pagare le bollette. Ma sono anche una pluripremiata attivista ambientale. E, soprattutto, un avvocato che potrebbe diventare il primo vicepresidente nero della Colombia, ha dichiarato in numerosi raduni elettorali. I nostri governi hanno voltato le spalle al popolo, alla giustizia e alla pace. Se avessero svolto bene il loro lavoro, io non sarei qui”.

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Instagram

  • Stando a quanto dicono gli studiosi, i social network sono portatori malati di ansia e depressione. E, diciamocelo, non servivano studi e numeri per capirlo. I più attrezzati di noi a comprendere le dinamiche social e sociali che si nascondono dietro l’algoritmo di Meta già da tempo avevano compreso che “social sì, ma a piccole dosi”.

Eppure la deriva c’è stata e adesso distinguere il virtuale dal reale, l’immagine dallo schermo, il like dall’affetto sembra essere diventata un’operazione assai difficile.

Il senso di inadeguatezza delle persone di ogni età sta dilagando. Pare che il meccanismo sia più o meno questo: l’erba del vicino – di account – è sempre più verde. 

Che poi nella realtà non è così poco importante. A importare è ciò che appare, non ciò che è, tanto da ridurre il dilemma “essere o non essere” a coltissimo equivoco elitario. Cogito ergo sum un po’ poco, verrebbe da dire, se non fosse che la faccenda è seria e grave. 

Lo stress da social è reale e affligge grandi e piccini, senza distinzione di ceto. Una vera e propria sofferenza psicologica che tende a minare le fondamenta dell’intera società. Tra il 2003 e il 2018, i casi di ansia hanno registrato numeri da record, così come quelli di depressione, autolesionismo e problemi di alimentazione. Questo basti per capire che limitarsi a catalogare il problema come questione minore è sbagliato e pericoloso.

Complice il recente lockdown, la corsa verso la psicosocialpatologia ha accelerato il passo. L’unica soluzione a portata di mano, seppur temporanea, è prendersi una pausa dai social e uscire dalla bolla, come Selena Gomez insegna. 

Vivere la vita vera, in Logout, fatta di persone in carne e ossa che di perfetto hanno poco o nulla e che combattono ogni giorno per cercare di assomigliare a ciò che vorrebbero essere. 

E tu quanto tempo passi sui social? 📲

Di Margherita Ambrogetti Damiani ✍

#lucenews #lucelanazione #socialout #viverelavita #nofilter #autoconsapevolezza #stressdasocial #socialdetox
  • Ad appena 3 anni e mezzo, Vincenzo comunica ai genitori il desiderio di indossare vestiti e gonne. Alla richiesta viene inizialmente, quanto inevitabilmente, dato poco peso, come se fosse un gioco… 

Ma 6 anni e mezzo dopo Vincenzo fa un coming out più deciso, chiede di potersi chiamare Emma e di indossare un costume femminile alle lezioni di danza, che condivide con le due sorelle maggiori. Pochi giorni fa, grazie anche alla comprensione e disponibilità della sua insegnante di danza, ha vissuto il suo momento di gloria, esibendosi in un saggio-spettacolo di fine anno costruito su misura, con una coreografia che racconta la sua storia.

La danza, si sa, può essere di grande aiuto per costruire la propria identità, perché è prima di tutto libertà di espressione. 

“Gli anni di pandemia sono stati decisivi per mia figlia. La riflessione è diventata sempre più profonda e, con sofferenza, lo scorso ottobre, è riuscita a parlarci di ciò che davvero le stava a cuore. Le prime sostenitrici sono state proprio le sorelle, più aperte e predisposte mentalmente su questa tematica. Noi genitori ancora pensavano a una latente omosessualità, ma non era così: per nostra figlia la propria identità di genere non coincideva con il sesso assegnatole alla nascita”.

I primi tempi non sono stati facili, per certi aspetti è stato come elaborare un lutto perché Emma volava cancellare tutto il suo passato, buttando via foto e vestiti. La sua è stata una rinascita vera e propria, il suo “no" al nome, al genere maschile, è ormai definitivo. 

A scuola, ha chiesto e ottenuto di potersi chiamare Emma, così come in società. Fondamentale è stato il supporto della famiglia che, a un certo punto, ha capito che non si trattava di un gioco, malgrado la giovanissima età.

“A chi tuttora continua a ripeterci che avremmo dovuto insistere e iscriverla a calcio, dico con fermezza: i figli vanno ascoltati, è giusto che vivano la loro vita, quella più congeniale al loro sentire, perché tutti meritiamo di essere felici”.

Di Roberta Bezzi ✍

#lucenews #lucelanazione #bologna #emma #transgender #transrights
  • “Trova qualcuno a cui piaci come sei e digli di farsi curare”, scrive Andrea Pinna in uno dei suoi tipici post su Instagram. 

Ma se Andrea Pinna, apprezzato per i suoi aforismi taglienti, “né bello né ricco” come dice lui, è diventato uno degli influencer più originali del web, è anche perché ha fatto entrambe le cose: ha accettato se stesso com’era e ha intrapreso un percorso di cura.

