Per capire quanto ancora sia lunga - e in salita - la strada per le donne al potere basta dare un’occhiata veloce ai numeri. Le donne che siedono in Parlamento europeo sono il 39.3%. In Europa, le ministre non superano il 30%. Sui premier la faccenda si complica: solo il 14.3% è donna. “Sì, ma la Commissione europea e la BCE sono guidate da due donne”, starete pensando e non a torto. Certo, Ursula von der Leyen e Christine Lagarde rappresentano un segnale positivo ma non sono sufficienti due nomi per invertire la rotta.
Nel mondo, sono solo 20 i capi di Stato donna. In Italia, non abbiamo mai avuto una premier né una Presidente della Repubblica e attualmente vantiamo - si fa per dire - solo 8 donne su 23 ministri. Nelle aziende la situazione non è tanto più rosea. Le dirigenti sono solo il 17%, le CEO il 3%, contro una media europea del 7%. Al netto dei ruoli apicali, le donne che lavorano in Italia sono solo il 53,2% contro il 78% delle svedesi. Appare chiaro, dunque, che l’ascensore sociale per la maggior parte delle italiane è bloccato al piano zero e che le condizioni di partenza rappresentano di per sé un deterrente. Un cane che si morde la coda, si direbbe. Eppure, ci sono schiere di donne convinte che qualcosa possa davvero cambiare, a partire dai sistemi di potere che, per come sono oggi, sono accoglienti solo per gli uomini. La chiave, dunque, parte essere una vera e propria rivoluzione, a cominciare proprio dal significato della parola “potere” che, troppo spesso, dalle donne viene interpretata solo nella sua accezione più negativa ma che, invece, potrebbe diventare la chiave di volta per un cambiamento radicale non solo nei fatti ma anche nei presupposti.
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