Trentacinque anni, origini sarde e milanese di adozione, ha cominciato il suo cammino partendo dal gradino più basso. 

"Lavoravo a Roma nel mondo dei negozi, commesso e poi vetrinista. Mi hanno mandato in Sardegna, la mia terra, a seguire nuovi negozi, ma poco dopo hanno chiuso tutto lasciandomi senza lavoro. E lì si è scatenata la mia prima fortissima depressione. Che ho affrontato con Facebook, scrivendo status più o meno sarcastici per scaricare la rabbia”.

Non una depressione qualsiasi, ma un malessere profondo che a distanza di anni gli verrà diagnosticato come bipolarismo. 

"Non è stato facile. Ho passato periodi che non dormivo mai e altri in cui stavo sempre a letto. Avere un disagio psichico non è una passeggiata e bisogna raccontarlo, imparare ad ascoltarsi”.

Sul suo profilo Instagram @leperledipinna ha deciso di portare avanti due battaglie: quella per i diritti civili dei gay e l’altra per dare voce ai problemi mentali.

“La prima la combatto in prima persona da tanto tempo, la seconda per far capire che se vai dall’ortopedico quanto ti fa male il ginocchio è giusto andare da uno psicoterapeuta o uno psichiatra quando hai un disagio mentale o psicologico”.

E attraverso le dirette Instagram di psicoterapinna "racconto la mia storia, il mio vissuto, chiamando gli esperti a parlare dei vari problemi psicologici che la gente può avere”.

La storia di chi ha trovato il coraggio di affrontare il bipolarismo e ha saputo rendere i social un luogo in cui sentirsi a proprio agio. Qualunque sia il disagio.

L
  • "L’autismo è un fenomeno che riguarda sì, in primo luogo gli autistici e le loro famiglie, ma anche la società in generale. Un nato o nata ogni 70/80 rientra nello spettro autistico ormai ed è quindi bene che anche i cosiddetti neuro tipici sappiano di cosa si parla”.

Dopo la standing ovation ricevuta lo scorso 2 aprile al Cinema La Compagnia di Firenze e il fortunato tour avviato nei cinema e nei teatri della Toscana, il documentario “I mille cancelli di Filippo” sarà nuovamente proiettato lunedì 27 giugno alle 21, nella Limonaia di Villa Strozzi a Firenze. Al centro della narrazione il figlio del noto autore Enrico Zoi, il giovane Filippo, colpito da spettro autistico.

Con la delicatezza e la magia tipica di uno scrittore che, prima di tutto, è un babbo amorevole, Enrico – insieme a sua moglie Raffaella Braghieri – apre una volta ancora le porte della sua casa per raccontare al mondo la realtà speciale della sua famiglia.

E il consiglio per i genitori che hanno appena ricevuto una diagnosi di autismo sul proprio bambino sarebbe quello di "non chiudersi, di non chiedersi perché, di guardare al mondo esterno, di aprirsi. Chiudersi non serve a niente, anzi… è un po’ come una partita di calcio: se non scendi in campo la perdi a tavolino, se invece accetti il confronto te la puoi giocare!”.

Di Caterina Ceccuti ✍

#lucenews #lucelanazione #enricozoi #imillecancellidifilippo #firenze #autismo #autismawareness
La conoscevano bene anche prima delle elezioni, in Colombia, Francia Márquez. Una combattente che ha sfidato le disuguaglianze sociali del paese e gli interessi minerari delle grandi multinazionali in favore di un ambientalismo dal basso, autentico. Ora, per la prima volta in oltre due secoli, il Paese avrà un presidente di sinistra, Gustavo Petro, che ha vinto al ballottaggio contro un immobiliarista miliardario. E con lui, c’è Márquez. Attivista, madre single, con profonde radici nell’identità della Colombia, negli ultimi 20 anni ha combattuto senza sosta contro le multinazionali che sfruttano l’area intorno al fiume Ovejas e costringono le persone ad abbandonarlo. Nel 2018, vinse il Goldman Prize, il più ambito premio in favore dell’ambiente, per i suoi sforzi contro le miniere illegali colombiane. Nel 2019 fu vittima di un attentato con armi e granate mentre manifestava contro l’estrazione mineraria illegale nel suo Paese. Sopravvisse per lottare ancora e candidarsi in politica, dove la sua presenza in campagna elettorale ha fatto la differenza. Da sempre, è stata molto critica nei confronti dei Governi legati ai grandi centri del potere economico. “Sono una donna afrocolombiana – scrisse –, una madre single di due figli che ha dato alla luce il suo primo figlio all’età di 16 anni e ha lavorato nelle famiglie per pagare le bollette. Ma sono anche una pluripremiata attivista ambientale. E, soprattutto, un avvocato che potrebbe diventare il primo vicepresidente nero della Colombia, ha dichiarato in numerosi raduni elettorali. I nostri governi hanno voltato le spalle al popolo, alla giustizia e alla pace. Se avessero svolto bene il loro lavoro, io non sarei qui”.
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